Contro la felicità a tutti i costi: intervista a Marina Romoli

Marina Romoli continua a combattere, come del resto ha sempre fatto.

 

 

Le parole di Marina Romoli racchiudono tutta la densità di chi nella vita ha provato la sofferenza: per questo ascoltarle è un’esperienza che fa crescere. Lei, nata a Recanati il 9 giugno 1988 e cresciuta a Potenza Picena in sella a quella bici che doveva essere il raccordo tanto perfetto quanto incredibile per realizzare i suoi sogni. Lo è stata, almeno per un periodo: a partire da quel Mondiale, era il 2006, in cui si consacrò vicecampionessa nella prova in linea; e poi gli inizi con la Menikini, la Selle Italia e la Safi-Pasta Zara. Marina non aveva neanche ventidue anni quando, quel primo giugno 2010, uscita in allenamento con Matteo Pelucchi e Samuele Conti, si è trovata la strada sbarrata: una signora alla guida della sua auto non dà la precedenza e la travolge. Un lungo anno fra le corsie degli ospedali, diversi interventi chirurgici negli anni successivi e una diagnosi impietosa: lesione del midollo spinale. Marina non può più camminare. Per ora, aggiunge lei, perché la medicina corre veloce e una speranza dovrà pur esserci. Nel frattempo, attraverso la sofferenza, la consapevolezza di aver perso una parte importante di sé stessa e di averne trovata un’altra altrettanto importante. Una parte che prima nemmeno lei conosceva. Con Marina Romoli abbiamo parlato di ciclismo femminile, di ricerca, della Marina Romoli Onlus, di sicurezza stradale, della figura della donna, del tempo, dell’emergenza che sta riguardando il mondo. Per provare a dare un senso anche alle cose che ci accadono attorno e che non ci piacciono per nulla.

Marina, partiamo dalla tua passione per il ciclismo: com’è nata? 

Potrei dire che la mia passione per il ciclismo è nata sull’onda di quella che già c’era in famiglia, perlopiù in mio padre e nei miei zii. A questo si aggiunga il fatto che a Potenza Picena, mio paese d’origine, c’è una società ciclistica fondata nel 1945: il Gs Potenza 1945. È quella la società con cui ho iniziato a fare le prime pedalate e le prime gare da giovanissima. Da lì la passione è cresciuta e tra alti e bassi ho cercato di farmi strada. Categorie giovanili, campionati italiani, seconda al Mondiale: ho realizzato parte di quelli che erano i miei sogni da ragazzina. Nessuno ci avrebbe mai creduto. Questo sino al 2010, l’anno che ha decretato la fine di questo percorso ciclistico, ma non la mia presenza nel mondo del ciclismo.

©MarinaRomoliOnlus, Twitter

Hai scritto che la bicicletta serve per correre dietro a un sogno: quale significato attribuisci a questa frase e alla bicicletta?

Nel tempo questa frase ha mutato forma, ma non significato. Prima correvo sui pedali, ora ho la mia carrozzina: vivo un sogno diverso. Quello che si fa in bicicletta è un percorso duro, durissimo. Ci vogliono impegno, costanza, sacrificio, e fondamentalmente sei solo: c’è la squadra a darti una mano, ma molto dipende da te. Sono passata dal sognare di vincere determinate gare o determinati titoli a cercare di vincere le “gare” che poi ti propone la vita. Sono quelle che sto vivendo in questo momento: sto cercando di laurearmi, di trovare il lavoro che vorrò fare nella mia vita, anche se il sogno più grande è quello di trovare una cura per la lesione spinale attraverso la Marina Romoli Onlus. Forse è un’utopia? No, non credo. Penso sia solo un sogno molto difficile da realizzare. Però se non inizia mai nessuno a sperare, a sognare, a pensare qualcosa di grande, il mondo non andrebbe avanti.

Parliamo dell’incidente, quel 1 giugno 2010.

