Ripensiamo il ciclismo: intervista a Silvio Martinello

Abbiamo chiesto a Silvio Martinello cosa dovrà aspettarsi il movimento ciclistico.

 

 

Corse annullate, corse rimandate, corse cancellate; organizzatori in attesa d’essere ricollocati, sponsor in attesa di capire se il loro investimento è andato totalmente in fumo o meno, squadre e corridori che vivono alla giornata; enti e governi confusi e spaesati, che prendono decisioni tardive e rilasciano comunicati fuori tempo massimo; addetti ai lavori impotenti, tifosi e appassionati affranti e delusi. Silvio Martinello mette le cose in chiaro fin da subito: non ha una ricetta. «Tuttavia», prosegue lucido e pacato come d’abitudine, «a prevalere devono essere buonsenso e lungimiranza». Ecco, al ciclismo – a chi siede nella stanza dei bottoni, a chi allestisce il circo, a chi tiene in mano il coltello dalla parte del manico – chiediamo soltanto questo: buonsenso e lungimiranza.

Silvio, inutile chiederti se stai seguendo le vicende delle ultime settimane.

Le sto seguendo, ovviamente. E se devo essere sincero, mi pare che il giornalismo si stia comportando bene. Certo, qualcuno che parla a vanvera c’è, specialmente in televisione. Però, in generale, ho visto un’informazione di qualità. Penso a Sky TG 24, che seguo quotidianamente: stanno facendo un lavoro encomiabile. Secondo me il tema viene trattato con sufficiente attenzione, competenza, onestà e responsabilità. D’altronde, l’Italia è il paese europeo che per primo ha dovuto fronteggiare la questione, tant’è che si parla di “modello italiano” riguardo a molti aspetti della vicenda.

Veniamo all’aspetto ciclistico, quello che più ci compete. Che idea ti sei fatto, Silvio?

Tutt’altro che precisa, non voglio nascondermi dietro ad un dito. Fare delle previsioni precise è impossibile: servirebbe la magia, dato che con la razionalità non si andrebbe da nessuna parte. Tuttavia, sono curioso di vedere e di capire come verrà gestita la situazione nella sua interezza. Ad esempio, tutte quelle corse in attesa d’essere ricollocate nel corso della stagione; alcune, come il Romandia, hanno dato appuntamento direttamente all’anno prossimo, ma tante altre si sono limitate a posticipare. Ci sarà posto per tutti? E le squadre, di conseguenza, come si comporteranno? A patto che si corra, ci sarà l’urgenza di raccogliere i migliori risultati nel minor tempo possibile. Dunque, è ipotizzabile che la maggior parte delle squadre si affiderà ai suoi campioni: e gli altri membri della squadra? Le seconde linee, i giovani: riusciranno a mettere in cascina dei giorni di corsa? C’è il rischio che alcuni corridori chiudano la stagione senza aver corso, o comunque con pochissime gare all’attivo. E ancora: riusciranno gli sponsor a mantenere il loro impegno? Molto probabilmente, alcuni di loro dovranno fare i conti con dei bilanci notevolmente ridimensionati: se un’azienda dovesse ritrovarsi con le ossa rotte, credo che l’ultimo pensiero sia se continuare a sponsorizzare o meno una squadra di ciclismo. Si torna ad affrontare l’annosa questione della sostenibilità del ciclismo: o meglio, dell’insostenibilità che il ciclismo ha pericolosamente imboccato nelle ultime stagioni. Uno sport che continua a reggersi in piedi soltanto grazie agli sponsor e quando quest’ultimo abbandona, rimpiazzarlo è difficile. Il caso di Sky è emblematico: nonostante la visibilità e i successi ottenuti, la nuova proprietà ha deciso di dirottare gli investimenti altrove. Brailsford è stato molto bravo a trovare un nuovo sponsor principale come INEOS, se possibile ancora più forte di Sky: ma siamo sinceri, è un caso isolato. La verità è che allestire una squadra di ciclismo costa sempre di più. Ritorna in ballo la spartizione dei diritti televisivi in favore delle squadre, dato che al momento spettano totalmente all’organizzatore. È una situazione complessa e complicata, come si può facilmente intuire. Peraltro, temo che il futuro sarà delicato tanto quanto lo è il presente: non da un punto di vista sanitario, s’intende; ma economico sì, senz’altro.

La sostenibilità economica del ciclismo è un tema sul quale ritorni spesso, Silvio. Una ripartizione dei diritti televisivi, ad esempio, è davvero così infattibile come sembra? Oppure mancano le personalità adatte a portare avanti una battaglia del genere?

