Per un corridore come Thomas Voeckler non esistono mezze misure.
Sabato 17 luglio 2004. Plateau de Beille. Poco dopo le cinque del pomeriggio. La postazione di France Télévisions in cui siedono Christophe Josse e Bernard Thévenet è in subbuglio: sono già passati quattro minuti e mezzo da quando Lance Armstrong ha tagliato il traguardo precedendo Ivan Basso in una volata a due. Per conservare la maglia gialla, Thomas Voeckler ha meno di un minuto a disposizione. Quella stessa a mattina il suo vantaggio sul texano era di cinque minuti e ventiquattro secondi.
Sino a dieci giorni prima ben pochi sapevano chi fosse questo atleta del team La Boulangère di Jean-René Bernaudeau. L’8 luglio, però, in una fuga bidone verso Chartres compare il suo nome e, gioco del destino, è anche il nome meglio messo in classifica generale. Altro pomeriggio di fuoco per i francesi, giornalisti e tifosi, quel giovedì: la maglia gialla sulle spalle di un transalpino non ci finiva infatti dal 2001, tre anni prima, quando un altro francese, pure lui accasato da Bernaudeau, François Simon, riuscì a strapparla in circostanze simili.
Voeckler era già professionista, nella stessa formazione tra l’altro, ma quell’anno aveva scelto il Giro d’Italia: penultimo a Milano ma unico corridore del team ad arrivarci. Breve sodalizio giallo, quella volta, visto che solo tre giorni dopo Simon dovette cedere su pendenze troppo rigide anche per un avventuriero come lui. A Chartres l’8 luglio 2004 vince Stuart O’Grady, ma il boato del pubblico è per l’ufficialità della maglia gialla dell’alsaziano Thomas Voeckler. Il pullman de La Boulangère passa giorni di assedio: giornalisti e telecamere vogliono conoscere la storia di questo ragazzo con il viso da bambino segnato da mille smorfie.

In quei pomeriggi assolati, mentre il gruppo sfila in mezzo a campi di girasole nel centro della Francia, la storia di Voeckler si fa romanzo ciclistico. Thomas è nato in Alsazia, a Schiltigheim, nel giugno del 1979, ma è cresciuto in Martinica. Per questo i francesi lo chiamano “Ti-Blanc”, piccolo bianco. I genitori, appassionati di navigazione, gli hanno fatto attraversare l’Atlantico già da fanciullo. È proprio in una di quelle traversate che Voeckler perse il padre, risucchiato dalle acque. Forse per questo il ragazzo sceglie il viaggio, un marchio di famiglia, ma decide di percorrerlo sulla terra ferma: perché quelle biciclette che aveva visto durante un passaggio della corsa francese in Alsazia, quando era piccolo, gli erano sembrate più sicure. Gli ispiravano fiducia. Una fede a cui votarsi, pagando pegno in fatica e sudore, per superare il tradimento delle acque.
Voeckler si fiderà talmente tanto della bicicletta che sei anni dopo, nel 2010, rischierà di finire la carriera in anticipo pur di mantenere fede alla seconda “famiglia”, quella ciclistica, il cui padre è Bernaudeau. Tempi bui, quelli per La Boulangère divenuta poi Direct Énergie, che rischia di non avere uno sponsor per proseguire l’attività fra i professionisti. La crisi economica travolge tutti. Thomas Voeckler non è più un ragazzino, ha dimostrato di che pasta è fatto, e gli sponsor per gareggiare li avrebbe pure trovati: Cofidis, ad esempio. E magari avrebbe trovato anche ingaggi più sostanziosi. Niente da fare. Diventa Cunctator, uno stratega temporeggiatore, che per uno come Voeckler sembra quasi l’assurdo; si fida di Bernaudeau e non sigla il contratto con Cofidis. L’ingresso di Direct Énergie ripagherà la fiducia. Certo, ci sarebbero state alternative più redditizie, ma all’alsaziano interessa relativamente.
Thomas Voeckler aveva tagliato il traguardo di Plateau de Beille dopo cinque minuti e due secondi dal passaggio di Lance Armstrong e, non essendo la matematica un’opinione, aveva mantenuto quella manciata di secondi per vestire la maglia gialla anche alla partenza del giorno dopo da Carcassonne. C’è una foto di Voeckler con un pugno alzato, la maglia gialla slacciata su un petto non depilato e un sorriso incredulo. È di quel giorno. È su quell’immagine che anche la televisione italiana si lascia andare ad un
“e ci riesce, Thomas. La maglia gialla resta a Voeckler”.
Non vogliamo pensare a cosa sia successo dai francesi. C’è immedesimazione per questo ragazzo che ha battuto il più forte pur non essendo il più forte. Qualcuno spera anche che l’alsaziano possa vincere il Tour. Forse non quel Tour. Ma un Tour, prima o poi.

