Salviamo il ciclismo: intervista a Luca Guercilena

Luca Guercilena, il team manager della Trek-Segafredo, auspica un ciclismo diverso.

 

 

Delle diciannove squadre del World Tour, soltanto una può vantare un team manager italiano: la Trek-Segafredo di Luca Guercilena, per l’appunto. Ho l’impressione che troppo spesso il ciclismo italiano si sia dimenticato d’avere una figura del genere a portata di mano: magari lavorare in una squadra molto italiana, ma fondamentalmente di matrice americana, non aiuta; però Luca Guercilena non è nel ciclismo da ieri, ma da almeno vent’anni. La sua precocità, la sua brillantezza e la sua duttilità lo hanno portato in breve tempo a raggiungere il World Tour, per poi diventarne un punto fermo. Alle sue ampie conoscenze ciclistiche sono subentrate quelle manageriali, una commistione che rende la sua figura ancora più interessante e autorevole. Almeno da un punto di vista manageriale, è uno dei pochissimi professionisti – se non l’unico – a mettere in comunicazione il ciclismo italiano con quello internazionale.

©CA Technologies, Fra, Twitter

Partirei proprio da qui, Luca. Come viene visto il ciclismo italiano all’estero?

Inevitabilmente, nel corso dell’ultimo decennio, il nostro movimento ha perso identità e se ne sono accorti tutti. Questo non significa che l’Italia conti poco o nulla: anzi, rimane una delle nazioni storiche del ciclismo, una di quelle in cui il tifo e l’agonismo sono più accentuati, probabilmente quella dove s’impara meglio il mestiere. Tuttavia, la rapida e inesorabile scomparsa delle formazioni italiane non è passata inosservata: e, fatto ancora più grave, pochissime aziende extrasettoriali valutano la possibilità di investire massicciamente nel ciclismo. Non sarò il primo a dirlo, ma è davvero un peccato: un tempo di squadre di punta ne avevamo una decina, sembra passata un’eternità. Ora non riusciamo ad averne nemmeno una. I problemi economici dell’Italia avranno senz’altro contribuito, ma a questi si affiancano anche quelli culturali.

Cosa significherebbe per il nostro movimento poter contare su una grande squadra di matrice italiana?

Ecco, hai centrato il punto: intanto basterebbe averne una. Adesso al ciclismo italiano manca un faro che possa segnalare alle tante barche dove poter attraccare. Non si tratta di avere una grande squadra composta unicamente da atleti italiani: qualcuno dei nostri ne rimarrebbe fuori o continuerebbe a correre all’estero, si capisce, ma intanto sarebbe un inizio. Il ciclismo italiano avrebbe un faro, un riferimento, un traino: un esempio virtuoso che potrebbe portare fiducia e ottimismo, vale a dire investimenti e possibilità, e quindi altre squadre e altri approdi per i giovani più talentuosi che arrivano dalle categorie inferiori e un sistema italiano che torna ad essere forte e stabile.

E in questo processo la Trek-Segafredo dove si colloca?

Secondo me l’ultima grande realtà italiana è stata la Liquigas: aveva un budget importante, l’impronta era italiana, ma allo stesso tempo godeva di fama e credito internazionali. La Trek-Segafredo si pone su un piano diverso: la presenza di corridori e tecnici italiani è corposa, ma la nostra anima è internazionale e ancor più americana. E poi non dimentichiamoci dell’importantissimo lavoro che svolgono le Professional, senza le quali il ciclismo italiano negli ultimi anni avrebbe veramente rischiato grosso. Paradossalmente, considerando le tante personalità italiane che fanno parte del World Tour, il ciclismo italiano è tanto internazionale e poco nazionale: dobbiamo ripartire dall’Italia e dalle nostre aziende, solo così possiamo sperare di creare una struttura solida e duratura. Che il ciclismo italiano non scomparirà mai del tutto lo sappiamo già: avremo sempre un campione e diversi ottimi corridori in grado di affermarsi, così come non mancheranno mai direttori sportivi, meccanici e massaggiatori. Ma al talento individuale deve accostarsi una visione d’insieme, altrimenti le vittorie continueranno a rivelarsi insufficienti.

