Questo non è il mio ciclismo: intervista a Maurizio Ricci

Con Maurizio Ricci abbiamo parlato di ciclismo in tutte le sue forme.

 

 

Maurizio Ricci è un uomo che ha dedicato la sua vita allo sport. Politico fino al 1989, dopodiché direttore dell’allora più corposa ed estesa polisportiva italiana, con tredici sezioni agonistiche in altrettante discipline sportive, più cinque sezioni amatoriali e tredici impianti gestiti. Non solo, però: sempre dal 1989 collabora con diverse testate giornalistiche. È anche un grande divulgatore di sport attraverso conferenze, incontri, presentazioni e un’intensa attività editoriale, con ben ventiquattro opere pubblicate. Ricci, inoltre, è stato fondatore e manager di grandi squadre ciclistiche femminili del passato, Sanson e Alfa Lum, le uniche aventi nel proprio seno atlete capaci di fare la doppietta Giro-Tour nello stesso anno, e ha stretto rapporti d’amicizia con tantissimi fuoriclasse, tra i quali Roger De Vlaeminck, Charly Gaul, Ercole Baldini e Marco Pantani.

Nel tempo Maurizio Ricci ha sfornato ritratti di tennisti, di uomini d’atletica, ginnastica, boxe, sci. Soprattutto, però, ha contribuito a dare lustro a tantissimi corridori del passato recente e remoto. Complessivamente sono quasi diecimila le biografie di ciclisti scritte da Maurizio. Pur non essendo più in prima linea come dirigente, Ricci continua a seguire attentamente il mondo delle due ruote, benché questo gli piaccia sempre meno. Nell’intervista che vi proponiamo abbiamo discusso con lui dell’universo del pedale, cercando di mettere a fuoco tutti quei motivi che lo spingono a reputare il ciclismo «uno sport in profonda crisi».

©Fabio Blaco

Maurizio, tu sei stato uno dei dirigenti sportivi italiani più importanti dell’epoca recente. Partiamo dunque dal nostro orto: come sta oggi il mondo del pedale in Italia e cosa c’è che non va?

Tra gli sport considerati “popolari”, il ciclismo è senza ombra di dubbio quello che sta affrontando la crisi peggiore. Partiamo dai numeri: il calo dei praticanti avvenuto negli ultimi trent’anni ha dell’incredibile. Nessun’altra disciplina ha visto il numero dei propri tesserati crollare in questa maniera. Venticinque anni fa in Italia c’erano tremila dilettanti, oggi temo che non arriviamo a cinquecento. Solo nella mia zona, la regione Emilia-Romagna, all’inizio degli anni ’90 ne avevamo quattrocento. Pensa oggi, in provincia di Forlì, al tempo una delle più virtuose, prendendo in considerazione tutti i corridori dai giovanissimi ai professionisti, abbiamo cinquantadue atleti. Pensa che uno sport come la scherma, dunque non una disciplina che gode di una visibilità esagerata, qua da noi ha il doppio dei praticanti.

Dunque possiamo dire che il problema principale sia il calo dei praticanti. Un calo dei praticanti che, come lasci intendere te, nasce nelle categorie inferiori.

Sì, nasce nelle categorie inferiori. E nasce perché il ciclismo, da sport popolare che era, è diventato una disciplina per ricchi. Ci sono sempre meno squadre e sempre meno manifestazioni, soprattutto in categorie nevralgiche come esordienti e allievi. Quanti soldi deve spendere, all’anno, un genitore per un figlio che gioca a pallone o a basket? E quanti, invece, ne deve spendere per un ragazzo che fa ciclismo? Temo di non esagerare se dico che un figlio che fa ciclismo costi duemila euro in più all’anno rispetto a uno che gioca a calcio. Una volta un allievo per fare dieci gare non doveva muoversi dalla sua provincia. Oggi un allievo per fare dieci corse, salvo coloro che vivono in zone particolarmente virtuose, deve girare l’Italia. Dopodiché, quello che potremmo definire lo “sviluppo tradizionale” dei corridori non funziona. Mettere un ragazzino in sella a sei anni e farlo pedalare a più non posso non fa altro che logorarlo anzitempo. Bisogna prendere spunto dagli esempi di Remco Evenepoel e Mathieu van der Poel, i più grandi talenti apparsi nel nuovo millennio. Quelli sono atleti veri, completi, forgiati dalle esperienze in altre discipline. Un bambino non può andare in bicicletta e basta: dopo un po’ si stanca. Deve avere modo di giocare a calcio, a basket, a pallavolo. Deve divertirsi finché può, questo è fondamentale. Il ciclismo è uno sport che bisogna iniziare a fare seriamente verso i sedici anni, forse anche un po’ più tardi.

