Passato all’Arkéa Samsic di Quintana, Diego Rosa vuole rilanciare la propria carriera.
Se Diego Rosa non fosse diventato un ciclista professionista avrebbe aiutato il padre, proprietario di una ditta di idraulica. Nei primi anni da Under 23 si divideva tra la bicicletta e qualche ora di lavoro con papà e oggi ammette che gli piaceva. Invece no. Non lo avrebbe mai pensato, ma quella gara fra compagni di classe al parco giochi di Alba sarebbe stata la prima di una lunga serie. «Volevo divertirmi, così insistetti molto per fare altre gare pur non conoscendo per nulla il ciclismo. Quando, da juniores, sono arrivato nella nazionale di mountain bike, Marco Bui era appena diventato campione del mondo. Lo conoscevano tutti tranne me. In mountain bike eravamo lasciati a noi stessi, senza allenamenti specifici o pressioni per il risultato. Sono dovuto arrivare fra gli Under 23 per avere un preparatore, un calendario gare stabile e un rimborso spese. Lì ho iniziato a capire cosa volesse dire fare la vita del corridore, ragionare con la squadra sugli appuntamenti futuri e pensare che quella avrebbe potuto essere la mia vita».
Rosa si allenava già molto su strada con un folto gruppo di ragazzi e racconta divertito che praticare mountain bike gli consentiva di mettere in campo quella strafottenza giovanile che da ragazzi sembra abbia il suo perché. «Sai, noi della mountain bike avevamo le prime due ore e mezzo di allenamento in cui andavamo a tutta e frustavamo l’intero gruppo degli stradisti. Poi ci spegnevamo lentamente e addio, ma intanto ci eravamo fatti vedere». Conoscere il mondo della strada lo attira e, nonostante tanto lui quanto suo fratello Massimo corrano in mountain bike, l’idea di un cambio di categoria lo attrae. Ci rinuncia più volte perché la mountain bike, in quel momento, ha un alone di certezza che la strada non può garantirgli. Se arriva al ciclismo su strada lo deve a un caso: si rompe un dito alla vigilia di una prova di coppa del mondo, le gare programmate vanno in fumo e così prende contatti per fare qualche gara su strada. Gli dice bene, viene notato e non torna più indietro.
«Sia chiaro, però: la mountain bike mi ha aiutato moltissimo, non mi ha esasperato. Gli allenamenti sono brevi e non arrivi al professionismo stressato dalle quattro ore su uno stradone. Sapevo guidare molto bene la bici. Ricordo una tappa del Giro Bio su strade bianche: io me la cavavo senza problemi, gli altri tentennavano. Hai sensibilità e acume tecnico. La mountain bike è una famiglia. Entri nelle fughe con una facilità assurda. Certe volte esageri pure, perché ti manca tutta la parte tattica e non sai gestirti. La multidisciplinarità è importante per chi inizia a praticare ciclismo: per questo a un ragazzo, almeno fino agli juniores, consiglierei di provare tutte le discipline. Questo a prescindere dalla carriera».
Alla Palazzago, nel 2012, Rosa incontra il suo primo preparatore, Olivano Locatelli. «Avrò lavorato con lui sei mesi, forse sette, ma è stata una vera e propria scuola di ciclismo. Locatelli mi ha insegnato tutto: dalla preparazione di un panino per la gara ai dettagli più tecnici. Sono stato fortunato perché il passaggio nel professionismo l’ho fatto con una squadra piemontese come l’Androni, una squadra di casa». In quegli anni Diego Rosa ha il massaggiatore che abita a dieci chilometri da casa sua. Parla in piemontese con lui durante i massaggi, parla in piemontese con il direttore sportivo Giovanni Ellena e si sente adottato come il giovane ragazzo di casa che deve crescere e imparare alla corte di Gianni Savio. «Avevo paura dei lunghi chilometraggi. In Androni ho corso subito Milano-Sanremo e Giro d’Italia. Giovanni mi disse: “Ti tengo io un panino al prosciutto in ammiraglia. A metà gara ti chiamo, vieni, mangi il panino e torni in gruppo”. Mi davano fiducia e quando hai fiducia ti senti più responsabile, così ti metti alla prova e tiri fuori anche quello che non pensavi di avere».