Sto cercando di rivalutare quello che mi è successo. Sai, negli anni una persona pensa, riflette e rivive tante emozioni: la rabbia, la paura, l’angoscia. Emozioni sia positive che negative. So che quel giorno ho perso tanto di me stessa, ho perso parte della mia vita per acquisirne forse un’altra nuova. La scelta è mia. Posso vederlo come un giorno in cui ho perso tanto oppure come il giorno in cui comunque sono riuscita a sopravvivere. Quel giorno il cielo non era proprio dalla mia parte, però sarebbe potuta andare peggio. Ho perso tanto, ma perlomeno sono viva. Era un normale giorno di allenamento, molto tranquillo. Ero assieme a Matteo Pelucchi e Samuele Conti: eravamo appena usciti da un bar di Lecco. Sulla statale che da Lecco va ad Airuno, una signora alla guida della sua auto ha scelto di non dare la precedenza, di non preoccuparsi della vita altrui, e mi ha tagliato la strada. Da quel giorno non posso più camminare. Da lì è partito un calvario ospedaliero che è durato più di un anno, per non parlare di tutte le operazioni a cui mi sono dovuta sottoporre negli anni successivi.

Dici spesso di aver perso una parte di te, ma di averne trovata, o ritrovata, un’altra addirittura migliore. Cosa intendi? 

Prima mi sentivo molto debole. A livello emotivo non ero così: sono sempre stata una ragazza coraggiosa, grintosa, una di quelle ragazze che non si arrendono mai. Non avrei mai pensato, però, di essere in grado di andare avanti nonostante queste difficoltà. Pensavo di non averne le capacità. Ma in fondo è normale: fino a che tu non ti interfacci con una difficoltà, fai fatica a capire chi sei veramente. Negli anni, anche negli ospedali in cui sono stata ricoverata, ho conosciuto delle persone davvero incredibili. Da loro ho capito il valore umano della sofferenza. La sofferenza va vissuta, è una risorsa. Ho capito che se le cose si affrontano assieme c’è la possibilità di trovare qualcosa di positivo anche nella peggiore situazione che una persona possa immaginare. Sono maturata tanto in poco tempo, addosso mi sento molti più anni di quelli che in realtà ho.

©Cure Girls, Twitter

Com’è possibile tramutare quell’angoscia e quella rabbia di cui mi parlavi in ulteriore forza per andare avanti? 

Forse è possibile solo nel momento in cui arrivi a capire che quei sentimenti non fanno altro che farti stare più male e “farti tornare indietro”. Non solo a livello emotivo, anche a livello fisico. Capisci che devi metterli da parte perché non hai altra scelta. Tu sei qui, sei vivo e devi vivere. E vivere vuol dire anche continuare a lottare per migliorare giorno dopo giorno. Alla fine dobbiamo costruire una speranza su quello che siamo. È giusto vivere la sofferenza, è sbagliato restare immersi nel dolore e non fare nulla. Abbiamo l’obbligo di andare avanti, perché solamente nel cambiamento possiamo trovare un miglioramento. Se non facciamo quel primo passo per toglierci dalla situazione in cui siamo, le cose non cambieranno mai. Anzi, potrebbero anche andare peggio. Serve il coraggio di muovere quel primo passo: da lì ci sarà sicuramente un miglioramento. Magari impercettibile, ma non importa: sarà quello che ti darà la forza per credere che a breve potrebbe succedere un’altra cosa piccola ma buona. Così continui a tenere duro. È fondamentale non rimanere da soli e avere sempre la voglia e la forza di chiedere aiuto: alle persone giuste, s’intende, quelle che ci sono sempre state.

Chi sono queste persone? 

La prima persona che mi viene in mente e che non mi ha mai abbandonato è mia madre. Parlando dei primi momenti successivi all’incidente, sicuramente Matteo Pelucchi e Samuele Conti: loro mi hanno salvato la vita. Quei primi istanti sono stati fondamentali e se non ci fossero stati loro chissà oggi di cosa parleremmo. Nei primi anni li ho sempre avuti accanto, non mi hanno mai lasciato sola.

C’è un messaggio di fondo che permea tutta l’attività della Marina Romoli Onlus: un grande dolore non resta solo un grande dolore se gli si offre il modo di diventare una possibilità per far nascere qualcosa di bello e di giusto. La Fondazione Michele Scarponi dice qualcosa di simile. 

