La spensieratezza di Rigoberto Urán è figlia di un’infanzia difficile.

 

 

È l’ultimo giro dei campionati del mondo di Firenze e siamo sullo strappo di Via Salviati. Il drappello degli attaccanti, zuppo dal temporale che l’ha frustato sin dai primi giri, è adesso sul tremendo dente finale: Purito Rodríguez, Valverde, Rui Costa, un eccezionale ma sfortunato Vincenzo Nibali e Urán. Sotto la pioggia vola e plana a bordo strada la mantella bianca della selezione colombiana. Pochi chilometri prima del sogno iridato i corridori si svestono, come uccelli pronti al volo liberatisi da vecchie piume superflue. Eppure la mantellina di Urán che si fa subito cimelio non è lanciata a caso, bensì a due ragazzi. Sono colombiani anch’essi, due tifosi sconosciuti giunti dall’altra parte del mondo e che per tutto il giorno, incessantemente, hanno sostenuto i ragazzi del Sudamerica, dal primo all’ultimo.

Con Alberto Bettiol. ©EF Education First Pro Cycling, Twitter

Gesto inconsueto e inatteso per il momento topico in cui si sta decidendo la corsa – un mondiale, peraltro; gesto di cuore di Rigoberto Urán, che li ringrazia così di quel sostegno incessante urlato a ogni tornata; benché in quei momenti sia piuttosto anomalo che si abbia un pensiero per i tifosi, benché l’iride che rende immortali sia proprio là, a una manciata di chilometri: eppure il corridore sa che il ciclismo non può vivere senza la strada, come non può vivere senza le grida e l’incitamento che si dà nei tornanti come a bordo dei ciottoli sconnessi, lungo i rettifili o nelle grandi volate.

Il ciclismo non si può correre “a porte chiuse”. Ed ecco la riconoscenza per quella passione, anche se si sta lottando per un campionato del mondo. Una semplice mantellina a due sconosciuti raggelati dalla pioggia, potere dell’umanità ciclistica. Chi lo racconta ha il privilegio di aver visto quel gesto dal vivo, essendo toscano come le terre su cui si corse quel mondiale durissimo, avendo dunque condiviso quel giorno di diluvio fianco a fianco coi due tifosi latini ormai impazziti di gioia.

Purtroppo in quel pomeriggio di lampi Urán non ebbe la gloria che meritava: franò sull’asfalto bagnato pochi chilometri dopo in una discesa impazzita, impanciando la collinetta a bordo strada. Così finiva il suo grande mondiale vissuto sempre al comando, mentre il portoghese Rui Costa trionfava davanti a un generossissimo Rodríguez in lacrime. Sensibilità e bontà d’animo nata forse come risposta ai rovesci della vita, esperienze drammatiche digerite a forza ma che invece di renderlo freddo e insensibile automa hanno fatto di Urán un campione generoso e disponibile.

Tinte fosche del passato, dicevamo: Urán ha quattordici anni e cerca incessantemente il padre che da due giorni non è tornato a casa. Poi giunge la notizia, corre la disperazione fra le stradine di un pueblo dimenticato a 4000 metri di altitudine, mulattiere di polvere dove da cinquant’anni guerriglia e narcotraffico imperversano rendendo la Colombia uno dei Paesi più pericolosi al mondo. Il padre è un uomo mite, sbarca il lunario vendendo biglietti della lotteria.

“Lo hanno ucciso”.

Ecco la notizia: c’è chi parla di una sparatoria, un regolamento di conti fra i cartelli della droga dove l’uomo è stato coinvolto per sbaglio; altri lo vogliono freddato dai paramilitari per essersi rifiutato di rubare del bestiame per loro. Chissà quante volte, anni dopo, il pensiero sarà corso al genitore lungo le strade asfaltate della splendida carriera di Urán; ma anche lungo quelle sterrate, dove con la prima bicicletta – una ferraglia vermiglio che il padre gli aveva saldato in tre pezzi – aveva abbozzato i primi colpi di pedale. Era stato l’uomo a volerlo poiché lo accompagnasse ad Urrao, la loro città natale, nel fine settimana.

Il ciclismo in Colombia è una mezza religione e Urán sognava in grande sin da piccolo: sognava d’emulare i vecchi scalatori sudamericani che negli anni novanta si affacciavano compiutamente in Europa, mentre lui, bambino, rubacchiava bottiglie vuote per raccattare qualche pesos. Il padre lo sorprende in quei primi furtarelli e lo porta con sé a vendere biglietti delle lotterie paesane.

“Facendo questo, lungo le strade, si guadagna meglio.”

