La letteratura sportiva non esiste: intervista a Isabella Ferretti

L’idea di letteratura sportiva che porta avanti la 66thand2nd non passa inosservata.

 

Per chi scrive, la 66thand2nd ha principalmente un merito: dare dignità allo sport. Si riscopre così un mondo meraviglioso e terribile, fatto di storie, persone e personaggi. Ci si rende conto di cos’è lo sport: una metafora della vita, un pretesto per raccontare altro. 66thand2nd riesce dove i canali tradizionali, tendenzialmente, falliscono. La prestazione sportiva si mescola all’introspezione, la parabola di un campione apre e chiude un periodo, bello o brutto non importa, della nostra esistenza. Il linguaggio preconfezionato del giornalismo viene abbandonato, rivisitato, arricchito. Potremmo dire molto anche di Isabella Ferretti, l’anima della 66thand2nd insieme al marito, Tomaso Cenci: ma non lo faremo. Preferiamo indirizzarvi al sito della casa editrice, https://www.66thand2nd.com/, uno dei luoghi migliori dove perdersi parlando di sport.

©leanne@tendenci.com

Dunque, Isabella: come nasce 66thand2nd?

L’idea che si potesse fare qualcosa di serio risale al soggiorno lavorativo mio e di Tomaso Cenci a New York. Eravamo appena sposati. Venendo da Londra e arrivando negli Stati Uniti, per noi appassionati di lettura e di sport si aprì letteralmente un nuovo mondo. Si poteva parlare, a tutti gli effetti, di letteratura sportiva. Persino gli scrittori più blasonati attingevano a piene mani dal mondo dello sport. E questa è, ancora oggi, una delle differenze più marcate tra l’Italia e altre nazioni. Un altro cardine del progetto di 66thand2nd è il melting pot. Insomma, si sarà capito: queste esperienze ci hanno fatto entrare a contatto con una ricchezza che, fino a quel momento, non avevamo conosciuto. Decidemmo che, prima o poi, l’avremmo portata in Italia. Un progetto del genere negli Stati Uniti non avrebbe avuto senso. Nel 2008, il sogno nel cassetto è diventato realtà.

Come sopravvive una casa editrice come 66thand2nd che deve quotidianamente fare i conti con i colossi del settore che fagocitano tutto o quasi?

Le barriere sono molte. Penso alla diffusione e alla visibilità in libreria, ai costi di filiera, al dominio della scontistica: va meglio chi ha la possibilità di applicare sconti sempre più frequenti e importanti. Però non posso non riconoscere che 66thand2nd è stata un’intuizione giusta anche dal punto di vista imprenditoriale. Siamo andati ad occupare una nicchia sostanzialmente libera e lo abbiamo fatto proponendo sistematicamente due generi letterari.

Dove nasce la vostra passione sportiva? Quali sono gli sport e i personaggi che più vi toccano?

Prima di tutto, cerchiamo di mantenere le distanze da quel giornalismo sportivo che si nutre della caduta, del riscatto, dell’aspetto scandalistico. Parlando di ciclismo, penso a “Pantani era un dio” di Marco Pastonesi. Marco non nega che Pantani abbia avuto a che fare col doping ma lo fa dandogli un’importanza giusta: non è il tema centrale del libro né tantomeno intacca la figura dell’atleta. Anche con personaggi che potevano sollecitare il leitmotiv del dannato, della caduta e del riscatto più o meno riuscito, abbiamo cercato un punto di vista diverso. E lo abbiamo trovato. Di uno sportivo conosciuto ci interessa scandagliare il suo passato, la sua interiorità, la sua identità. Ma non dimentichiamoci di quante storie praticamente sconosciute non parla mai nessuno. C’è molto da raccontare. Credo che il nostro pubblico non cerchi soltanto il personaggio, il volto in copertina. Cerca di più: un narratore, un modo di raccontare, uno stile.

