Rossetto raggiunge lo stato di grazia promuovendo fughe su fughe al Tour.
Stéphane Rossetto è l’uomo della fuga, échappée la chiamano i francesi. Ci prova sempre e in tutti i modi. Ci prova in pianura quando il Tour è solo all’inizio, ci prova nelle tappe mosse a metà corsa, ci prova persino in montagna, terreno che fa un po’ a pugni con le sue fibre, ma che non scalfisce le sue ambizioni.
Rossetto è un corridore che si butta nella mischia con la faccia da bucaniere e un profilo un po’ all’antica: a fine corsa raccoglierà tante fughe da contarle su due mani, poco importa se tutte le volte verrà ripreso dal gruppo: “Non è possibile che la gente non voglia andare all’attacco” – racconta a Le Monde – “questo è il fottuto Tour de France. Alcuni arriveranno a Parigi e io mi chiedo: cosa avranno fatto? Bene, bravi, avete trascorso sei ore in gruppo? Cazzo, che tristezza.” Senza mezzi termini.
Stéphane Rossetto ha una vera e propria faccia da Tour de France, nonostante a trentadue anni sia stata la sua prima volta lì, alla Grande Boucle. Roberto Damiani ci dice di avergli dato un soprannome, casquetteur, per questo suo forte legame con un ciclismo che sa di antico. Lui non conosce altri modi di correre e allora prende la bicicletta e pronti, via si getta all’attacco. In questo modo lo scorso anno vinse la sua corsa più importante in carriera, una tappa al Tour de Yorkshire, dopo centosettanta chilometri di fuga, quasi centotrenta dei quali in solitaria, precedendo sul traguardo un certo Greg Van Avermaet.
È un corridore vintage, ma meticoloso. Un corridore che vive il ciclismo sulla pelle, che corre più con il cuore che con le gambe: “Je fais du vélo avec le cœur”, racconta a un giornale francese. Ama un ciclismo fatto d’istinto, ci dice sempre Roberto Damiani, vuole gustarsi ogni attimo in sella alla bicicletta.
Ed è così che il primo giorno della sua prima tappa del suo primo Tour ce lo ritroviamo davanti per cinquanta chilometri, da solo, con il gruppo a inseguire: “Stavo bene, ma sul falsopiano facevo al massimo i trentacinque all’ora, non andavo avanti, ma è stato bellissimo“, dirà a fine corsa.
Quel giorno la fuga di giornata è stata già ripresa, le squadre dei velocisti non hanno intenzione di farsi sfuggire la prima volata e mentre si sgomita per trovare spazio in gruppo, lui parte in solitaria. A fine tappa vince il premio del più combattivo di giornata e due giorni dopo porterà quel pettorale rosso di nuovo all’attacco, sulle strade della corsa francese. Due tappe in linea: due fughe. Andrà in avanscoperta anche il settimo giorno: prima del riposo avrà totalizzato quattrocentoventisei chilometri a farsi inseguire dal gruppo. Più di ottocento a fine Tour.
Vasseur, general manager della Cofidis, e che proprio grazie a una fuga nel 1997 conquistò tappa e maglia gialla, di lui racconta che è un ciclista diverso dagli altri, lo definisce affascinante, audace, sempre sorridente. Come Vasseur, Rossetto si lancia verso avventure “che possono sembrare improbabili“, come improbabile sembrava la sua presenza al Tour dopo un grave infortunio a marzo: una caduta in discesa mentre si allenava, un gatto che gli attraversa la strada, lui cade e si rompe il bacino. Pensava di rimanere paralizzato, poi la riabilitazione, le stampelle, il secondo posto nel campionato francese a cronometro e la chiamata per la corsa più importante del mondo: “A fine carriera non puoi dire di essere stato un corridore se non hai fatto il Tour“.
Quello del baradouer è un ruolo che Rossetto interpreta perfettamente, come lo interpretava perfettamente uno dei suoi idoli, Sylvain Chavanel. Chacha era perennemente in avanscoperta: vinse nel 2008 a Montluçon, dopo una fuga a due con Jeremy Roy in un finale pirotecnico, tra attacchi e contrattacchi. Fu l’ultima vittoria della Cofidis al Tour.
Rossetto brontola contro gli attendisti, contro chi non interpreta il ciclismo in maniera battagliera, soprattutto ce l’ha con quelli che, come lui, non hanno il talento per vincere le grandi corse. Non li capisce, dice, stanno in gruppo senza fare nulla, hanno paura di attaccare, perché per loro fuggire è fallire. Hanno paura di attaccare perché dopo dieci giorni ci sono le montagne. Per questo trova affinità con Alessandro De Marchi, uno che di certo non teme lo stare faccia al vento facendosi inseguire dal gruppo: “È un corridore che incarna il mio spirito. È spettacolare, imprevedibile: un giorno attacca in pianura, un giorno può vincere una tappa di montagna“. Al Tour, però, ha avuto modo di prendersela anche con chi era in fuga con lui, nell’undicesima tappa: “Io ho dato tutto, i miei compagni di fuga anche, Aimé De Gendt invece no. Faceva finta di tirare e poi ci ha attaccato per prendere il dorsale rosso. Per andare avanti in queste azioni, bisogna essere leali“.
La vittoria di tappa Rossetto l’assapora in una folle fuga con Offredo, compagno di scorribande in corsa, amico vero una volta scesi dalla bicicletta. I due scelgono la tappa più lunga del Tour per farsi oltre duecento chilometri davanti col gruppo in caccia: verranno ripresi a meno di quindici chilometri dall’arrivo. A fine tappa Rossetto dirà che prima o poi l’avremmo rivisto scappare per vincere una tappa. E in effetti ha mantenuto la promessa, perché Rossetto avrà anche la faccia da pirata, è vero, ma resta pur sempre l’uomo della fuga.
Foto in evidenza: Cofidis, Twitter