Guarda, Patrick Lefevere porta avanti certi discorsi da almeno vent’anni. Non ricordo l’anno esatto, ma doveva essere a cavallo del millennio: io avevo smesso di correre da poco. Insomma, per venire al sodo, Lefevere era riuscito a compattare il fronte dei corridori presenti a un Tour de France e l’oggetto del contendere, si sarà capito, erano i diritti televisivi. Alla sera, la maggioranza degli atleti era convinta e d’accordo; la mattina successiva, il fronte si era rotto e non se ne fece nulla. Eppure stiamo parlando di Patrick Lefevere, una figura dotata di personalità e lungimiranza. C’era andato vicino, infatti. Se mi chiedi cosa successe, io ti rispondo che situazioni del genere sono semplici e complicate allo stesso tempo. È facile capire chi intervenne: ASO, che negli ultimi anni ha saputo guadagnare un potere enorme. Piaccia o meno, è così. Un po’ più complicato, se vuoi, è il vortice di legami che c’è dietro. ASO è l’ente che organizza il Tour de France, l’evento più importante della stagione, e tante altre corse del calendario del World Tour. In alcuni casi, riesce persino a facilitare i rapporti tra le squadre e gli sponsor. Aspettarsi un ammutinamento del gruppo non serve a niente, non arriverà: ASO è troppo potente e chi fa parte del mondo del ciclismo lo sa bene. L’unica speranza risiede nei campioni, nei senatori del gruppo: se riuscissero a formare un fronte unito e compatto, allora qualcosa potrebbe cambiare. Altrimenti, è inutile attendersi qualcosa. Prendi, ad esempio, quello che è successo all’ultima Parigi-Nizza: che la situazione fosse surreale era palese, eppure nemmeno in un momento del genere è stata trovata un’unità d’intenti. Chi è rimasto a casa, chi è partito e arrivato, chi si è ritirato strada facendo. Bardet e Nibali hanno provato ad alzare la voce, sottolineando la stranezza di una corsa che non sarebbe dovuta partire, ma sono stati gli unici. Chi non c’era, non ha aperto bocca: “non mi riguarda”, avranno pensato. Al massimo, i sindacati nazionali fanno un comunicato e festa finita.

©Giro d’Italia, Twitter

Se tanto mi dà tanto, allora tra gli organizzatori scoppieranno diverse polemiche: da una parte, chi ha più potere e non vuole fare un passo indietro; dall’altra, chi teme di rimetterci.

Ecco, a mio parere questo è uno dei temi centrali. Come ho già avuto modo di ribadire in diverse occasioni, ho sempre ammirato quello che ha fatto ASO per il movimento ciclistico francese. Ci ricordiamo tutti in che condizioni era il ciclismo francese una quindicina d’anni fa, tra squadre, corridori e risultati. Nel risollevarne le sorti, ASO è stata fondamentale: sfruttando l’importanza del Tour de France, ha saputo reperire quelle risorse che hanno permesso al ciclismo francese di respirare e di riprendersi. Basti pensare a tutte quelle corse che, grazie ad ASO, sono tornate a godere di una visibilità importante. Il loro lavoro, insomma, lo sanno fare. Non me ne voglia RCS, che rimane comunque un gigante: ma è ASO il riferimento ciclistico. Piaccia o meno, come dicevo prima, è l’ente più potente: anche più dell’UCI, mi duole dirlo, che dovrebbe giocare un ruolo terzo ma si trova impossibilitata a farlo perché non è libera da condizionamenti. Possiamo star qui a discutere se le politiche di ASO siano umane, morali, etiche o sportive: probabilmente no, o almeno non sempre, ma non è questo che m’interessa, al momento. Preso atto che ASO è il riferimento, e considerando tutto quello che di buono ha già fatto per il ciclismo francese e internazionale, è necessario fare un passo ulteriore: se ad ASO sta a cuore il futuro del ciclismo, allora apra un tavolo e faccia sedere gli attori principali. Il potere per farlo non mancherebbe, bisogna vedere se ci sono l’interesse e la lungimiranza.

A cosa ti riferisci, Silvio?