Saprà meglio di noi, Isabella, quanto sia difficile, in Italia, accostare queste due parole: letteratura sportiva. In molti storcono il naso, come se lo sport non meritasse di essere raccontato in un certo modo. Come avete affrontato il problema?

All’inizio, soltanto in pochi capirono le nostre intenzioni. Quando si parlava di letteratura sportiva, la maggior parte dei lettori spaziava con la mente tra la manualistica e il libro fotografico. Il problema, per me, nasce da entrambe le parti in causa: chi produce e chi acquista. Il pubblico italiano non è abituato a leggere insieme questi due termini, come se fossero un solo concetto, una sola idea. In Italia, dove con “sport” si fa riferimento quasi esclusivamente al calcio, l’atleta è un ignorante perché corre, suda e non ha tempo per fare altro: questo è ciò che pensano molti lettori e molti appassionati. Eppure non è sempre così: ma si sa, la tradizione e il comune sentire sono duri a morire o a essere soltanto messi in discussione. E poi, nel nostro paese chi legge libri di sport viene considerato un lettore di secondo, terzo o quarto rango. Il fatto che le donne siano coloro che trainano la letteratura nazionale non aiuta. Una donna, che identifica lo sport col calcio, non è interessata, non si accosta: viene costantemente bombardata di notizie sul mondo del pallone e per lei è più che sufficiente, quasi nauseante. E, se non si approfondisce, si finisce per credere che sport e calcio siano la stessa cosa.

E l’editore? Che ruolo ha, da questo punto di vista?

Importantissimo, senza dubbio. Ma viene interpretato in maniera un po’ troppo egoistica, direi. C’è chi nello sport non investe un euro e chi, viceversa, decide di puntarci soltanto per avere un ritorno economico garantito e immediato: una vacca da mungere, la strada più semplice per aumentare il fatturato. E invece lo sport è poesia, la grazie dei corpi in movimento. Certo, anche 66thand2nd ha pubblicato dei libri che hanno inciso pesantemente sul fatturato. Ma non erano nati per quello. Si possono giudicare, anzi, come dei lavori di rango letterario. Che abbiano venduto molto è soltanto una conseguenza: che a noi può fare solo piacere, si capisce.

Come viene raccontato lo sport all’estero?

Molto semplicemente, non si ha paura di fare entrare lo sport nel racconto. L’autore affermato non ha timori di nessun genere nel cimentarvisi. Diventa, finalmente, parte integrante della tessitura narrativa, non più mero corredo laterale. Faccio un esempio: “La partita perfetta”, di Michael Shaara. Billy Chapel, il protagonista, è uno dei più grandi campioni di baseball mai esistiti. È arrivato al capolinea e deve affrontare l’ultima partita della stagione e della sua carriera. Spera di realizzare un sogno che mette i brividi soltanto a immaginarlo: giocare la partita perfetta, ossia riuscire a eliminare tutti i battitori della squadra rivale senza concedere che arrivino in base. Durante il nono inning, ovvero l’ultimo “tempo regolamentare”, Shaara descrive tanto la partita quanto quello che succede intorno e nella testa del protagonista. Quando abbiamo presentato il libro a Nettuno, realtà italiana dall’indubbio amore per il baseball, c’erano persone che piangevano. Ecco, in Italia questa peculiarità non ce l’abbiamo e dobbiamo svilupparla. Abbiamo notato che nei giovani non ci sono preconcetti limitanti. Questo ci lascia sperare che, prima o poi, questo percorso di ricerca darà i suoi frutti. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di stimolare.

@Diego Fornero, Twitter

Cosa dà il libro in più rispetto al giornale, alla rivista o al web?

La letteratura è durata: del tempo del racconto, delle pagine. C’è un respiro più ampio, la possibilità di approfondimento che nessun altro strumento permette. Rispetto a come siamo abituati oggi, la lettura di un libro mette in moto meccanismi cerebrali diversi: non c’è interesse né nell’esprimere concetti con rapidità né nel ricevere un’informazione tempestiva. Una sorta di tempo dilatato, dato dal libro, ma che possiamo quasi gestire noi.