Voeckler è un corridore fiero. Un atleta che si concede totalmente al pubblico ma che si arrabbia anche con quello stesso pubblico. E qui qualcuno che lo ha in antipatia dirà: “Con chi non si arrabbia Voeckler?”. Non si potrebbe neppure dargli torto. Non è evidente da quelle immagini del 2004, ma il giovane Thomas non è di certo un pezzo di pane fra gli atleti del plotone. È un personaggio, un cagnaccio; per volontà sua e della storia che lo racconta. Tuttavia non fa nulla per scrollarsi di dosso questa aura di tifo sfrenato e di antipatie gratuite.
Negli anni lo si è visto litigare con le moto di ripresa, con compagni di fuga svogliati, con gli organizzatori e anche con i tifosi. A Chamrousse, nel 2014, mette piede a terra e risponde a tono ad un tifoso che lo incita con modi severi:
“Falla tu questa salita, se ci riesci”.
Robe da matti, direbbe il vecchio telespettatore seduto sul divano a fumare. Ma, se il cognome Voeckler è il misto di sensazioni che suscita oggi, è per quel suo essere attore mentre era corridore. Impersonava il tipico francese dell’immaginario europeo: vanitoso, permaloso e anche un poco stronzo, diciamocelo.
Un attaccante nato. Per necessità, certo, ma soprattutto per volontà. Il termine che lo definisce in francese è “barodeur“, attaccante battagliero. Ma forse non rende l’idea. Voeckler è lucidamente sfrontato. Un ciclista con il DNA da navigatore che solca gli oceani. Cos’erano i navigatori, se non pazzi sfrontati alla ricerca di qualcosa d’impossibile? Ieri più di oggi. Perché in mare ci si è sempre andati anche quando non c’erano i mezzi più adatti. Giovanni Verga si affidava alla Provvidenza, Dino Buzzati metteva in guardia dal Colombre il giovane Stefano Roi. Nessuno lo ha mai ascoltato. Se vai per acque sai che la sventura può capitare, ma questo non deve fermarti dal continuare ad andarci. Nell’indole di Voeckler c’è questo, e vaglielo a spiegare di risparmiare energie e di fare attacchi ragionati.

Avesse ragionato diversamente, forse Ti-Blanc avrebbe vinto ben più di quattro tappe nelle sue quindici partecipazioni alla Grande Boucle. Se si fosse risparmiato azioni in tappe riservate ai velocisti, rilanci quando la fuga era ormai finita e scatti ogni 14 luglio per dare sfogo all’orgoglio di essere francese, forse avrebbe più tappe nel suo palmarès. Sarebbe però rimasto un onesto ragioniere della bicicletta. Quasi il nulla per un’ indole come la sua. Da attore ha saputo cogliere l’animo del suo pubblico: ai francesi interessa ben poco se vinci, anzi, probabilmente è anche meglio se perdi; ma devi perdere sputando sangue, dando battaglia ai giganti e resistendo fino all’ultimo. Puoi anche batterti contro i mulini a vento ma ti devi immergere nel sudore. Anche l’inno francese lo ricorda: tutti devono farsi soldati per una causa. C’è molto di militare in una visione come questa. Già, i militari, altri folli mandati in avanscoperta a morire per la gloria: sì, la gloria altrui.
I ragazzi del 2004 erano già quasi adulti nel 2011. E se ci credevano nell’era Armstrong, figuriamoci quanto potevano crederci in un Tour segnato dall’incertezza come il primo del secondo decennio dei duemila. Voeckler attacca scrollando spalle e testa; torna in giallo a Saint-Flour e ci resta per dieci giorni, per la seconda volta. Ma stavolta a tre giorni da Parigi la maglia ce l’ha lui. I giornali iniziano a ventilare l’impresa. Il digiuno dei francesi vincenti al Tour che continua dal 1985 di Hinault potrebbe rompersi con lui, con il francese più francese di tutti. Alcuni parlano di favola gialla, altri scomodano paragoni poco consoni: ma si sa, l’epica è il vero colore del ciclismo e l’epica va a nozze con la grandeur del popolo giallo. La recita è magistrale ma Voeckler deve arrendersi.
Per la logica comune quel 22 luglio all’Alpe d’Huez i vincitori sono Pierre Rolland e e Andy Schleck: uno vincitore di tappa, l’altro in vetta alla classifica generale. Voeckler è un perdente, quel giorno: sconfitto dagli avversari e dalle salite. Questo secondo gli eventi. Poi c’è quello che ti raccontano le sensazioni della gente: sembra che Voeckler abbia vinto. Ha tenuto fede alla sua parte. È stato il suo DNA. È stato un eccellente navigatore pur senza i mezzi adeguati. Alcuni sperano nel podio. Niente. Sarà quarto e i Campi Elisi li vedrà solo sfilando la domenica, a Parigi. Per la numerologia, è il terzo corridore per giorni passati in maglia gialla senza però aver conquistato la classifica del Tour de France. Un altro omaggio alla Francia; non il più grande, tuttavia. Il più grande è la maglia di campione nazionale cucita sul petto già nel 2004.

Da quel podio mancato, i Tour de France di Voeckler saranno puro omaggio alla grinta. Non c’è un briciolo di ragione in almeno la metà delle sue azioni e forse in tre quarti di quelle linguacce, di quelle occhiate o di quelle mani levate per mandare a quel paese lo sfortunato di turno. Se Voeckler non ha mai vinto un Tour, forse è stato proprio a causa delle salite: non era un grande scalatore, va detto. E dov’è allora la ragione quando si pensa che nel 2012 a Parigi in maglia a pois è arrivato proprio lui, proprio Thomas Voeckler. Ha mandato a quel paese pure la ragione, l’alsaziano.
Voeckler è uscito di scena a Parigi nel luglio del 2017, al termine di un Tour de France dominato dal tatticismo e dalla tecnologia. Come spesso accade nelle fabbriche, Ti-Blanc è stato mandato in pensione dal nuovo che avanza. Dai nuovi leader che non hanno di certo il suo carisma, e soltanto i computer dati dallo staff di turno. Sedici anni di professionismo nella stessa squadra che nel frattempo ha cambiato nome ben sei volte. Costante nel cambiamento. Per orgoglio ha scelto lui quando dire addio. Lo ha fatto dopo aver corso un Tour d’assalto. Sconfitto prima di scattare. Ma sempre a testa alta. Attore dai mille volti. Ha scelto la sfilata sui Campi Elisi per l’ultima recita. Piccolo omaggio alla vanità. L’istrione cambia soggetto. Ma non finisce qui.
Foto in evidenza: ©Laurie Beylier, Flickr