Quella fiducia che gli è servita al suo primo Giro d’Italia, nel 2014. Un giro partito dall’Irlanda e martoriato dal maltempo quasi ogni giorno. Diego Rosa parte con l’idea di provare a vestire la maglia bianca di miglior giovane per almeno una tappa. Invece va tutto alla rovescia. A Cassino è coinvolto in una caduta di gruppo. Il suo ginocchio è letteralmente bucato: infezione del periostio, la parte più esterna dell’osso, fino alla caviglia. «Avevo il morale sotto i piedi. Eravamo una squadra invitata e sentivo il peso di dover dimostrare di aver meritato quell’invito. In realtà ogni chilometro era un calvario. Mi spaventavo alla vista di ogni rotonda: il gruppo accelerava e io mi staccavo in pianura. Vedevo le stelle dal dolore tutte le volte che dovevo rientrare. Sono andato avanti così quasi per tre settimane, grazie all’intera squadra ma in particolare grazie al medico».
Rosa dormiva in camera col dottore, quel dottore che una notte chiamò alle quattro: non riusciva a scendere dal letto per andare al bagno. Una pomata anestetica e la possibilità almeno di stare in piedi il mattino seguente. «Mi cambiava i bendaggi tre volte al giorno. Era sempre da me e mi diceva: “Tu stai tranquillo. Ci penso io a farti finire il Giro d’Italia”. Quando sono salito in ammiraglia nella tappa dello Zoncolan ho pianto fino al rifornimento. Temevo di aver deluso tutti coloro che credevano in me. Col senno di poi da quel periodo ho imparato e sono cresciuto. Ho imparato a ricordarmi che quando ti alzi al mattino e stai bene hai già ottimi motivi per essere contento. Il nostro è uno sport di fatica: sono più le volte in cui soffri che le volte in cui sei davanti a divertirti. C’è poco da fare».
La fuga per Diego Rosa è dapprima un espediente. Sa di non essere il più forte, sa che se resta con il gruppo quasi certamente è battuto, così sfrutta la facilità acquisita in mountain bike per attaccare e imporre il proprio ritmo. La mattina della sua prima Milano-Sanremo chiama suo padre al telefono. «Accendi la televisione perché vado in fuga». Ammette che molti attacchi sono stati scriteriati e probabilmente lo hanno penalizzato a livello di risultati, ma ricorda anche che qualche volta ha avuto ragione sulle tattiche di squadra a cui col tempo ha dovuto adeguarsi. «Al Giro dei Paesi Baschi, era il 2016, andavo in fuga quasi tutti i giorni per preparami per le Ardenne. Quel giorno eravamo in una ventina di corridori. Non andavamo d’accordo e il gruppo stava rinvenendo, ho forzato per scremare. Mi sono ritrovato da solo. Dall’ammiraglia mi urlavano di aspettare qualcuno, ho tirato dritto con l’incoscienza tattica che mi caratterizzava. Mi dicevo: se va male è un allenamento. E invece vinsi».
In quel periodo Rosa era all’Astana, il suo primo contratto in una grande squadra, e stava capendo molte cose. «Correre in una squadra del genere vuol dire partire sempre per curare la classifica generale, che sia il Giro, il Tour o la Volta a Catalunya. In Androni sperimentavano e in alcune tappe stavo tranquillo nella pancia del gruppo. In Astana ho capito che bisogna lavorare sempre e che in pianura si lavora più che in salita per tenere coperto il capitano. Io ero un jolly: dovevo lavorare, ma avevo anche i miei spazi per tentare qualche colpo di fantasia». I capitani in quel periodo sono Aru e Nibali. Con Aru racconta di essere cresciuto ai tempi della Palazzago, di aver avuto sempre un buon rapporto e descrive come «memorabile» la sua vittoria Vuelta. E Vincenzo Nibali, invece? «Cosa posso dirti di lui? Nibali è Nibali. Il più grande corridore che abbiamo in Italia. Lavorare con lui è davvero semplice, ti mette nelle condizioni di lavorare al meglio e tu dai tutto. Vincenzo è un atleta che sa essere molto riconoscente e questo aiuta molto nei rapporti di squadra. Sai che si ricorderà di quello che hai fatto per lui».