©Trek-Segafredo, Twitter

Ma dove sono finiti gli sponsor italiani? Sono ancora impauriti e disgustati dall’ombra, nemmeno tanto velata, del doping che fu? Oppure è il mondo del ciclismo che non riesce a comunicarsi all’esterno, dimostrando che un investimento a lungo termine è redditizio?

Sicuramente il passato non aiuta, ma non si può cancellare. È un handicap col quale dobbiamo confrontarci ogni giorno, però non deve diventare il dito dietro al quale nascondersi. Come dicevo prima, i limiti culturali di una parte dell’imprenditoria italiana non sono minori dei problemi economici che il nostro paese ha dovuto fronteggiare. Fatta eccezione per il calcio, le grandi aziende tendono a non schierarsi per non inimicarsi nessuno e continuare, così, ad accontentare il grande pubblico. In tanti altri stati, invece, la questione viene ribaltata: il manager di turno si mette in gioco e alla prova, non ha paura di esporsi in prima persona e fa di tutto per dimostrare le proprie capacità anche in ambito sportivo. Capisco anche, tuttavia, che non è semplice decidere d’investire nel ciclismo: di valore economico aggiunto non se ne crea molto e a volte non basta nemmeno una grande stagione per rientrare o andare in pareggio.

L’idea a cui fai riferimento è quella che animava i patron degli anni ottanta, novanta e duemila, no?

Assolutamente sì, sono d’accordo, la si ritrovava più vent’anni fa che adesso. Penso alla Del Tongo, alla Sammontana, alla Gis Gelati: squadre che non ho mai vissuto in prima persona, ma di cui conosco la storia e la traiettoria. Ecco, quell’approccio mi piace molto: la squadra era un prolungamento dell’azienda, doveva promuoverla e migliorarne l’immagine attraverso l’attività sportiva e le vittorie. Da questo punto di vista, Lampre e Liquigas sono stati gli ultimi grandi esempi. La più importante, però, rimane la Mapei, che a suo tempo impresse una svolta notevole rivoluzionando il marketing ciclistico. Per lasciare il segno serve un investimento importante, da qui non si scappa, a maggior ragione in questo ciclismo che costa sempre di più. Allo stesso tempo, tuttavia, serve anche qualcos’altro: la passione, quella sportiva e ciclistica e quella che si può provare nei confronti della propria azienda; e il desiderio di mettersi in gioco, di provare le proprie capacità manageriali e coordinative anche nel mondo dello sport.

La Mapei, peraltro, è una realtà che conosci bene, dato che ne hai fatto parte.

Sì, sostanzialmente per un decennio, nella mia vita precedente, ho fatto parte della Mapei prima e della Quick-Step poi. Il primo contatto, però, più che con la Mapei lo ebbi col centro Mapei, dove testano i corridori. Io avevo corso fino ai dilettanti, poi mi concentrai sugli studi universitari: più che un allenatore mi interessava diventare un’insegnante di educazione fisica, ma alcuni juniores che avevo iniziato ad allenare da poco arrivarono in nazionale e da lì, passo dopo passo, entrai nel mondo del ciclismo professionistico. Al centro Mapei conobbi Aldo Sassi, il quale aveva bisogno di una figura che sapesse lavorare al pubblico e coi giovani. Di lì a breve, la Mapei decise di allestire quella squadra giovanile che poi sarebbe passata alla storia: c’erano Cancellara, Pozzato, Rogers. All’epoca, tra la fine degli anni novanta e i primi duemila, lavoravo perlopiù in laboratorio e come preparatore. Poi Lefevere mi chiese se volevo lavorare con la Quick-Step e io accettai. Per diverse stagioni mi districavo tra il ruolo di preparatore e quello di direttore sportivo, non c’era una divisione netta e sistematica tra i due. Questo fino al 2011, quando nacque la Leopard-Trek.

