C’è un altro colombiano dal talento cristallino da seguire: Sergio Higuita.

 

 

Sergio Higuita arrivò per la prima volta in Europa nel 2016. Del ciclismo conosceva i rudimenti necessari, il minimo indispensabile: seguiva alla televisione gli appuntamenti principali, ammirava Alberto Contador e la fatica di pedalare non gli dispiaceva poi tanto. Aveva firmato da poco con la Manzana-Postobon, una delle squadre più importanti del Sudamerica; non aveva ancora compiuto diciannove anni. La sua prima gara europea – la sua prima vera gara, forse – sarebbe stata la Vuelta Asturias, una breve corsa a tappe.

Nella prima, che si concludeva sull’Alto de Acebo, vinse Hugh Carty, oggi compagno di squadra di Higuita alla Education First. Il colombiano arrivò ventitré minuti più tardi, stremato. Sentiva male dappertutto, ma non voleva darsi per vinto. «Dissi a me stesso che avrei dovuto combattere per ottenere quello che volevo», ricordò tempo dopo sul sito della Education First. E così il giorno dopo era in fuga. Al terzo, nell’ultima delle tre tappe della corsa, Higuita arrivò diciassettesimo nel gruppo che si giocò il decimo posto. Nella classifica dei gran premi della montagna chiuse al terzo posto.

©Ride Cycling News, Twitter

Per tanti anni, Higuita ha gravitato nell’orbita del ciclismo senza mai venirne definitivamente attratto. Fu Natalia, la sua maestra di educazione fisica, ad iscriverlo a una corsa insieme ad un amico. Higuita aveva cinque anni e fino ai quattordici avrebbe continuato a prendervi parte: non l’ha mai vinta, ma per lungo tempo la sua carriera di ciclista è stata circoscritta a quell’evento. Il suo primo mentore fu Efraín Domínguez, in passato uno dei migliori pistard del paese. Higuita lo conobbe nel velodromo di Medellín. Ci finì per caso: ce lo mandarono a gran voce quelle persone stufe di vederlo sfrecciare per le ciclabili della città. Chissà se hanno mai saputo d’avergli cambiato la vita.

Domínguez ha insegnato a Higuita tutto quello che poteva insegnargli: quando bere e quando mangiare, come pedalare, come posizionarsi in sella. La pista ha influito notevolmente nella crescita di Higuita. Jonathan Vaughters, il capo della Education First, ha raccontato che l’unicità di Higuita, rispetto agli altri colombiani, è quella di saper fare la differenza anche in discesa e nella guida del mezzo: non soltanto in salita, dunque, il suo terreno di caccia preferito, viste anche le dimensioni lillipuziane – un metro e sessantacinque per cinquantacinque chili. Ogni volta che Vaughters va in Colombia, addetti ai lavori e tifosi gli ricordano che sta maneggiando il miglior discesista che il ciclismo colombiano abbia mai conosciuto. Vaughters, che non è uno sprovveduto, sa che Higuita vale molto di più: insieme a Daniel Martínez, che corre sempre nella Education First, è il talento colombiano più cristallino. Subito dietro a Egan Bernal, ovviamente.

Eppure, quando l’agente di Higuita propose il ragazzo a Vaughters, quest’ultimo venne colto alla sprovvista: non sapeva chi fosse. Si rivolse, dunque, a Urán. «Mai sentito prima d’ora», fu la risposta. Nemmeno il capitano della Education First, nonché fine conoscitore del ciclismo colombiano, sapeva chi fosse Sergio Higuita. Le sue prestazioni, dunque, diventarono il suo biglietto da visita: nelle tappe di montagna era tra i primi; quando la corsa era troppo semplice, invece, Higuita aspettava impaziente qualche salitella, anche la più insulsa, per scattare, per mettersi in mostra e per racimolare punti per la classifica dei gran premi della montagna. «In Cina si muoveva esattamente così», ha ricordato sorridendo Vaughters a CyclingTips. «Le corse erano piatte, ma lui sprintava lo stesso e scattava su ogni salitella. Era divertente vedere un piccolo scalatore colombiano così impegnato a mettersi in mostra in corse che con lui non c’entravano niente».