Per carattere Rosa trae giovamento dalla pressione, quindi anche il ricordo degli anni al fianco di quegli uomini di classifica è positivo. «Ho bisogno della pressione, rendo meglio. Su strada la pressione, per quanto sia importante, è comunque poca rispetto alla mountain bike. Ricordo le griglie di partenza ai mondiali: un’adrenalina incredibile. Ma lì andavo molto meglio rispetto a gare nazionali in cui fare risultato poteva sembrare quasi scontato. Adesso la pressione maggiore è sulla pedana della cronometro, quando sei da solo». Questo aspetto del carattere, abbinato alla capacità di vedere sempre il lato positivo delle situazioni, è ciò che gli consente di passare sopra al rammarico di delusioni passate.
Così respinge la definizione di ricordo dolente per il Giro di Lombardia 2016. «Non è un brutto ricordo. Ho fatto secondo in una classica monumento che mi è sempre piaciuta, forse perché sono cresciuto su quelle strade, e che vorrei vincere. Per vincere quella gara avrei dovuto correre esattamente come ho corso. Ho sbagliato soltanto l’impostazione della curva finale, quella in cui ero caduto due anni prima. Ho capito subito che ero uscito lento e che mi avrebbero superato. Certo, brucia essere superati a dieci metri dal traguardo e perdere per dieci centimetri. Una classica monumento mi avrebbe cambiato la vita, invece ho fatto una volta secondo e una volta quinto».
Tra l’altro quel giorno Rosa non ha molto tempo per pensare: la settimana successiva si sarebbe sposato e all’arrivo ci sono già i testimoni di matrimonio pronti a caricarlo in aereo e portarlo a divertirsi. Tuttavia, la precisazione che aggiunge pochi minuti dopo porta a credere che, anche se avesse avuto più tempo per pensare e ricordare, il suo sarebbe stato un pensiero costruttivo. «Sono tutte esperienze e dalle esperienze si può solo imparare. La gente rimane troppo spesso a piangere sopra agli avvenimenti. È inutile. Sono più le gare che vanno male di quelle che vanno bene. Partiamo in centottanta e solo uno vince. Cerchi di capire perché non hai reso come avresti voluto e cosa avresti potuto fare per andare meglio. Poi però devi mettere via tutto e pensare alla gara successiva».
L’aveva scritto Pavese: «È per questo che uno cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione». E la ragione del “questo” è forse la possibilità di tornare. Ironia della sorte vuole poi che proprio il protagonista del romanzo di Pavese venga abbandonato sugli scalini del Duomo di Alba, la città in cui Rosa è nato e cresciuto. Non molto lontano da Torino e dalla Basilica di Superga, dove ha vinto la sua prima gara tra i professionisti. «In riunione avevamo deciso di provare ad anticipare Aru. Sono sincero, la squadra ci credeva più di me. Mi sono messo pressione da solo per ottenere il miglior risultato, ero molto nervoso».
L’attaccamento ai posti in cui cresci è anche l’attaccamento alle persone che di quei posti respirano l’aria. «Al primo Giro d’Italia che corsi attaccai sullo Jafferau. Non che credessi di poter vincere la tappa. C’era un gruppo del mio fan club un chilometro più avanti e volevo passare in testa. Anche ai campionati italiani corsi con l’Androni ho sempre attaccato al primo giro per fare in modo che i miei amici che erano lì ad aspettarmi mi vedessero. Non avessi fatto così, sarei passato staccato. Ti gasa sapere che qualcuno ti aspetta e vuoi essere all’altezza dell’attesa».
Quando il discorso tocca il triennio trascorso al Team Sky, il tono di voce cambia. «Ci ho già pensato molto, forse anche troppo. Avevo appena ottenuto il secondo posto al Lombardia quando mi hanno contattato. Chi rifiuterebbe, ancora giovane com’ero io allora, un posto nella squadra più forte del mondo? Ad oggi farei altre scelte, ma dirlo adesso serve a poco». Diego Rosa identifica nella presenza di tanti campioni una delle problematiche maggiori per quanto riguarda il suo rendimento, ma non vuole togliersi nessuna responsabilità. «Non ho reso come avrei dovuto e sono stato etichettato come il corridore che non rende: questa è la realtà. Ho i miei motivi, ma nulla tolgono a questo fatto. Ero demotivato: la squadra puntava sui campioni e io venivo mandato a fare gare in Belgio totalmente inadatte alle mie caratteristiche. Non mi allenavo neanche più con piacere. Mi avevano preso solo per lavorare e di tirare per gli altri ero in grado anche facendo tre ore di allenamento anziché cinque. È un circolo vizioso».
