Un campione del mondo tutt’altro che casuale

Abbiamo ingiustamente sottovalutato Mads Pedersen, il nuovo campione del mondo.

 

 

Nella ridda di emozioni che si era scatenata lungo Parliament Street, Michael Valgren è stato il solo che ha tentato di ostentare l’unica sensazione assente: la consapevolezza. Se Trentin non aveva ancora realizzato d’aver perso, se Küng non credeva d’aver davvero preso la medaglia di bronzo e se gli altri non pensavano che una giornata così surreale potesse avere una fine, Valgren si è dichiarato “tutt’altro che sorpreso dalla vittoria di Mads [Pedersen]. È un grosso talento e lo è sempre stato, sapete?”, ha detto ai giornalisti presenti.

Valgren c’ha provato, ma non è stato sufficientemente bravo a dissimulare il suo stupore: molti scatti, infatti, lo hanno immortalato a pochi metri da Sagan – dunque sesto all’arrivo, mica male – e dal traguardo di Harrogate mentre si porta le mani alla bocca intuendo il trionfo del connazionale. Perché Mads Pedersen non sarà il primo che passa, ma nessuno alla vigilia aveva puntato su di lui.

Negli ultimi tre anni, ovvero da quand’è professionista, Pedersen ha vinto undici volte – nelle dodici vittorie da professionista è inclusa una tappa del Giro di Norvegia che vinse nel 2016, quand’era ancora dilettante: cinque nel 2017, il suo anno più prolifico, quattro nel 2018, due nel 2019 – oltre al Mondiale c’è il Gran Prix d’Isbergues conquistato con una bella azione da lontano sette giorni prima della prova iridata.

Un corridore potente ma incostante, veloce ma altalenante e talvolta inaffidabile; nessuna vittoria nel World Tour, nessun piazzamento rilevante nelle due edizioni del Giro d’Italia alle quali ha partecipato, nemmeno un grande giro disputato nel 2019. Etichettandolo come “semicarneade” saremo stati forse un po’ severi, ma non ci siamo sbagliati poi di molto: i risultati parlano chiaro. Ma è qui che cade l’asino – vale a dire noi, nel caso specifico Bernardini: di Mads Pedersen non sono interessanti i risultati, quanto il percorso che l’ha portato ad essere l’atleta che oggi è.

In un pezzo commissionatogli da Rouleur, Mads Würtz Schmidt ha riportato indietro di quasi vent’anni le lancette del tempo. L’atleta danese della Katusha ha ricordato le prime corse e le prime conoscenze, su tutte quelle con Valgren e Pedersen, colleghi e amici coi quali ha vissuto più d’una avventura mentre le loro mamme, amabili e sagge, li aspettavano a bordo strada senza incensare il successo o stigmatizzare la sconfitta (si può parlare di sconfitta, quando ad otto anni non si vince una corsa di biciclette?).

©Esports RAC1, Twitter

Per Würtz Schmidt la chiave di volta delle loro carriere è stata l’incontro con Michael e Christa Skelde, che li accolsero a braccia aperte alla Cult Energy, squadra di riferimento del panorama danese. Se Christa si occupava del loro percorso di crescita – “umano, non solo sportivo”, ha puntualizzato Würtz Schmidt – è Michael che ha trasmesso loro il mestiere: “Ci ha insegnato a sfruttare ogni opportunità, a sacrificarci per i compagni, a muoversi nella maniera giusta nelle maglie della corsa che noi stessi dovevamo rendere dura. È uno tosto, non credeva che ci servissero le migliori biciclette sul mercato per vincere. In più, non era ossessionato dal risultato: l’importante era dimostrare una certa personalità, il resto sarebbe venuto di conseguenza. I migliori interpreti del suo pensiero, ovviamente, erano Valgren e Pedersen”.

Se Pedersen ha mollato il calcio e scelto il ciclismo, ciò è dovuto alla rabbia che provava quando la sua squadra perdeva nonostante lui avesse disputato una buona partita. Piangeva, era intrattabile, non capiva come mai dovevano succedere cose del genere – soprattutto si scoprì impotente a riguardo. Virando sul ciclismo, Pedersen pensava di mettersi in proprio. Le soddisfazioni sono giunte, è innegabile: da adolescente ha vinto una Parigi-Roubaix, la Corsa della Pace, una tappa al Giro della Lunigiana, una al Tour de l’Avenir.

Eppure fu proprio quando conobbe la vittoria che gli si dischiuse la verità: si vince e si perde insieme, la sconfitta e la vittoria non sono mai soltanto del capitano. D’altronde la tattica di gara impostata dalla Danimarca nello Yorkshire testimonia proprio questo: Pedersen non doveva essere il finalizzatore, bensì un prezioso punto d’appoggio in vista dell’attacco di uno dei due capitani, Valgren e Fuglsang. Non è la prima volta che Pedersen viene utilizzato con questa funzione – impensabile per il Pedersen calciatore.