Sì, è un qualcosa che ho provato a riassumere nella nostra frase: we can do it. Che in sostanza è questo: se sogniamo da soli, il nostro rimarrà soltanto un sogno. Certi sogni sono troppo grandi per una persona sola: allora l’unica possibilità è sognare assieme. In questo modo si fa più vera la prospettiva che da quell’idea possa costruirsi un pezzetto di realtà. Credo che nel mio sogno, nel sogno di Marina, si siano rivisti in tanti. Da lì potrebbe nascere un qualcosa che cambia non lo solo la mia sorte, ma anche quella di molti altri. Dall’obiettivo di una singola persona potrebbe diventare l’obiettivo di un gruppo di persone. Questa vuole anche essere una metafora per tutte le persone. Molti non hanno il mio stesso problema, ma sotto tanti punti di vista ne hanno di perfettamente riconducibili al mio.

Come ci si rapporta con la sofferenza quando la si vive ogni giorno?

Ho imparato che il primo passo che tu vorresti da chi ti si affianca in un momento difficile è il riconoscimento di questa sofferenza. La sua accettazione, per così dire. Niente “devi sorridere”, “devi essere felice”, “devi essere contento”. Io in questo momento ho bisogno di stare male e l’unica cosa che ti chiedo è di starmi accanto nel momento della sofferenza. L’accettazione e il riconoscimento della sofferenza sono fondamentali. La felicità è un pensiero utopico: è nelle piccole cose e nei piccoli momenti, talvolta la puoi rivivere grazie ai ricordi. La sofferenza è presente, quello che senti anche a livello: bisogna riconoscerla. Poi bisogna andare avanti, ma prima è necessario riconoscerla. Si nega troppo spesso nascondendosi dietro a stereotipi. La vita non è così, non è “devi essere felice”. C’è di più. Questo non significa sfociare nel pietismo: fa male alla dignità della persona. Odio il pietismo con tutta me stessa: non voglio che tu soffra con me, voglio solo che tu riconosca quello che sto vivendo e che me lo lasci vivere a modo mio. Se puoi ascoltami e resta qui per aiutarmi, il resto viene dopo. Ogni tanto qualcuno me lo chiede: come faccio a relazionarmi con questo mio amico che sta affrontando questa situazione? Io lo dico sempre: non servono troppe parole. Basta dirgli: io ci sono, per ogni cosa sono qui; ti ascolto, dimmi pure.

©MarinaRomoliOnlus, Twitter

Mi racconteresti nello specifico com’è nata e di cosa si occupa oggi la Marina Romoli Onlus? 

È iniziato tutto tra il 2011 e il 2012 grazie alla squadra ciclistica in cui correvo quando ho avuto l’incidente, la Safi-Pasta Zara. Un ringraziamento particolare lo devo all’allora organizzatrice del Giro Rosa, Sara Brambilla. Ci siamo incontrate in ospedale e da quel giorno è nata un’amicizia speciale. Insieme al presidente della mia squadra, Fabretto, Sara ha voluto fare questa cosa per me. Ho detto subito che mi sarebbe piaciuto che questa cosa non rimanesse solo mia, ma si aprisse a tanti: finanziando la ricerca per la cura della lesione spinale, ad esempio. Una condizione che accomuna tanti giovani. Soprattutto è necessario aiutare chi, a differenza mia, ha avuto un incidente e non era coperto dall’assicurazione. Inizialmente le difficoltà burocratiche erano molte, dai permessi dell’Agenzia delle Entrate all’organizzazione degli eventi. Ma per tutto c’è una prima volta, no? All’inizio è sempre tutto più difficile, poi s’impara e le cose vanno meglio.

Nel frattempo ho anche iniziato a rivivere la mia nuova vita, a sistemare casa, ho ripreso gli studi universitari. Nella mia vita sono cambiate tantissime cose e l’Associazione è cambiata con me. Grazie agli eventi degli ultimi anni abbiamo raccolto diversi fondi e finanziato molti progetti di ricerca, in particolare in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Svizzera. Sulla pagina dell’Associazione si può trovare l’elenco completo con date e nominativi delle donazioni. Abbiamo aiutato economicamente una quindicina di ragazzi che in questi anni hanno avuto incidenti sportivi, non solo ciclistici, che hanno comportato gravi disabilità. Abbiamo voluto far sentire la nostra vicinanza, la nostra disponibilità, il nostro supporto. Lo sport è stato quel mondo che ha sempre aiutato la Marina Romoli Onlus attraverso finanziamenti, eventi e partecipazioni varie.

C’è una frase che ripeti spesso: «Io so che tornerò a camminare. La scienza corre veloce ed io ce la farò». A che punto è la scienza oggi? 