©Trek-Segafredo, Twitter

Cosa ti spinse a lasciare la Quick-Step per la Leopard-Trek?

La presenza degli Schleck influì molto. La Quick-Step mi aveva insegnato tantissimo per quanto riguarda le classiche, ma volevo iniziare a capire qualcosa di più dei grandi giri e della classifica generale. E poi ritrovai Cancellara, col quale lavorai nei primi anni della sua carriera. Di Fabian sono stato l’allenatore per diversi anni, si è creato un rapporto non solo professionale. Per qualche stagione, alla Leopard-Trek ho affiancato il lavoro con la nazionale svizzera proprio per seguirlo da vicino negli appuntamenti che coinvolgono le nazionali. Dal 2014, tuttavia, il ruolo che ricoprivo divenne sempre più gestionale e sempre meno preparatorio. Sostanzialmente la mia carriera da allenatore si è chiusa alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016, quando Fabian ha conquistato la medaglia d’oro nella cronometro e si è ritirato. A quel punto sono diventato team manager a tutti gli effetti, completando il processo che era iniziato nel 2014.

Le due anime, quella prettamente ciclistica e quella gestionale, confliggono?

No, non direi. Probabilmente il Guercilena-preparatore continua a prevalere, ma non mi stupisco: è una passione che avevo fin da ragazzo, quella che mi ha spinto a studiare la materia e che mi ha permesso di entrare nel ciclismo professionistico e costruirmi una carriera. Però mi interessano sempre di più anche le dinamiche aziendali; la Trek continua a coinvolgermi e per me è un piacere, perché mi appassiono e imparo. I ruoli sono estremamente diversi, s’intende: il preparatore ha bisogno di stabilire un rapporto profondo col corridore basato soprattutto sulla fiducia; il manager, invece, deve avere uno sguardo d’insieme, dev’essere più distaccato e non deve dimenticarsi di nessuno, quindi al rapporto “uno a uno” si sostituisce quello “uno a molti”. Le vittorie e i risultati della squadra sono solo un aspetto: ci sono gli sponsor, le biciclette, i mezzi per seguire i ragazzi, lo staff, la logistica. L’allenatore va di anno in anno, al massimo di biennio in biennio; il manager, al contrario, deve avere una visione d’insieme: non deve perdere di vista il presente, ma allo stesso tempo non può prescindere dal guardare al futuro. Adesso il mio ruolo è quello del team manager, ma non rinnego assolutamente il mio passato. Mi appassiona ancora, tant’è che spesso e volentieri mi piace confrontarmi coi tecnici della squadra.

Quali sono i corridori che ti vengono in mente per primi ripensando alla tua carriera? Quelli con cui hai lavorato e vinto, ma anche quelli con cui hai lavorato e non hanno reso come ti aspettavi.

Cancellara e Bettini sono i primi due, due campioni coi quali ho avuto la fortuna di instaurare un’amicizia che dura ancora oggi. Un altro è Rogers, un altro gran bel corridore che non mi ha mai deluso. E poi Giacomo Nizzolo, un ragazzo del quale ho seguito la maturazione, apprezzandola. È rimasto un bel rapporto, anche se le nostre strade si sono divise. Un grande rammarico, invece, è stato Julian Arredondo. Non ci siamo trovati del tutto ed è stato un peccato, perché era un ottimo scalatore che avrebbe potuto togliersi diverse soddisfazioni in più.

©Trek-Segafredo, Twitter

Una carriera così ampia e trasversale non poteva non portarti, prima o poi, a contatto col ciclismo femminile, una disciplina che sta crescendo a vista d’occhio. E infatti, nel 2019, è nata la formazione femminile della Trek-Segafredo: qual è il bilancio dopo un anno abbondante di attività?

