Tra Kittel e Zakarin, tra Belkov e Battaglin, Matteo Fabbro reclama spazio.

 

Matteo Fabbro ha un cognome artigianale e un’origine concreta, tangibile. È friulano come Alessandro De Marchi, col quale si allena regolarmente. Un pezzo iniziato così farebbe esaltare nostalgici e tradizionalisti, ma ecco che arriva la coltellata. Fabbro dice che il Friuli gli piace e che l’attaccamento alla terra che hanno i friulani non ce l’ha nessun altro. Ma dice anche, Fabbro, che vivere in altri posti oggi conviene di più e che quindi sì, sta pensando al suo futuro e al fatto che questo possa essere ambientato lontano dal Friuli. Chi darà la colpa al ragazzo, ventiquattro anni ad aprile, chi darà la colpa al mondo che è marcio o alle mezze stagioni che anche quest’anno sembrano andate a farsi benedire. Io credo che sia tutto dovuto all’epoca nella quale stiamo vivendo: quella della convenienza. C’è sempre qualcosa di più conveniente e la convenienza mette in crisi anche i valori più saldi.

Il ciclismo non è uno sport conveniente. Si rischia tanto e si guadagna il giusto. Sono in pochi a firmare contratti importanti: il resto deve accontentarsi in media di qualche euro per ogni chilometro percorso. Trentamila chilometri e tutto quello che comportano valgono più o meno di mezzo milione? Non saprei. E poi la fatica. “Mai stato male come al Giro del Delfinato dello scorso anno. Non andavo, in me non era rimasto più nulla. Gli ultimi due giorni furono un calvario, dall’inizio alla fine”. Bei tempi quelli in cui, poco più che un bambino, Fabbro andava alle corse mica tanto per correrle ma per godersi la compagnia degli amici e dei compagni tra una merenda e una partita a pallone prima di salutarsi. “E per lungo tempo non mi sono mai allenato. Per me il ciclismo era la gara e basta. Poi, quando sono cresciuto e ho capito come funzionava questo mondo, è cambiato tutto. Mi ripetevo che non era una vita facile, è vero, ma rispettarla non mi pesava per niente”.

Probabilmente nemmeno la Katusha, Fabbro ce lo concederà, è stata la scelta più conveniente. “E invece vi sbagliate. Feci qualche giorno di ritiro anche con la Sky ma la Katusha è la squadra che più di ogni altra ha creduto in me. Mi lasciano tranquillo facendomi sentire allo stesso tempo importante”. Intanto al primo anno tra i professionisti ha diviso la camera con Belkov mentre il 2019 gli ha regalato un compagno italiano: Enrico Battaglin. Dividere un ambiente così intimo e prezioso con corridori che hanno vinto al Giro d’Italia è un bell’apprendistato. “E Kittel e Zakarin sono due grandi capitani: il primo di testa, non l’ho mai visto remissivo nonostante un 2018 sottotono; l’altro di gambe, dato che in salita va fortissimo”. E le difficoltà che non ha trovato da un punto di vista comunicativo le ha incontrate invece su strada. “Si parla inglese e me la cavo abbastanza bene. Pensavo peggio. Per il resto, per un neoprofessionista non c’è niente di peggio del folle cambio di ritmo del gruppo”.

Matteo Fabbro prende nota del tempo che passa rilasciando un’intervista in più e commettendo un errore in meno. “Sono impulsivo tanto in sella quanto nella vita normale e questo è il mio più grande pregio e difetto. Un anno fa rispondevo subito a ogni attacco o sollecitazione, non ragionavo. Adesso sì, e infatti sento di andare sempre più forte”. Dall’ultima, splendida vittoria a San Daniele è passato un anno e mezzo. Era ancora un dilettante e lasciò la categoria nel modo migliore: con un successo nella classica di casa. L’obiettivo di questa stagione è il Giro d’Italia ma la fila è lunga e proprio per questo non è detto che Fabbro ce la faccia. “E se posso viaggiare con la fantasia, mi vedo a braccia alzate sul Muro di Huy: la Freccia Vallone è la mia gara preferita e Joaquim Rodríguez l’ha vinta una volta dopo due secondi posti consecutivi. Mi ci sono sempre rivisto: piccolo e minuto ma non gli mancava niente”. Essendo appassionato di storia, Matteo Fabbro sa che studiarla è emozionante ma scriverla è l’ambizione più profonda di ogni essere umano.

 

Foto in evidenza: ©Georges Ménager

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.