Ho sempre partecipato ai vari meeting sul tema, incontrando e ascoltando i ricercatori e parlandone con loro. Con tutte le difficoltà del caso, ovviamente, perché la tematica è complessa ed è trattata quasi esclusivamente in lingua inglese. La strada è lunga e tortuosa: è una cosa che potrebbe accadere dall’oggi al domani, ma anche fra quindici anni. L’unica cosa che sappiamo è che prima o poi accadrà. Da trent’anni a questa parte si sono fatti passi da gigante. Trent’anni fa non si poteva nemmeno pensare alla possibilità di curare un danno neurologico. Oggi, invece, sappiamo che si può fare: non siamo però ancora riusciti a creare la rigenerazione del sistema nervoso centrale, ovvero dei neuroni e degli assoni che li connettono. Il passo è questo: mettere in pratica la teoria e replicare quello che già è stato fatto sugli animali. Ci vorranno tempo e idee brillanti, innovative. Purtroppo l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ha fermato tutto: gli eventi legati All’associazione non si possono tenere, i ricercatori si sono dovuti fermare e chi sta facendo ricerca sul modello animale in questo periodo non è potuto andare avanti.

Una volta hai dichiarato che «per guardare più degli occhi serve l’intelletto, perché gli occhi non vedono certe cose». Alex Zanardi ha dichiarato che, al suo risveglio in ospedale in seguito all’incidente che lo riguardò, ha guardato la parte del suo corpo che era rimasta e non quella che non c’era più. Tu come declini questo concetto? 

La mia esperienza è diversa. Per molto tempo ho continuato a guardare la parte di me che non c’era più; e la guarderò ancora, non lo nascondo. È una perdita enorme, non puoi far finta di niente. La tua vita cambia, ti viene sottratta una porzione di normalità. Forse se la nostra società fosse stata diversa, qualcosa sarebbe cambiato. Se ci fosse stata qualche rampa in più e qualche scala in meno, se la società fosse stata più pronta per quelle che sono le esigenze e le difficoltà di una persona con disabilità, quella parte di me che manca l’avrei sentita meno. Negare una sofferenza o una mancanza è sempre sbagliato: le cose brutte tornano fuori anche se passi una vita a nasconderle sotto il tappeto.

Io vivo la mia mancanza, la riconosco e allo stesso tempo ho imparato ad apprezzare anche l’altra parte. So che il bicchiere non è tutto pieno, ma è mezzo pieno: non mezzo vuoto. Marina è ancora qui, la mia testa c’è ancora e posso inseguire altri traguardi. Da quel giorno non mi sono mai fermata, se l’ho fatto è stato solo per ripartire al meglio: ho continuato a guadagnare indipendenza e ad aggiungere altri tasselli alla mia vita. Il punto è che cambiare visuale è difficile: noi ragioniamo per scorciatoie cognitive e crediamo a ciò che sembra più semplice. È un lavoro da fare ogni giorno, continuando a chiedersi: a prima vista sembra così, ma siamo sicuri che cambiando angolazione non muti tutto? Invito tutti a non fermarsi mai di fronte alle apparenze e a non aver paura della diversità: si possono scoprire delle realtà che stupiscono e che nemmeno si credeva di poter apprezzare così tanto.

©Ottobiano Sport Show, Twitter

Il tuo incidente è accaduto sulla strada. Sulla strada c’è il nostro mondo, parte della nostra quotidianità, ma le nostre strade purtroppo sono teatro di un’orrida ingiustizia. L’insicurezza stradale predomina nonostante le campagne per la sicurezza stradale e la richiesta di rispetto da parte di atleti professionisti e non. Qual è il tuo punto di vista? 