È molto semplice. C’è una marea di organizzatori che aspetta d’essere ascoltata e ricollocata nel corso della stagione. Ora, io credo che ognuno di noi sia consapevole della difficoltà di concentrare diversi mesi di calendario  in poche settimane: ad ora, fino a prova contraria, non sappiamo quando sarà possibile tornare a correre; dunque, non si può scartare la possibilità di una stagione cancellata del tutto oppure fortemente ridimensionata. Credo, allo stesso tempo, che ogni organizzatore si renda conto che ci sono alcuni eventi irrinunciabili e altri, invece, ai quali purtroppo si deve rinunciare. Non giriamoci intorno, sono le classiche e i grandi giri a veicolare l’attenzione maggiore intorno al ciclismo, a maggior ragione in una stagione disgraziata come questa. Io sono sicuro che l’organizzatore della corsa minore non avrebbe problemi a dare appuntamento al 2021, se avesse la garanzia d’essere tutelato. In che modo? ASO e RCS, ad esempio, potrebbero fare uno sforzo e distribuire una parte di quello che incassano anche agli organizzatori minori, lasciandoli più tranquilli e non con l’acqua alla gola. In un momento del genere è impensabile che la parte più potente delle due speri di uscire indenne da questa vicenda: se così fosse, la controparte ne uscirebbe a pezzi. Non si può pensare soltanto al proprio orticello: né in generale né tantomeno adesso. L’interesse di uno dev’essere l’interesse di tutti, perché se si ammala chi sta sotto prima o poi ne risente anche chi sta sopra. ASO e RCS, che da questo punto di vista sono gli attori principali, non possono permettersi di far ruotare una stagione unicamente sul Tour de France e sul Giro d’Italia: servono anche gli appuntamenti minori, sia per creare l’interesse e l’avvicinamento al grande appuntamento negli appassionati sia per permettere ai corridori di affinare lo stato di forma. Spero che anche RCS si muova in questa direzione. In questi anni ha lavorato bene, non si può negarlo, ma si può fare ancora meglio. A tal proposito, mi è giunta voce che prossimamente Davide Cassani potrebbe prendere in mano la situazione: non c’è niente di certo, intendiamoci, ma la sua visione a trecentosessanta gradi e la sua conoscenza del movimento italiano potrebbero rivelarsi più che utili. Me lo auguro, insomma: se gli attori principali non capiscono questo passaggio, rischiano di trovare tutti gli altri organizzatori sul piede di guerra. È un quadro complicato, me ne rendo conto, ma è la realtà dei fatti.

In tutto questo, come se non bastasse, non dimentichiamoci dei corridori: della loro forma fisica, della loro tenuta mentale, del loro futuro.

Assolutamente, sono d’accordo. Anch’io sono stato un corridore: pur non avendo mai attraversato un periodo simile, riesco comunque a mettermi nei loro panni. Il lavoro fatto durante l’autunno e l’inverno perde improvvisamente di significato, intanto; adesso continuano ad allenarsi e a pedalare, giustamente, ma lo fanno senza aver un obiettivo ben chiaro in testa, non sapendo quale appuntamento preparare, l’intensità con la quale allenarsi. Tu pensa a un giovane che avrebbe voluto mettersi in mostra, a un corridore prossimo al ritiro che avrebbe voluto godersi l’ultima stagione; oppure, ancora peggio, a chi avrebbe vissuto il 2020 come una sorta di ultima spiaggia, l’ultima occasione per confermarsi a certi livelli; e ancora, a quegli atleti in scadenza di contratto che rischiano di rimanere col cerino in mano senza aver avuto la possibilità di dimostrare il loro valore. Mi piace pensare anche a tutto quello che c’è dietro, ovvero ai vari staff che rendono possibile l’attività delle squadre ad altissimi livelli: il contraccolpo economico di questa vicenda toccherà da vicino anche molte altre figure, purtroppo. Tornando a quello che dicevamo prima, gli organizzatori dovrebbero muoversi in una certa maniera anche per questo: per una questione di rispetto nei confronti del movimento, delle squadre e dei corridori. I ciclisti non sono degli automi, non hanno un interruttore sulla schiena: devono conoscere in anticipo gli appuntamenti ai quali parteciperanno, devono concordare dei calendari con la squadra, ogni formazione deve allestire un organico adatto ai suoi obiettivi. Se si continua di questo passo, quando i corridori potranno tornare a correre non ci saranno corse da disputare. Ci vogliono delle decisioni forti, lungimiranti, coerenti. Ci vuole una regia che sappia coordinare tutto questo. Vivere alla giornata come sta facendo il ciclismo non è sostenibile. Ogni giorno ci svegliamo e leggiamo che un paio di organizzatori hanno annullato il loro evento con la speranza d’essere ricollocati più avanti. Cosa stiamo aspettando per affrontare la vicenda nella sua globalità?

Continuo a non darmi pace, Silvio: ora più di prima, dopo gli aspetti che hai sottolineato. È mai possibile che il gruppo, l’insieme dei corridori, non abbia voce in capitolo? Sono gli attori principali di questo spettacolo, a meno che non siano cambiate le regole d’ingaggio e io non me ne sia accorto.