Che qualcosa in quel team non andava, Rosa lo aveva capito sin dalla sua prima gara, la Ruta del Sol. Era in fuga con Valverde, Contador ed Izagirre. «Avevamo un vantaggio tale che avremmo chiuso la corsa alla prima tappa. Dalla radiolina mi dicono: “Non tirare un metro. Il nostro uomo di classifica è Poels, non sei tu”. Gli ordini di squadra non si discutono. Sta di fatto che, mi sembra, finimmo quinto, sesto e settimo in classifica generale». Nonostante questo, Rosa sa di aver imparato molto in quegli anni, a cominciare dalla lingua inglese. «In quel team c’è una attenzione esasperata per i dettagli. I campioni della Sky sono uomini che non lasciano nulla al caso, per questo sono così grandi. Ho imparato la gestione della gara, la gestione di un capitano in maglia di leader, l’importanza di stare davanti a tirare anche quando magari non lo avrei fatto. Quest’anno, quando Nairo Quintana era il leader del Tour du Var, mi è sembrato tutto più facile anche grazie a quel periodo per me fallimentare a livello di risultati personali».
Una presenza importante di quel periodo è Nicolas Portal. Rosa non condivide molte gare con Portal, che è direttore sportivo di riferimento per il Tour de France, ma ricorda molto bene il modo certosino di lavorare durante la Vuelta vinta da Chris Froome. «Portal è un raro esempio di dedizione e precisione. Stava sul bus fino alle undici, certe volte anche fino a mezzanotte, per studiare il percorso. Sapeva tutto prima della partenza: strade larghe, strade strette, aperture e chiusure, rischio vento e direzione. La Vuelta di Froome fu anche l’ultima di Contador. Noi tenemmo la maglia dal terzo giorno sino a Madrid. Alberto attaccava tutti i giorni. Un giorno, preso dalla foga, lo inseguii. Sentii subito la sua voce dalla radiolina: “No ragazzi, calma. Abbiamo un vantaggio rassicurante. Siamo ancora in otto. Anche se prende venti secondi non succede nulla. Stiamo uniti e saliamo con passo costante. Non seguiamolo”. Nei momenti difficili era il primo a rassicurare e a rasserenare l’ambiente».
Del passaggio in Arkéa Samsic, Diego Rosa ha iniziato a parlare a giugno dello scorso anno. All’inizio non in maniera entusiasta: non conosceva la squadra e il ritorno in un team Professional non è esattamente quello che tutti gli atleti del World Tour si augurano. La quadra dal cerchio è stata trovata un pomeriggio a Monaco, quando Rosa ha incontrato il team manager dell’Arkéa e ha capito di volere le stesse cose. Da quel momento ha iniziato ad uscire in allenamento con Nairo Quintana. Un rapporto che si è cementato all’inizio di questa stagione durante le tre settimane trascorse in Colombia a casa del colombiano.
«Ho chiesto alla squadra di saltare il primo ritiro per poter andare a Combíta. Ho conosciuto meglio Nairo, suo fratello, i suoi genitori. Ero con mia moglie e mio figlio: il primo mese di gennaio con la mia famiglia da non so quanto tempo. Mia moglie si è innamorata di quei luoghi e vuole tornarci il prossimo anno. Ci allenavamo a tremila metri di altura, ma lì a gennaio ci sono già venticinque gradi. Ho capito cosa significa per loro il ciclismo: è come per noi il calcio. Nairo, se esce a passeggiare, deve farlo coprendosi tutto per non farsi riconoscere. Sarebbe come se in Italia Cristiano Ronaldo passeggiasse in centro a Torino. Ci sarebbe da raccontare tanto rispetto alla naturalezza e alla disponibilità della gente. Mentre ci allenavamo ci fermavamo dai contadini lungo la strada: compravamo frutta e verdura. La caricavano nel baule della nostra auto e tornavamo a casa a pranzare. Tutti alimenti genuini e salutari. Una bella esperienza».