©Remco Evenepoel, Twitter

Nel tuo discorso accenni anche al fatto che le disuguaglianze ciclistiche sul territorio italiano sono in continuo aumento. Ti va di approfondire?

Certamente. Il ciclismo italiano si è completamente dimenticato del Meridione e deve riscoprirlo. Ma non solo per prendere i corridori e portarli in Toscana: in quelle zone bisogna riportare anche la corsa, l’evento. Non è vero, come racconta qualcuno, che nell’Italia del Sud non ci sia cultura ciclistica, anzi. In passato hanno avuto grandissime manifestazioni che dovremmo riportare alla luce, come il Giro di Campania o la Roma-Napoli-Roma. Il ciclismo, per decenni, ha significato molto anche nelle regioni che compongono la parte bassa dello stivale. E sarebbe un ottimo veicolo per mettere in luce i luoghi meravigliosi di quell’area della nostra penisola, favorendo così anche il turismo. Immagina se riproponessimo oggi il circuito della Reggia di Caserta del GP Ciclomotoristico…

Torniamo al discorso dei tesserati. C’è una categoria, però, i cui numeri sono in continuo aumento: quella degli amatori. Pensi che questo mondo parallelo in continua espansione inizi a rappresentare un problema per il ciclismo professionistico?

I numeri imponenti degli amatori possono interessare uno studioso di antropologia, ma per noi che abbiamo a cuore la salute del ciclismo italiano valgono zero. Io, onestamente, dividerei gli amatori in due: chi pedala per pura passione e chi, invece, pedala in modo agonistico. La bicicletta non è solo uno strumento che viene usato per fare sport, ma anche per riabilitazione o più semplicemente per godere delle meraviglie che la natura offre. Tanti iniziano ad andarci tardi e un po’ per caso, e alla fine si appassionano. Il problema, però, è che per via della crisi del ciclismo che un tempo avremmo definito dilettantistico, unito ad un regolamento insensato che in Italia ha imposto un limite d’età per quanto riguarda gli élite, tanti ragazzi virano verso il mondo amatoriale già in giovane età.

Il ciclismo non ti aspetta più, passare professionista è diventato sempre più difficile. O ci riesci a vent’anni, oppure per te la strada è tutta in salita. Un ragazzo di venticinque anni che corre tra gli élite non guadagna un euro e ha pochissime chance di mettersi in mostra. Le stesse squadre fanno fatica a sopravvivere. Senza un contributo da parte delle famiglie degli atleti, i sodalizi che gravitano nella galassia del ciclismo giovanile sono spacciati. Al contrario, a livello amatoriale girano tanti soldi e i produttori di biciclette e accessori hanno grandissima visibilità. Quel mondo, per tutti quegli atleti che non vanno fortissimo tra gli Under 23, rappresenta una bella scorciatoia. Ma il ciclismo italiano, a lungo andare, non può permettersi questo esodo. Perché questo sport non è fatto solo di campioni e perché taluni atleti possono sbocciare tardi e diventare comunque degli ottimi ciclisti. Dobbiamo tornare a investire sui giovani e sul ciclismo giovanile. Il ciclismo amatoriale è sicuramente più sostenibile dal punto di vista economico, ma per il movimento in sé non conta assolutamente niente.

©Giro d’Italia U23, Facebook

C’è anche qualcuno, però, che sostiene che le difficoltà attuali del ciclismo italiano siano dovute alla globalizzazione dello sport delle due ruote.