La complessità del sistema sta proprio qui: è un cane che si morde la coda. Se non ci sono sponsor disposti ad investire, non esistono le squadre; senza la presenza di formazioni organizzate in una certa maniera, è impensabile il coinvolgimento dei singoli corridori; se non ci sono corridori, non ci sono né squadre né corse; ma se a mancare fossero gli organizzatori, e dunque la competizione, che cosa farebbero i corridori e le squadre? Per questo ribadisco l’importanza di un tavolo a cui possano sedersi tutte le parti coinvolte. Chi non capisce questo, o vuole riempirsi la pancia a discapito degli altri oppure pecca di competenza e lungimiranza. È chiaro che i corridori rivestono un ruolo fondamentale: sono loro che pedalano, che danno un senso al ciclismo, che vincono e perdono la corsa, che interessano il pubblico coi loro risultati e le loro storie. Ma non sono gli unici attori. In più, la loro situazione è delicata e fragile. Sono ricattabili, mi spiego?

©Michele Moretto, Twitter

Fino ad un certo punto, Silvio. Sii più preciso.

Lo dico senza cattiveria né superiorità, lasciamelo dire: sono stato corridore anch’io, quindi capisco molto bene le dinamiche che si innescano in queste circostanze. Allora, innanzitutto c’è da considerare qual è il mestiere del corridore: viene pagato per pedalare, per svolgere il suo ruolo, per raggiungere degli obiettivi in prima persona o per aiutare i capitani in tal senso. Non è poco: voglio dire, è un impegno totalizzante e faticoso, a maggior ragione se il livello è quello del World Tour. Non sarebbe giusto chiedere ad un corridore di impegnarsi su tutti i fronti: ognuno ha la propria funzione. E poi, le conoscenze: oggettivamente, cosa può aggiungere il parere di un corridore al dibattito economico piuttosto che politico? Lo ripeto, non lo dico per screditare i ragazzi del gruppo: è un esempio, il soggetto potrei essere io stesso. E poi, come dicevo poc’anzi, i corridori sono ricattabili: hanno firmato dei contratti, sono dei dipendenti a tutti gli effetti, hanno degli obblighi nei confronti della loro squadra e dei loro sponsor. Anche nei confronti degli organizzatori, ovviamente. Non ci si può aspettare che alcuni di loro, una mattina come tante altre, si sveglino e inizino a sparare a zero sul mondo che gli dà da mangiare. È un gioco raffinato di interessi, di rapporti, di diplomazia. Ogni corridore si limita al proprio orto, arrivederci e grazie. Sanno che la loro carriera durerà dieci, quindici anni, e quindi cercano di trarne il profitto massimo per la seconda parte della loro vita. È un ragionamento eticamente discutibile, posso capirlo, ma spesso e volentieri è quello che succede. I corridori sono presi in mezzo: dalle squadre, dagli sponsor, dagli organizzatori; dall’ambiente, insomma. È raro che un corridore prenda una posizione diversa o addirittura opposta a quella della sua squadra, per fare un esempio. Ma non dico nulla di nuovo: a molti potrà sembrare opportunistico e poco romantico, ma più o meno è sempre andata così.

La leggenda del gruppo che non riesce mai a compattarsi, insomma, non è una leggenda.

No, purtroppo. Non può essere altrimenti: confluiscono troppe personalità diversi, troppi punti di vista, troppi interessi. Un altro esempio è quello della sicurezza in corsa: se, durante una gara, ci sono degli attraversamenti pericolosi, la situazione si risolve con qualche lamentela e un paio di comunicati; il giorno dopo, è acqua passata: si riparte e via. L’ultimo esempio che mi viene in mente, anche se rimarrò in superficie vista la complessità della vicenda. Negli anni bui del doping, ad un certo punto divenne chiaro che c’era una caccia alle streghe: i corridori diventarono gli unici colpevoli, vennero lasciati soli e attaccati da tutte le parti. Eppure, nemmeno in quel momento il gruppo fu in grado di trovare coesione: la barca stava affondando, l’intera categoria era stata linciata e abbandonata; eppure, niente da fare: non nacque mai un fronte unito e compatto. Per questo sono diffidente sul momento che sta attraversando il movimento ciclistico. Come dicevo prima, forse cambierebbe qualcosa se ad unirsi fossero i senatori del gruppo: i più anziani, i più conosciuti, i più autorevoli. Ma ne dubito, dubito fortemente che succeda. Vedremo come evolverà la situazione: da parte, c’è comprensione, solidarietà e tanta curiosità. La storia c’insegna che dai momenti difficili è possibile uscirne diversi, migliori, più forti. Il ciclismo ne avrebbe un gran bisogno, sarebbe una svolta epocale. Una cosa è certa: questo modello non è più sostenibile. Il ciclismo va ripensato.

 

 

Foto in evidenza: ©BICITV

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.