Rosa non ha dubbi: la gente e la stampa non conoscono bene Quintana. Se ne sono fatti una idea sbagliata. «Non so perché, ma a Nairo è stata affibbiata questa etichetta: quella del corridore che non lascia trasparire le sue emozioni, che non attacca mai, sempre scuro in volto. Non è così. È un uomo solare, con lui si scherza e si sta bene. Certo, è un leader che pretende molto dai suoi collaboratori. Ma pretende tanto dagli altri perché pretende tanto da sé stesso. Ha molta pressione addosso, sempre, e sente questa pressione che si tratti di una gara minore o di una gara di primo piano. È sempre sul pezzo, lavora molto e pretende che chi lavora con lui non vada alle gare spensierato o tanto per fare. Bisogna essere concentrati: con Nairo si impara questo».
Così l’Arkéa di questo inizio stagione ha sorpreso tutti: uomini non ancora conosciuti in grado di fare la differenza, molta voglia di fare da parte di tutta la squadra, fiducia ed entusiasmo. «I ragazzi hanno capito che Nairo e Dayer Quintana, Anacona ed io non siamo arrivati lì per caso o perché all’ultima spiaggia. Era un passaggio necessario e lo abbiamo fatto con l’intenzione di rilanciarci, senza tralasciare nulla. La squadra girava bene ed i risultati stavano arrivando».
Da un lato il lavoro, dall’altro la famiglia. Una famiglia che da due anni si è ampliata: Diego Rosa, infatti, è diventato papà. «Diventare padre quando si è ciclista professionista non è la cosa più semplice del mondo, anzi. Ti trovi a fare molte cose in casa che prima lasciavi perdere. Noi abbiamo poco tempo da dedicare agli affetti. L’arrivo di un figlio prende tutto il tempo che prima dedicavi al recupero. Devi avere la fortuna di avere vicino una compagna che comprenda il tuo lavoro e i tuoi sacrifici. Mio figlio è nato a gennaio e io dopo due settimane sono andato in ritiro. Quando tornavo a casa e il piccolo di notte piangeva, mia moglie per lasciarmi dormire si alzava e andava da sola in sala. Sapeva che, se non avessi dormito, il giorno dopo avrei fatto fatica ad allenarmi. Mi è venuta in contro, senza questo compromesso sarebbe stato difficile andare avanti». Quando parte per le gare, Rosa è abituato alla distanza dalla sua famiglia. Il periodo più difficile è quello del ritiro: lì la lontananza pesa di più. Per questo, sia l’anno scorso a Livigno che quest’anno in Colombia, ha voluto accanto la moglie e il figlio. Per sentire meno il peso della distanza.
Quando si parla dello stop forzato alle gare e dell’emergenza Covid-19, torna il ragazzo capace di razionalizzare i problemi per affrontarli senza soccombere, schiacciato tra ansie e paure del futuro. «A mio avviso la Parigi-Nizza di quest’anno è stata una gara di troppo. Non c’era il giusto clima di festa e divertimento. Io avevo la testa altrove, alla mia famiglia, alla possibile chiusura dei confini e all’impossibilità di tornare a casa. Quando è stato imposto lo stop, ho parlato con il mio preparatore a mente fredda. Non ho fatto allenamenti estenuanti sui rulli come tanti miei colleghi. La stagione era iniziata a gennaio, c’erano già stati due mesi intensi. Abbiamo colto l’occasione per rifiatare: qualche giorno di stacco e poi ho ripreso tranquillamente. Sarò onesto, ho passato la quarantena in maniera estremamente tranquilla».
Cosa ne pensa, invece, del calendario? «Non è compito mio sindacare sulle date delle corse. Sono state assegnate delle date e non le metto in dubbio, se iniziassi a dubitare di tutto non muoverei più un passo. Io lavoro prendendo per certe quelle date, poi vedremo. L’UCI non poteva fare altrimenti: il tempo è poco e le gare sono tante. Per me vale sempre il vecchio detto: poche chiacchiere e pedalare».
Foto in evidenza: ©Team Arkéa Samsic, Twitter