Mi viene da ridere. Al di là del fatto che per certi versi l’Italia è ancora il paese migliore nell’insegnare il mestiere del corridore, superiore financo alla Francia. E poi vorrei sapere quali sono questi nuovi movimenti che stanno oscurando quelli tradizionali. A me la situazione sembra proprio all’opposto: vedo tante zone, al di fuori della scena dell’Europa centro-meridionale, in netta crisi. Prendiamo i paesi dell’ex URSS. Ma vi ricordate che campioni avevano una volta? Da Aavo Pikkuus e Sergueï Soukhoroutchenkov fino a Konyshev, Tchmil, Tonkov, Berzin. Oggi l’unico buon corridore che hanno è Zakarin. E la Svezia? A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 avevano tre corridori capaci di arrivare sul podio nei grandi giri: Prim, Johansson e Nilsson. Oggi hanno tre professionisti. E i canadesi? Oggi c’è uno Steve Bauer o un Gordon Singleton? E non parliamo delle corse. Guardate il crollo delle gare dell’Africa Settentrionale. Il Giro del Marocco e il Giro di Algeria hanno nel loro albo d’oro corridori come Olimpio Bizzi, Jan Adriaensens, Germain Derycke, Gosta Pettersson, Axel Peschel, Sven-Ake Nilsson. Oggi, invece, sono gare dimenticate. In Argentina avevano una corsa a tappe che durava diciotto giorni. Pensa, corridori come Anquetil, Baldini e Simpson andavano a correre in Nuova Caledonia. Quest’ultimo, un giorno, ebbe anche un malore a causa del clima torrido che fu antesignano di ciò che gli accadrà sul Ventoux, tanto che un primario gli disse pure: “Stai attento a correre quando fa troppo caldo, ché rischi di lasciarci le penne”.

Faccio un altro esempio: gli Stati Uniti. Qualcuno vuole dirmi che il ciclismo negli USA sta meglio ora rispetto agli anni ’80? All’epoca non solo avevano campioni che oggi si sognano, come Lemond e Hampsten, ma c’erano tantissime corse e tantissime squadre: 7 Eleven, Saturn, Mercury. Qualcuno pensava che grazie ad Armstrong ci sarebbe stato un boom negli Stati Uniti, ma si sbagliava di grosso. Trent’anni fa avevano un movimento florido sia a livello maschile che femminile. Chiedete a Roberto Gaggioli, che negli anni ’90 andò a correre là trovando la sua fortuna. Poi, al contrario di quello che qualcuno pensa, paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia sono nel ciclismo da sempre. Gli USA sono tra le nazioni fondatrici dell’UCI. Una delle corse più antiche della storia è la Melbourne-Warrnambool, nata nel 1895. Semplicemente, per decenni si sono concentrati su altri segmenti delle due ruote. Negli Stati Uniti andavano moltissimo le Sei Giorni. Negli anni ’20 e negli anni ’30 del ‘900 corridori da tutta Europa, tra cui i nostri Binda, Belloni, Linari e Giorgetti, andavano a gareggiare a New York o a Chicago. In Gran Bretagna, invece, per decenni hanno curato le corse a cronometro e l’inseguimento. Chi voleva concentrarsi sulla strada andava a correre in Belgio, come fecero Simpson e Hoban. Il ciclismo, oggi, non è certamente più globale di quanto non lo fosse negli anni ’80 o negli anni ’90. Io consiglio, a chi è interessato al discorso, di andare a vedere qualche ordine d’arrivo del Gran Premio Liberazione a cavallo tra l’ultimo e il penultimo decennio del secolo scorso, quando questa era una grande classica internazionale che veniva trasmessa anche in diretta alla televisione. Il ciclismo è uno sport globale da sempre, altroché. E il motivo per cui il ciclismo italiano vince meno rispetto a vent’anni fa, lo ripeto, è legato al fatto che oggi abbiamo un sesto dei corridori che avevamo un tempo.

So che c’è un segmento del ciclismo su strada, ovvero quello delle corse a tappe, che ti piace sempre meno. Ci spieghi cosa c’è che non va, a tuo avviso, in queste gare?

Ormai le corse a tappe le seguo solo sperando che qualcuno, prima o poi, riesca a rovesciare il vaso. Ci sono alcuni fuoriclasse del passato, nonché miei cari amici, che proprio non riescono più a guardare i grandi giri. Io, da inguaribile romantico, spero che questi giovani che stanno uscendo ora, su tutti quel fenomeno di Remco Evenepoel, riescano finalmente a cambiare qualcosa. Purtroppo quando vedo le corse a tappe vedo un ciclismo perverso, ove tanti ragazzi sacrificano la loro salute sull’altare della prestazione. Il dogma che più sei magro e più vai forte sta uccidendo questo sport. Non posso considerare una cosa positiva vedere atleti con differenziale 26: una persona di 185 centimetri non può pesare 62/63 chili. Non è normale. È inutile dire che il ciclismo di oggi sia più pulito rispetto a quello di una volta, quando sicuramente non è più sano. Ci sono squadre che hanno dichiarato pubblicamente di fare uso di chetoni, una sostanza consentita, ma di cui ancora non si conoscono gli effetti a lungo termine. Tanti medici sono contrariati da tutto ciò, prendi ad esempio quello della Sunweb che ha proibito ai suoi corridori di farne uso. Inoltre, fanno uso di queste sostanze non solo per dimagrire, ma anche per aumentare i carichi di allenamento. Il punto è che allenamenti troppo intensi rischiano di sfibrarti e le conseguenze rischi di pagarle una volta finita la carriera.