Alla base c’è la mancanza della reale percezione del pericolo e l’incapacità di mettersi nei panni degli altri. È l’egoismo tipico dell’essere umano che continua a mettere sé stesso e le proprie necessità davanti a ai bisogni altrui. Si ragiona sempre per categorie stagne: da una parte i ciclisti e i pedoni, dall’altra gli automobilisti. Secondo me non va bene: dovremmo dire noi genitori, noi figli, noi fratelli, noi amici. Alla fine siamo tutti parte di quella stessa categoria che è l’essere umano. Dovrebbe esserci più rispetto, ma anche più sensibilità nelle scuole e nelle scuole-guida. Spero che anche lì ci siano sempre più insegnanti e formatori in grado di far riflettere su queste tematiche. Bisogna cercare di capire le difficoltà e le esigenze altrui: se c’è un ciclista in mezzo alla strada, prima di iniziare a suonare il clacson o ad insultare sarebbe bene capire perché è lì. Magari si trova lì per evitare una buca a bordo strada. In questo modo le cose andrebbero meglio. Un segnale importante deve partire dalle nostre istituzioni, le quali dovrebbero dare il buon esempio. Una modifica del codice della strada che preveda il riconoscimento di questo diritto civile e umano sarebbe un passo avanti notevole: altrimenti continuerà a contare molto il comportamento dei singoli e in generale si potrà fare ben poco.

Poi c’è il buonsenso della gente. 

Certo, è fondamentale, ma spesso manca. Prendi le scuole, ad esempio: i bambini capiscono molto bene quali sono i problemi e gli atteggiamenti errati, però come tornano a casa continuano a vedere la messa in pratica di questi atteggiamenti errati. La formazione che noi facciamo nelle scuole, spesso va in fumo proprio per questi motivi. Anche per questo sarebbe auspicabile la presenza dei genitori quando si fa formazione a scuola.

Credi che la Federazione Ciclistica Italiana abbia delle responsabilità? 

La Federazione Ciclistica avrebbe dovuto agire una vita fa, ma a mio giudizio ha peccato in tantissime cose. Da anni si chiede di potenziare quello che è il risarcimento e la tutela a livello assicurativo per i possessori della tessera Fci: invece è stato fatto pochissimo, se non per niente. Non c’è ancora un organo preposto per fare in modo che nel momento in cui si ha un incidente possa affiancarti un avvocato, un assistente sociale, uno psicologo, qualcuno che ti dia una mano ad affrontare questa situazione che ti sconvolge la vita. Siamo soli. Non c’è nemmeno un impegno così importante per cambiare quello che è il codice della strada in favore della realizzazione di piste ciclabili, del rispetto del metro e mezzo, della possibilità di procedere in coppia in maniera lecita senza essere considerati criminali. In particolar modo questo potrebbe essere utile in caso di folti gruppi di ciclisti, cosa che già avviene in Spagna e in Inghilterra. Su questo versante c’è un forte impegno della Fondazione Michele Scarponi, di Marco Cavorso, dell’ACCPI, mentre la Federazione non ha fatto molto.

©ACCPI Assocorridori, Twitter

Manca la voglia di occuparsene oppure le capacità per poterlo fare con successo? 

Entrambe, direi. Non nascondiamoci dietro un dito: la situazione è complessa. Vuol dire impiegare diverse risorse; ma queste, essendo limitate, andrebbero tolte da un’altra parte. Io avrei scelto diversamente. Anni fa avevano aumentato la quota del tesserino giustificandola con l’incremento del tribunale federale per la lotta al doping. La lotta al doping è importante, ci mancherebbe. La domanda è: perché non pensiamo a proteggere chi è vittima della strada e a stare accanto ai nostri atleti, piuttosto di pensare soltanto a punire chi non si comporta correttamente? Secondo me perdiamo di vista l’obiettivo primario. Cerchiamo in primis di tutelare chi si comporta bene ed è vittima di questo sistema e si trova da solo. È sempre una questione di priorità. Per me la priorità dovrebbe essere questa. Per altri, invece, vige un criterio giustizialista di pena retributiva. Però è preoccupante che la Federazione non si preoccupi dei molti atleti che perde sulla strada. Se una Federazione non si preoccupa della salute dei suoi atleti, credo sia necessario porsi qualche domanda.

Una tematica che hai molto a cuore è quella legata alla donna. Il tuo invito è ad essere “donne controstereotipiche”.

Ognuno deve essere quello che si sente di essere e deve provare a fare ciò che ama, a prescindere dal fatto che questo sia poi visto come femminile dalla società stessa. Il ciclismo, purtroppo, è visto da molti come uno sport maschile. Talvolta sei osteggiata o non compresa. Il tuo fisico cambia e non è più quello che questa società “impone” alle donne per essere accettate. La nostra società vuole le donne delicate, bambole e perfette. Non siamo tutte così, c’è anche dell’altro. Una donna dev’essere libera di non truccarsi, di non pettinarsi i capelli, di non indossare delle gonne, di fare un lavoro che la società reputa come non femminile. È un tentativo di evitare quel costante inscatolamento in microcategorie che ci autodefiniscono e che ci intrappolano. Lasciamo alle donne la libertà di essere quello che sono. La stessa cosa vale anche per l’uomo. Non è detto che l’uomo debba essere quello che non piange mai e che deve per forza fare un lavoro o uno sport che il mondo reputa prettamente maschile. Ognuno è un essere unico.