In più gli promette una bici nuova, a patto che però finisca gli studi. Anni dopo si diplomerà, lo aveva promesso al babbo e lo fece, anche se lui non c’era più, inghiottito da quella violenza cieca priva di senso. Aveva quattordici anni, dunque, quando rilevò l’attività di ambulante; a quel punto la vita, oltre ad avergli già presentato un conto salatissimo, lo fermò al bivio della strada, sebbene con due prospettive diverse. Quella di subirla, racimolando qualche soldo vendendo quegli stramaledetti giochi a premi; oppure quella di carezzarla e volarci via sulla bicicletta. La bici e lo sport come salvezza e riscatto. Sebbene siano infinite le volte in cui il ciclismo ci abitua a epopee simili, vale sempre la pena dedicargli pagine e racconti, non fosse altro perché è proprio in questo sport che si racchiude la metafora dell’esistenza.

Con Vinokurov nelle battute decisive della prova in linea delle Olimpiadi di Londra. ©The Department for Culture, Media and Sport, Wikimedia Commons

“La vita è come una corsa a tappe: oggi perdi, domani vinci”, dice Urán. Fughe, cadute, attacchi, crisi: è così, il ragazzino colombiano lo sa e decide a quel punto di prendersi cura di mamma Aracelly e della sorella Martha, provando a diventare un grande in uno sport di grandi. La prima vittoria giunge in un parco di Urrao; lo nota Laverde, un tecnico navigato che lo porta nella sua prima squadra colombiana. La mattina studia (l’aveva promesso!), il pomeriggio sempre in strada coi biglietti della lotteria, alla sera gli allenamenti:

“La vita mi ha insegnato a lottare.”

E finalmente a diciannove anni approda in Europa, alla Tenax di Bordonali. Il suo primo periodo è costellato di cadute, cosicché il direttore sportivo italiano lo porta a Brescia per tenerselo stretto, insegnargli a domarla davvero la bicicletta, lui che come tutti i colombiani sa andare su dove le aquile occhieggiano alla rupe, ma difetta inizialmente nel guidare quel riottoso cavallo di carbonio. Ma Urán impara in fretta, tanto da cavarsela in ogni campo. Nel 2008 è secondo alla Vuelta a Catalunya e terzo al Lombardia, e intanto affina le sue doti anche nelle corse a tappe con ottimi piazzamenti nelle frazioni più dure. La Sky, squadra che imperverserà per un decennio nei grandi Giri, lo nota e lo fa suo.

©filip bossuyt, Wikimedia Commons

2012, Olimpiade di Londra: Urán imbiffa l’azione vincente con Vinokurov. Saranno in due a giocarsi la vittoria ed il colombiano è nettamente favorito allo sprint. Complice una distrazione, forse la troppa emozione di trovarsi nella volata olimpica, Urán si volta verso le transenne per controllare Vinokurov, che invece lo beffa dall’interno vincendo uno sprint improbabile. Urán è comunque uno splendido argento. Arriveranno in seguito i podi al Giro d’Italia 2013 e 2014, con la splendida vittoria all’Altopiano di Montasio relativa all’edizione 2013; chiuderà secondo dietro a Nibali, in quella corsa rosa, e così nel 2014, quando riesce a indossare la maglia del primato per quattro giorni per poi cederla al connazionale Quintana, che la porterà fino all’arrivo. E sarà secondo anche al Tour de France 2017, una corsa che lo vede costantemente fra i protagonisti.

E siamo a oggi, nel 2019. Urán è ancora là, maturo ormai, ancora a sbattagliare fra i primi, a prendere la vita col sorriso. “Sono felice? Sì, tante persone mi hanno voluto bene”. Classe, dunque, e bontà d’animo, tenacia e voglia di vivere, di riscattarsi dai momenti bui pensando all’Italia come seconda patria, alla Colombia e alla voce del padre che oggi sarebbe orgoglioso di lui.

“Coi miei tifosi parlo la lingua della passione”.

Noi lo sappiamo dall’aneddoto del mondiale di Firenze, lo sappiamo quando lo ascoltiamo nelle interviste sempre sorridente e disponibile; e lo ammiriamo sui tornanti con la grinta di un corridore vecchio stampo, con le ferite della vita cucite addosso, coi sogni ancora intatti. Urán è l’esempio di un ciclismo che fa bene, che sa sostenerti, un ciclismo nobile e ancora umano; anche se nasci in un villaggio di sassi battuti dal sole nel cuore di un continente in lacrime. O forse proprio per quello. È una storia di pietà e resurrezione, di battaglie senza sconti: “Sei vivo? Bene, fatti valere allora”, ha dichiarato il corridore del Nuovo Mondo in più occasioni. Ecco il suo motto: lottare, essere d’esempio magari a bambini sperduti come lo era lui, quelli che provano a correre con biciclette sgangherate, pesanti e senza rapporti, tali da far impalidire i primi corridori del Novecento; bambini che magari sognano di diventare campioni: campioni come Rigoberto Urán.

 

Foto in evidenza: ©EF Education First Pro Cycling, Twitter