©The Cycle Collective, Twitter

Più che divertito, Vaughters sembrava incantato. I patti erano questi: per il 2019 Higuita si sarebbe trasferito in Europa alla Fundación Euskadi, squadra presieduta da Mikel Landa; in caso di risultati convincenti, sarebbe passato alla Education First appena possibile, quindi ad agosto. Quando Higuita si presentò alla nuova squadra, non destò una buona impressione: era vestito alla bell’e meglio e le scarpe che portava, più che usurate, erano proprio rotte. Siccome sapeva che in Europa gli avrebbero fornito del materiale tecnico, Higuita lasciò gran parte di quello che possedeva alla Nueva Generación, la squadra nella quale era entrato dopo l’incontro con Efraín Domínguez. Pare che Higuita lo faccia ancora oggi con quello che accumula durante la stagione.

Alla Fundación Euskadi rimase appena quattro mesi, giusto il tempo di conoscere Landa e rubargli qualche segreto del mestiere. All’inizio di maggio, Higuita era già un atleta del World Tour con la Education First e avrebbe partecipato all’imminente Tour of California. Nel corso della sesta tappa, mentre il gruppo pedalava verso il Mount Baldy, Higuita si ritrovò in una situazione per lui nuova: van Garderen, uno dei suoi capitani e il leader della classifica generale, stava accusando una stanchezza eccessiva, quella che prima o poi obbliga a salire col proprio passo, un passo mai sostenuto. Urán, l’altro capitano presente in corsa, non stava poi molto meglio. Decisero di liberare Higuita, che pochi minuti più tardi concludeva la tappa al secondo posto, anticipato da Pogačar in una volata a due. Urán e van Garderen accusarono un minuto e mezzo di ritardo.

«Volevo attaccare e regalare un po’ di spettacolo al pubblico», quasi si giustificò nel dopocorsa. «Il pubblico sa apprezzare uno stile aggressivo». Urán, che fino a poco tempo fa nemmeno lo conosceva, si è limitato a dire che «è proprio un bravo ragazzo». Il giorno dopo, sul traguardo finale di Pasadena, l’autobus della Education First era circondato dai tifosi colombiani: per una volta, più che Urán volevano Higuita. «È come Urán», ha pronosticato uno dei tifosi a CyclingTips. Anche meglio, forse. Rispetto a Urán, Higuita ha uno scatto bruciante: il motivo principale per cui Vaughters lo ha voluto. «Un’esplosività del genere, tanto nel momento dell’attacco quanto nel breve termine, non si insegna. Al massimo si può allenare, ma prima di tutto è una questione di genetica», spiegava. «Col tempo lavoreremo sulla tenuta e sulla resistenza: questa sì che si può allenare». Allora, Higuita diventerà davvero un serio pretendente alle corse più importanti.

©La Vuelta, Twitter

Non che sia rimasto a guardare, beninteso. Ha preso in mano il suo destino e il suo talento, cominciando a primeggiare in corse di secondo piano ma tutt’altro che sconosciute. Lo scorso anno, dopo l’exploit al Tour of California, è arrivato quinto alla Tre Valli Varesine, quarto al Giro di Polonia e nella prova in linea dei campionati del mondo riservata agli Under 23, terzo al Giro dell’Emilia. Alla Vuelta ha chiuso al quattordicesimo posto, a oltre mezz’ora da Roglič, ma è stato uno dei più positivi e propositivi: ha portato a termine quattro tappe tra i primi dieci, vincendone una – quella di Becerril de la Sierra – facendo il vuoto sull’ultima salita di giornata e resistendo al rientro dei migliori tra la discesa e la pianura. Nel 2020, almeno fin qui, ha partecipato a due corse e l’ha vinte entrambe: la prova in linea dei campionati colombiani davanti a Bernal e Martínez e il Tour Colombia 2.1, anticipando ancora Bernal e Alaphilippe nella quarta tappa e dominando la classifica generale senza particolari paturnie.

Mentre il ciclismo segue con apprensione i suoi progressi e Vaughters ne loda la disciplina e il rispetto, Sergio Higuita ha già stilato una lista di tutto quello che vuole realizzare: diventare famoso tanto quanto l’altro Higuita, René, e magari anche di più; essere riconosciuto e apprezzato come succede a Quintana e Urán; portare in alto il prestigio sportivo e ciclistico della Colombia; distinguersi per bontà e professionalità; e poi vincere il più possibile: la Vuelta a España, il Giro d’Italia, il campionato del mondo, il Giro di Lombardia, il Tour de France. Ma tutto questo si può dire in breve, riassumerlo in un’espressione o in poche parole. «Voglio essere una leggenda», ad esempio, sono quelle che ha usato lui.

 

 

Foto in evidenza: ©ByTheMinute Cycling, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.