Il ciclismo italiano ha un disperato bisogno di rivalità e dualismi.

 

 

Negli ultimi mesi, dovendo riempire i vuoti lasciati dagli eventi cancellati dalla pandemia, la Rai ha ri-trasmesso alcune delle frazioni più belle della storia recente del Giro d’Italia. Per una questione anagrafica, quelle che ho seguito con più trasporto riguardavano le prime edizioni dei duemila: diciamo dal 2000 al 2007, durante i quali – per quanto mi riguarda – l’infanzia è diventata adolescenza. A colpirmi maggiormente è stata l’aria di festa che si percepiva finanche dalla televisione e a circa quindici anni di distanza: una sensazione che non sempre ho ritrovato nelle ultimissime edizioni della Corsa Rosa.

Certo, il fatto che quei momenti siano diventati ricordi d’infanzia non favorisce l’imparzialità. E tuttavia, una buona parte di quell’atmosfera così carica di stati d’animo la attribuisco perlopiù alla copiosa presenza del pubblico. Il paragone tra il Mortirolo del 1999 e quello dello scorso anno, tanto per fare un esempio, è impietoso. Fino ad un certo punto lo si può spiegare: il 5 giugno 1999 era un sabato, la giornata era splendida e il pubblico aspettava a gloria l’ennesimo show di Marco Pantani, fermato invece poche ore prima a Madonna di Campiglio da un esame balordo; il 28 maggio 2019, invece, era un martedì, i chilometri conclusivi del Mortirolo vennero bagnati da un bell’acquazzone e i panni di Pantani li vestiva Nibali, dal quale ci si attendevano i primi tentativi per colmare il ritardo da Carapaz.

La tappa del Mortirolo del Giro d’Italia 2019 la vinse Giulio Ciccone, una delle speranze più importanti del ciclismo italiano. ©Giro d’Italia, Twitter

Per quanto ci si possa sforzare, la differenza di pubblico rimane talmente grande da risultare preoccupante. A quella massiccia presenza contribuivano principalmente due fattori, i quali finivano poi per intersecarsi: i tanti corridori italiani che annualmente partecipavano al Giro d’Italia e le rivalità – più o meno accese, più o meno reali – che intercorrevano tra alcuni di loro, tendenzialmente i più forti e i più conosciuti. Erano delle edizioni poco internazionali e molto nazionali, talvolta al limite del provinciale, lo abbiamo detto tante volte: persino Simoni e Savoldelli, che in quegli anni hanno vinto due edizioni a testa della Corsa Rosa, al Tour de France non sono andati oltre un successo di tappa; Casagrande, Cunego e Basso sono quelli che nella Grande Boucle si sono spinti più in alto, mentre “l’estero” di Di Luca e Garzelli era rappresentato più che altro dalle Ardenne e da alcune brevi corse a tappe.

In quegli anni, se da una parte si è accentuato il solco che divide Giro d’Italia e Tour de France, dall’altra il ciclismo italiano ha vissuto l’ultimo grande periodo ascrivibile all’intero movimento: nonostante le ombre del doping, l’assenza diffusa di grandi campioni stranieri e alcuni corridori italiani poco avvezzi a certi altitudini, le strade erano piene e l’entusiasmo era alle stelle. Il ciclismo è cambiato e non ci si può far niente. L’Italia soffre, e paradossalmente questo è l’unico aspetto che può – anzi, deve – cambiare: torneranno gli sponsor nostrani, in un modo o nell’altro, e ci rialzeremo. Ma la tendenza di fondo, quella internazionale, è irreversibile: la torta non se la spartiscono più i paesi storici, ma ormai una fetta tocca anche al Canada, agli Stati Uniti, al Sudamerica, all’Europa dell’est, al Medio Oriente, all’Estremo Oriente, all’Australia – e anche all’Africa, e non da oggi.