Che idea ti sei fatta dell’evoluzione del movimento ciclistico femminile? 

Il movimento è ancora molto maschilista, basta dare uno sguardo alle tematiche previdenziali per rendersene conto. Naturalmente, rispetto a quando correvo io dieci anni fa, sono stati fatti enormi passi in avanti. Per quanto riguarda l’Italia, alcune società hanno fatto dei passi avanti, mentre altre assolutamente no. C’è ancora molto da fare. Le atlete devono essere riconosciute come professioniste e non come dilettanti; ci si è mossi in questa direzione soltanto in parte. Mi auguro che la situazione cambi e progredisca ulteriormente. Se questo accadrà, il merito sarà proprio delle componenti di questo movimento: le ragazze non devono combattere fra di loro, ma devono costruire un fronte unico e unito. Una mano, in questo senso, dovrebbe arrivare anche dal ciclismo maschile, che dovrebbe affiancare il movimento femminile, non lasciarlo solo e soprattutto non osteggiarlo. Il movimento femminile non toglie nulla al movimento maschile.

Cosa intendi con questo “non osteggiare”?

C’è sempre chi tende a sminuire o a negare l’importanza del movimento ciclistico femminile. Ci sono sempre stati, e ci sono ancora, uomini che non accettano che la donna vada in bicicletta perché lo trovano senza senso. Dispiace dirlo, ma ci sono ancora. È ignoranza, forse paura.

©Giulia De Maio, Twitter

Hai detto che hai ripreso l’università. Cosa studi? Cosa vorresti fare in futuro?

Sono alla magistrale della facoltà di Scienze cognitive e riabilitazione neuropsicologica. Mi mancano pochissimi esami alla laurea. Oltre a preoccuparsi di quelli che sono i problemi prettamente di natura psicologica, il percorso si occupa anche di quelli che sono i problemi cognitivi a livello neuronale, come ictus, trauma cranico, disturbo vascolari ed encefaliti da virus. Noi, quindi, ci occupiamo sia della diagnosi dei disturbi cognitivi che della realizzazione di progetti di riabilitazione che mirino a ripristinare o a compensare i disturbi cognitivi che possono essere a carico di processi come la memoria, l’attenzione, il linguaggio, o di processi superiori più complessi come la presa di decisione. Nel futuro spero proprio di poter fare la neuropsicologa e di poter dare un contributo nel mondo della riabilitazione di questi disturbi cognitivi.

Hai un profondo rispetto e una profonda consapevolezza riguardo allo scorrere del tempo. È sempre stato così oppure il tuo percorso ha modificato la tua percezione del tempo? 

È un qualcosa che mi ha insegnato proprio lo scorrere del tempo. Il mio percorso di studi mi ha aiutato molto in questo senso: ho conosciuto molti approcci che vengono utilizzati in psicoterapia. La mindfullness, ad esempio: la capacità di concentrarsi sul qui e ora, evitando così di focalizzarsi su pensieri negativi che riguardino il passato o preoccupazioni per il futuro. Conta il presente e la capacità di prendersi dei momenti per staccare dalla realtà. C’è un profondo rispetto per il tempo. La mia resta una visione molto frenetica della vita, collegata al non perdere tempo e al darsi continuamente da fare. In questi anni ho cercato di limitare quest’ansia. La nostra società odierna, capitalista ed individualista, trasmette quest’idea legata alla continua concorrenza: se non sei il migliore non vali niente. Non è così. Siamo esseri umani con tutte le nostre fragilità e, ogni tanto, dobbiamo prenderci del tempo senza arrivare sempre al limite. Quando si arriva al limite si perde la testa e si rischia di rovinare in un attimo il lavoro fatto in tanto tempo. Bisogna fare le cose con calma, cercando nella nostra interiorità di rispettare delle priorità nella vita.

 

 

Foto in evidenza: ©Sportitalia, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/