L’Italia sa scrivere?

Ecco, questa è una tematica interessante ma ampia da sviluppare. Allora, quello che posso dire è che in Italia ci sono ottimi scrittori e scrittrici. Anche scrittrici, diciamolo. Penso a Helena Janeczek (scrittrice tedesca naturalizzata italiana, ndr), che nel 2018 ha vinto il Premio Strega. Guardandomi intorno, vedo un vivaio di scrittrici davvero importante. L’Italia, del resto, ha una tradizione forte. Tornando a quanto dicevamo prima su 66thand2nd, mi viene in mente ciò che la critica ha detto di “Maradona è amico mio” di Marco Ciriello. L’autore, in questo libro, affianca all’esperienza napoletana di Maradona la sua adolescenza. La storia segue, quindi, due binari che procedono l’uno accanto all’altro e che, spesso, finiscono per intersecarsi. La critica, quando ha dovuto cercare dei riferimenti, non ha fatto nemmeno un nome italiano: perché in Italia non c’è niente del genere. Ricapitolando: l’Italia ha ottimi scrittori e scrittrici sui quali puntare; l’idea che 66thand2nd ha portato e continua a portare è nuova, quindi ci vorrà ancora qualche anno per avvicinare la letteratura straniera; terzo, anche se probabilmente è il punto più importante, per alcuni che sanno scrivere ce ne sono molti che, purtroppo, pensano di sapere ma in realtà non sanno.

Si spieghi meglio, Isabella.

La 66thand2nd si è momentaneamente presa una pausa dalla valutazione dei manoscritti perché abbiamo già moltissimo materiale. Adesso siamo pieni e abbiamo già scelto i lavori che verranno pubblicati prossimamente. Nonostante questo, continuano ad arrivarci migliaia di manoscritti, quindi leggiamo comunque quello che ci mandano. Purtroppo devo dire che, in generale, la qualità è povera. Mi riferisco, in primo luogo, ai contenuti. Per scrivere bisogna avere qualcosa da dire: e invece, la maggior parte delle persone non ha, o perlomeno non sembra avere, nulla di interessante da dire. Penso, poi, alla scrittura. Saper scrivere non significa individuare una storia e svilupparla dall’inizio alla fine. È un amalgama di fattori. Scrivere bene vuol dire avere un pubblico che segue, legge e si appassiona a ciò che scriviamo: la nostra opera non può piacere soltanto a noi. Il talento non è sufficiente: ci vogliono tecnica, professionalità, impegno, costanza, ricerca. Bisogna passare ore e ore seduti, bisogna allenarsi e affinare, bisogna leggere tanto, più che si può. E invece, in Italia si legge pochissimo: prendete una qualsiasi statistica inerente a questo tema e troverete il nostro paese con le sue percentuali poco nobili.

Come si può invertire questa tendenza?

Difficile da dire, ma almeno è la domanda giusta da porsi. Bruno Ventavoli, nel settembre del 2018, ha scritto per “La Stampa” un pezzo interessante. La riflessione che lo muoveva è la seguente: dato che in Italia si legge poco, pubblicare meno libri potrebbe essere la soluzione giusta. Da una parte, il lettore non si spaventa perdendosi tra migliaia di titoli in continuo aggiornamento; dall’altra, si eviterebbe l’intasamento di un settore che ha già le sue difficoltà da fronteggiare. Quindi mi sono chiesta: calmierare la produzione editoriale aiuterebbe le persone a leggere di più? La mia risposta è stata: no. Mi è saltato alla mente un parallelo che reputo calzante. Il proliferare dei canali televisivi ha aumentato la scelta a discapito della qualità. Per un programma buono, ce ne sono una marea di cui si potrebbe fare a meno. Tornare alla Rai di cinquant’anni fa avrebbe senso? Per me no: quel sistema fatto di due o tre canali, oggi non funzionerebbe più. La situazione non migliorerebbe: e così anche nella letteratura. La sfida principale è quella di invogliare alla lettura i bambini, perché parte tutto da loro. Fargli capire che la lettura e la letteratura sono una fetta di tempo che ci ritagliamo per noi stessi. Però mi rendo conto di quanto sia difficile. Il lavoro, la vita di tutti i giorni, lo stress: i genitori non penserebbero mai al problema della lettura dei loro figli.