Ho scritto di novemila corridori in vita mia. Ho visto atleti che facevano uso di anfetamine e caffeina arrivare a ottanta o novant’anni e sfiorare anche i cento. Ma le sostanze di cui abusavano una volta non intervenivano nell’organismo di un individuo come quelle attuali. Non saprei nemmeno dire se l’Epo sia meno salutare di questa roba. L’Epo reagisce in modo diverso a seconda del fisico di una persona e questo al tempo lo si sapeva. Per questo motivo c’era chi stava costantemente sopra il 60% e chi, invece, doveva rimanere sotto. Dei chetoni, invece, non sappiamo nulla. Chi ne fa uso si muove alla cieca e a me francamente uno spettacolo dove la gente mette a rischio la propria salute in quella maniera non piace. Non mi piace vedere un atleta che rischia l’anoressia. Ho avuto a che fare con persone che hanno combattuto con questa malattia e so quanto sia terribile. L’UCI deve intervenire e mettere un freno a questa situazione perché, anche se nessuno lo dice, si sta rischiando troppo.

Cambiando argomento, un altro motivo per cui le gare a tappe non mi piacciono più è che ormai dal punto di vista tattico sono troppo bloccate. Come molti altri, e i numeri degli spettatori parlano chiaro, mi stanco a vedere sempre le stesse cose. Otto corridori per squadra sono troppi, una volta servivano anche dieci atleti perché i team necessitavano dei gregari che si fermavano nei paesi a fare il rifornimento. Oggi questa figura è scomparsa, cibo e acqua te lo danno dall’ammiraglia e l’unico scopo dei gregari è tirare. Quando ci sono squadre che hanno il doppio del budget rispetto agli altri, essi possono permettersi di prendere molti corridori forti, che in altri contesti farebbero i capitani, e metterli al servizio dei loro leader. Questo dà loro modo di controllare la corsa senza patemi e addormentarla. Una tattica lecita, ma che alla gente non piace. Non si può chiedere loro di cambiare, ma l’UCI deve intervenire a livello strutturale per evitare che si vengano a creare queste situazioni. Se riducessimo il numero dei partecipanti a sei per squadra, imporre il loro dominio per taluni sodalizi diventerebbe certamente più difficile.

Spostiamo ora il focus sul ciclismo femminile. Tu sei stato uno dei manager di maggior successo nella storia di questo ramo delle due ruote. Com’è cambiata la galassia del pedale rosa negli ultimi quindici anni, cioè da quando non ne fai più parte?

Innanzitutto il ciclismo femminile è l’unica branca delle due ruote dove i numeri sono in aumento. In tutta Europa e in particolar modo in Italia c’è stato un vero boom del pedale rosa. Oggi c’è maggiore professionalità e maggiore competitività. Vedo tante grandi atlete, oltre all’immensa Marianne Vos che per me è la più forte di sempre, come ad esempio la campionessa del mondo di ciclocross, Ceylin del Carmen Alvarado. Un altro aspetto positivo, oltretutto, è il fatto che alcuni team maschili abbiano costruito parallelamente un team femminile. L’unica pecca del ciclismo femminile attuale è che non si faccia nulla per riportare in vita la Grande Boucle Féminine. Quella manifestazione era un vero e proprio Tour de France al femminile. Portava sulle strade tantissimi appassionati e permetteva alle atlete di affrontare quelle grandi salite che hanno fatto la storia di questo sport.

©Steve., Flickr

So che reputi il ciclocross il segmento più virtuoso del ciclismo attuale e quindi non ti chiedo nulla a riguardo. Al contrario, invece, vorrei una tua opinione sull’attuale ciclismo su pista.