Quindi, dando per scontato che indietro non si torna e che difficilmente rivedremo un gruppo composto da cento corridori italiani sui circa duecento totali, conviene concentrarsi sul secondo dei due fattori elencati poco sopra: l’importanta di una o più rivalità capaci di spaccare, emozionare e guidare di corsa in corsa la storia che noi tutti contribuiamo a scrivere. È difficile chiamarsi fuori da un dualismo: quasi obbliga a schierarsi, a tenere per l’uno e non per l’altro, a godere per le stoccate del proprio beniamino e a macerarsi per le pronte risposte dell’acerrimo nemico. Di tifoserie estremiste non se ne sente né il bisogno né la mancanza: quello che si vedeva sulle strade ai tempi di Moser e Saronni – quello che, alla fin fine, dovevano sorbirsi i vari Visentini, Battaglin e Baronchelli – non ci interessa, non è quello che desideriamo. Però di nuovo: pur coi suoi condannabili eccessi, quella fase del Giro d’Italia è una delle più gloriose dell’intera storia della Corsa Rosa.

©Davide Fent, Twitter

Non giriamoci intorno: la mancanza di una rivalità tutta italiana si sente, manca come può mancare il tetto ad uno sfollato. Non manca solo in Italia, va detto: i britannici, così come i colombiani, sono cresciuti insieme e si stimano reciprocamente; quella tra Bardet e Pinot non è mai realmente deflagrata, mentre gli spagnoli non raggiungono nemmeno il quorum necessario per poterne vantare almeno una. Si muove qualcosa in Belgio – la Lotto contrapposta alla Quick Step, Gilbert a Van Avermaet -, dove il ciclismo rimane qualcosa in più di un semplice sport. Niente di particolarmente interessante nemmeno in Germania, Svizzera, Danimarca e Australia. All’Italia, che numericamente parlando è una delle nazioni più presenti, mancano i presupposti: molti dei nostri corridori sono legati da un rapporto d’amicizia che dura da anni ed eventuali dissidi non sembrano poter diventare niente di eclatante.

Il problema, se così vogliamo definirlo, non è un finto fair play spinto al parossismo: è una reale mancanza di malessere e di mala sopportazione che rende impossibile la nascita di una vera rivalità. Forzarla, oltre che meschino, sarebbe inutile: i dualismi più significativi e duraturi sono quelli più spontanei. E se non arrivano, allora vuol dire che così dev’essere. Certo è che con un giornalismo così facilmente influenzabile, che grida allo scandalo ad ogni occasione e che non si fa problemi a mettere qualcuno alla berlina, i corridori ci pensano due volte prima di urlarsi qualcosa di fronte alle telecamere.

©Alessandro Brambilla, Twitter

Ogni tanto ci piacerebbe vedere il colore del sangue, non neghiamolo. Cos’è lo sport, se non un confronto tra uomini che, a sua volta, ne genera mille altri? A patto di non sfociare nell’imbecillità e nella criminalità, qualche sfottò e qualche polemica servirebbero come il pane. Nessuno mi toglie dalla testa che Nibali godrebbe di una popolarità e di un credito assai maggiori se la presenza fissa e costante di un grande campione straniero avesse spinto il pubblico a parteggiare. E che dire del calendario italiano, che potrebbe trarre sicuro giovamento dalla presenza talvolta settimanale di atleti pronti a tutto pur di battere il rivale – o farlo perdere, perché no? Noi italiani siamo questi, infinitamente più campanilistici e meno cosmopoliti di francesi, inglesi e americani – forse in questo ci assomigliano gli spagnoli. Mentre dobbiamo stare attenti a non chiuderci nel nostro provincialismo, non dobbiamo nemmeno dimenticarci che una certa idea strapaesana e provinciale ha dato all’Italia più di quanto non l’abbiano fatto l’internazionalismo e il cosmopolitismo.

«La corsa non interessa se non diventa leggenda, disfida, melodramma o, come si diceva nei poemi cavallereschi, “singolar tenzone”». E ancora: «È inutile voler sterilizzare questo sport dai suoi fattori o dalle sue maschere romantiche. È inutile pretendere dal pubblico la pura e semplice accettazione della legge del cronometro. Senza il romanticismo delle grandi rivalità, la baracca si sfascia». E infine: «La democrazia non ha il minimo fascino sulle folle sportive». Vorrei potervi dire che queste considerazioni sono mie, ma mentirei: appartengono a Orio Vergani e sono datate 7 gennaio 1960. Qualcosa vorrà pur dire.

 

 

Foto in evidenza: ©Aivlis Photography

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.