Può darsi che la mancanza di contenuti e qualità abbia concorso alla crisi dei grandi quotidiani?

Voglio essere sincera: è una sfera che non conosco nel dettaglio, quindi preferirei astenermi da giudizi netti. Però può darsi, certo. Credo, tuttavia, che il problema che oggi incontrano tanti giornalisti sia un altro: l’incapacità di riuscire a stabilire un legame forte col giornale e con lo stipendio. Se si è costretti a scrivere dieci articoli per sbarcare il lunario, la qualità può risentirne. Se, invece, ci fosse la possibilità di scriverne uno o due, e quindi approfondire e dedicarvi più tempo, la situazione sarebbe diversa.

La battaglia che vede affrontarsi letteratura tradizionale e letteratura, per così dire, di nicchia, va avanti da sempre. Perché si ha l’impressione che non possa uscire niente di buono da certi ambienti? Quasi come se le opere più inflazionate e conosciute fossero, allo stesso tempo, scontate e superficiali.

Parto da un presupposto: meglio con un libro in mano che senza. Che sia bello o brutto, classico o commerciale, non importa. O meglio, importa ma da un certo punto in poi. Se tutte quelle persone che non leggono o leggono pochissimo avessero, almeno ogni tanto, un libro in mano, il presente non sarebbe così tragico. Tornando alla domanda, direi che affermare che tutto ciò che vende è senza spessore, è esagerato. “Open”, la vita di Andre Agassi, è un esempio emblematico. Faccia in copertina, storia avvincente e personaggio famoso: il successo era assicurato. Però, al netto di tutto questo, mi sembra un buon libro. Ricordiamoci che le parole sono di Moehringer, un premio Pulitzer. Certo, di tennis scrisse anche David Foster Wallace, e probabilmente lo fece meglio: però non direi che “Open”, per quanto più superficiale di altri, sia un brutto libro. Tutt’altro. Anche 66thand2nd sta attenta a questo aspetto. A riguardo, non posso non citare Claudio Gregori. Nel suo “Il corno di Orlando”, ripercorre vita, morte e miracoli di Ottavio Bottecchia. Dietro al lavoro di Claudio, c’è una carriera lunghissima passata, in gran parte, al servizio del ciclismo; c’è uno studio estremamente approfondito; e poi la sua scrittura, che unita alle avventure del personaggio ha originato un libro splendido. Avrebbe potuto sfruttare le sue qualità e il suo nome per realizzare un qualcosa di più facile, semplice e immediato. Ma non lo ha fatto. E la sua grandezza è anche qui.

Siamo in chiusura, Isabella. Perché i libri sembrano poter resistere e durare ancora nel tempo, mentre il resto del cartaceo se la passa così male?

Perché il libro rimane. Non è merce che si esaurisce nel momento in cui viene pubblicata o letta. 66thand2nd cura molto questo aspetto. Ogni lavoro è un’avventura diversa, un disegno diverso, un progetto diverso. Certo, questo aumenta di molto i costi, ma siccome crediamo nell’unicità di ogni libro, di conseguenza crediamo che ogni libro debba essere unico. Un oggetto particolare: dev’essere bello da leggere ma anche da vedere, da sfogliare, da tenere in mano. Il libro dura nel tempo perché è un piacere rivolto a se stessi, uguale e diverso tanto nella forma quanto nei contenuti. E non ha scadenza.

 

 

Foto in evidenza: ©66thand2nd

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.