Partiamo da un assunto: la pista deve pensare di meno alla singola prestazione. Io penso che il ciclismo su pista, negli anni, abbia inserito delle belle novità, su tutte una specialità che mi piace molto come lo scratch. Dobbiamo però salvare quel patrimonio che stiamo rischiando di perdere. Intanto, a mio avviso, dobbiamo assolutamente alternare le piste di 250 metri con fondo in legno con quelle di 400 metri in cemento. Avere strutture al coperto è fondamentale e spero che riescano a completare il velodromo di Spresiano, anche perché una terra come il Veneto, che da sempre sforna grandissimi della pista, penso a Leandro Faggin, Bruno Vicino, Silvio Martinello e a Elia Viviani, se lo merita. Però nei velodromi all’aperto con piste più lunghe, ad esempio, si possono vedere delle gare di velocità più tattiche, le quali presentano quegli elementi che tanto piacevano al pubblico d’un tempo. Oppure si potrebbero tornare a fare competizioni come mezzofondo e tandem. Mi piacerebbe che il Mondiale tornasse a svolgersi a fine estate proprio per permettere quest’alternanza. Ci sono tanti impianti all’aperto che andrebbero riscoperti. Su tutti, ovviamente, il nostro Vigorelli, il tempio per eccellenza del ciclismo. Ti immagini che avvenimento epocale potrebbe essere un tentativo di Record dell’Ora di Remco Evenepoel al Vigorelli? Il tutto, magari, mescolato con altri eventi che si possono svolgere in una struttura di quel genere, come un concerto. Inoltre, un’altra cosa che non apprezzo è stata la semplificazione dell’inseguimento. Mi piaceva di più quando si facevano i quarti di finale e le semifinali prima delle finali. Oggi le doti di fondo e di recupero, in questa specialità, contano meno e questo non mi va a genio.

In conclusione, Maurizio, da cosa può ripartire questo ciclismo che ora naviga in acque torbide? Cosa bisogna fare per rimettersi in carreggiata?

Innanzitutto, il ciclismo deve riscoprire la sua storia e ripartire da quella. Ci sono tante tipologie di gara che si svolgevano in passato le quali, oggi, sono estinte e andrebbero riscoperte. Penso alle gare dietro-motore o alle cronocoppie. Per quanto concerne il ciclismo su pista, andrebbero riscoperte le manifestazioni estive e le Sei Giorni. Bisognerebbe ridare centralità agli atleti e toglierne a tutto ciò che gravita attorno a loro, dai preparatori agli organizzatori. La gente vuole vedere i grandi campioni partecipare alle grandi corse e non all’UAE Tour, dove non c’è nemmeno uno spettatore lungo la strada. Al posto di queste gare riproponiamo le kermesse, nelle quali c’erano tantissime persone al seguito dei campioni. Il progresso va bene, ma non deve depauperare quella storia che ha reso grande questo sport.

Il World Tour com’è strutturato oggi non serve a nulla, ha solamente reso insostenibili gli  standard economici del ciclismo. Non ha senso che i dirigenti di questo sport inseguano il calcio quando, al momento, il ciclismo non è nemmeno un competitor del volley. La pallavolo femminile, che negli ultimi trent’anni ha vissuto un vero e proprio boom lanciato dal successo di alcuni cartoni animati giapponesi, oggi fa numeri che il ciclismo si sogna. E qua c’è gente che pensa di strutturare il ciclismo sulla base del calcio o della NBA. Bisogna rendersi conto che gli introiti di questo sport sono quelli che sono e non ha senso continuare a strozzare le piccole realtà per favorire i pochissimi colossi che investono nelle due ruote. Hanno aumentato il numero minimo di corridori per squadra con l’ultima riforma: un’idea stupidissima, andrebbero ridotti; meno corridori per squadra, ma più squadre. Dobbiamo permettere a sponsor medi e piccoli di tornare in questo mondo. E poi concedimi un’altra cosa: basta con questi preparatori che anziché coltivare il talento vogliono crearlo. I veri fuoriclasse, nel 90% dei casi, si mettono in luce in quanto tali sin da subito. Pantani da esordiente vinceva poco, ma quando c’era una salita staccava sempre tutti. Evenepoel nel pallone godeva di grandissima considerazione in una nazione che oggi sforna ottimi calciatori a raffica. Ha preso parte alla mezza maratona e ha fatto registrare un tempo pazzesco. Al primo anno intero da juniores ha vinto oltre trenta corse. Questi sono i veri fenomeni. Quando la gente vede un corridore che a trentadue anni si riscopre campione, dopo una carriera da onesto mestierante, storce il naso e inizia a perdere la passione.

 

 

Foto in evidenza: ©TC, Twitter