©Frej Elbæk Schjeldal, Twitter

Al Giro delle Fiandre 2018, infatti, i capitani della Trek-Segafredo erano Stuyven e Degenkolb; siccome bisognava tenerli buoni per il finale, all’attacco di van Baarle e Langeveld a cinquanta chilometri dall’arrivo doveva necessariamente rispondere Pedersen. Tuttavia, come ad Harrogate, nessuno dei due capitani spuntò alle sue spalle; Terpstra lo agguantò e lo seminò, ma Pedersen resistette dignitosamente: chiuse secondo, mentre van Baarle e Langeveld – esperti, validi e già tra i primi cinque al Giro delle Fiandre – terminarono rispettivamente al dodicesimo e ventiduesimo posto.

Il giorno dopo la Trek-Segafredo annunciò il prolungamento del contratto del danese fino a 2020. “Sarà un protagonista delle classiche, tra qualche anno”, disse Dirk Demol, uno dei suoi direttori sportivi. “Aveva promesso che sarebbe stato davanti, in questa settimana, e ha mantenuto la parola. Sogna pavé, pioggia e maltempo: Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix sono le sue corse preferite e il suo momento non tarderà ad arrivare”.

Se avessimo letto e ascoltato certe dichiarazioni, forse non ci saremmo dimenticati d’inserire Mads Pedersen tra le papabili sorprese del Mondiale – quantomeno non lo avremmo dato per spacciato a prescindere contro Matteo Trentin. E le parole di Demol non sono un caso isolato. “Da junior conoscevo un solo modo di correre: in testa, selezionando il gruppetto dei migliori per poi regolarlo in volata”, dichiarò lo stesso Pedersen a Pez Cycling News nel 2015; e ancora: “In una corsa dura e lunga come il Giro delle Fiandre bisogna sopravvivere, non importa come ti chiami o quanto forte tu sia”, spiegò a Cyclingnews dopo il podio dello scorso anno.

©Mattia Luchetta, Twitter

Gli elogi di Valgren, dunque, non fanno altro che sottolineare e rimarcare la verità, una realtà che non si poteva non conoscere pena un brutto risveglio. Valgren ha completato così il suo vano tentativo dissimulatore: “Uno dei suoi pregi è l’ambizione: non teme la fatica, la distanza, la responsabilità; anzi, sa gestirle molto bene. Quando siamo entrati nel circuito, scalpitava letteralmente. Tipico di Pedersen: quando sta bene, nessuno può contenerlo”.

Il successo di Mads Pedersen è un inedito per la Danimarca: mai un danese aveva vinto la maglia iridata nella prova in linea riservata ai professionisti – la prima in assoluto fu Amalie Dideriksen nel 2016. Il Politiken ha scritto che la vittoria di Pedersen è il più grande risultato sportivo del paese insieme all’Australian Open conquistato da Caroline Wozniacki nel 2018 e al campionato europeo di calcio del 1992; Henrik Jess Jensen, il capo della Federciclo danese, l’ha definito senza mezzi termini “il giorno più bello che la Federazione abbia mai vissuto”.

Dopo la corsa, Pedersen era più stravolto che fiero; quando ha sganciato i piedi dai pedali, soltanto il giubilo da cui è stato sommerso gli ha impedito di soffermarsi sui crampi che gli stavano irrigidendo le gambe. Ha detto che la corsa è diventata una prova di sopravvivenza, che in giornate simili gli schemi saltano, lui sperava soltanto che il dolore e la fatica sparissero non appena il traguardo fosse stato in vista. C’erano sia dolore che fatica, ma lui evidentemente ha saputo domarli.

©Jordan Benjamin-Sutton, Twitter

Il trionfo, si sa, stordisce e ingigantisce, gonfia e cancella, mistifica e rilancia – a maggior ragione se inaspettato. “Mads Pedersen stacca van der Poel”, titolano alcuni link e video che si possono comodamente trovare in rete. I due occuparono i due gradini più alti del podio della prova in linea riservata agli juniores dei campionati del mondo di Firenze; van der Poel vinse l’iride a modo suo, attaccando prima salendo verso Fiesole e poi sul terribile strappo di Via Salviati, giungendo da solo, mentre Pedersen regolava il gruppo degli inseguitori ad una manciata di secondi.

Ad Harrogate il ciclismo ha raccontato una storia assai diversa. No, Pedersen non ha staccato van der Poel, sostenerlo sarebbe fazioso, scorretto e soprattutto falso. Tuttavia, Pedersen è diventato il più giovane campione del mondo dai tempi di Freire – soltanto due spagnoli, Freire appunto e Astarloa, hanno destato lo stesso stupore di Pedersen negli ultimi vent’anni – mentre van der Poel, per quanto coraggioso e ammirevole, ha concluso quart’ultimo a quasi undici minuti. “La mia vita cambierà per sempre”, ha chiosato difatti Pedersen. “Non sono più un outsider, con tutto quello che ne consegue”. Non ha staccato van der Poel, insomma, ma è come se lo avesse fatto.

 

 

Foto in evidenza: ©Trek-Segafredo, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.