Siamo molto soddisfatti e io sono stato il primo a rimanere piacevolmente colpito dal ciclismo femminile. È molto verace e agonistico, a differenza del maschile si lotta anche per il piazzamento. Le corse sono combattute e aperte, è un bel vedere. Mi auguro rimanga così, anche se la crescita esponenziale del movimento, per certi versi, potrebbe soffocare questa spontaneità. Staremo a vedere. Della squadra sono contento: abbiamo atlete valide sia per il presente che per il futuro, abbiamo già raccolto dei buoni risultati e continueremo a curare la multidisciplinarietà, uno dei fiori all’occhiello della nostra attività. Il movimento continuerà a crescere e sono sicuro che anche la figura della donna come ciclista professionista ne trarrà beneficio. Gli investimenti non sono ancora fuori controllo come nel maschile, quello femminile è un ciclismo ancora fattibile.

Volevo arrivare proprio qui, Luca. Non è che il ciclismo femminile stia irrobustendosi troppo velocemente?

Direi di no, mi sembra tutto sotto controllo. Capisco che il World Tour rappresenti un grande passo in avanti, secondo alcuni persino troppo grande, ma io la reputo una svolta doverosa: così le atlete sono molto più garantite, dalle assicurazioni alla maternità. Era necessario. Un argomento più delicato, invece, è l’assenza di una categoria intermedia tra junior e professionismo: non ci sono le dilettanti, in sostanza, e può darsi che alla lunga questa mancanza possa creare dei problemi. Sia per le ragazze, che ancora acerbe si ritrovano a competere con le migliori professioniste del gruppo, sia per chi deve allestire una squadra non potendo disporre di un budget elevato: verosimilmente finirà per scegliere un atleta di riferimento per poi circondarla di ragazzine alla prima esperienza nel professionismo. Una struttura del genere dà poche garanzie e genere molti dubbi. Per il resto, mi sembra che di criticità il ciclismo femminile non ne abbia. Ovviamente l’attenzione deve continuare a rimanere alta.

Dell’anima americana della Trek-Segafredo abbiamo già parlato, mentre del ciclismo americano non abbiamo detto ancora niente. Vedendolo da vicino, quale idea ti sei fatto? Dall’Europa si fatica a comprenderlo: tanti ragazzi di belle speranze che arrivano tra i professionisti e si perdono – o ridimensionano notevolmente – nell’arco di qualche stagione.

La situazione del ciclismo americano è molto complessa. Risentono ancora dell’ascesa e della disfatta di Lance Armstrong, una storia che ha segnato il paese e il movimento ciclistico molto più di quanto si possa immaginare. L’America ha bisogno di un eroe che la faccia appassionare, non basta essere un buon atleta per trainare la nazione. Se manca l’eroe di turno, l’America non si appassiona. Adesso, è chiaro, questo eroe non c’è e infatti il ciclismo americano sta attraversando un momento di impasse. Dato che corre nella mia squadra, spero che una figura decisiva per il ciclismo americano possa essere Quinn Simmons. Prima o poi un nuovo grande corridore americano dovrà nascere e per quanto ne sappiamo potrebbe essere lui. Tra gli juniores ha dimostrato molto, ma dobbiamo procedere con calma: ha soltanto diciannove anni e il ciclismo odierno non perdona né la fretta né l’ingordigia. Tuttavia, non dimentichiamoci che per ciclismo non bisogna intendere soltanto il ciclismo su strada. L’America si è innamorata del gravel, ad esempio, e molti professionisti vi si dedicano sempre più spesso. Probabilmente è la nazione di riferimento di questa giovane disciplina, questo per dire che il ciclismo in America è tutt’altro che scomparso.

©Audrey CORDON-RAGOT, Twitter

Rischia però di ridimensionarsi fortemente in Europa, l’epicentro del movimento ciclistico internazionale, a causa della pandemia che negli ultimi mesi ha sconquassato la nostra vita. Luca, qual è il tuo giudizio su quello che è accaduto dalla fine di febbraio in poi?

Allora, analizzando la situazione con freddezza e nettezza di errori se ne individuano tanti. Tuttavia, bisogna tenere conto della gravità e della complessità di quello che ci è successo. Potrei dire che l’UCI non è sempre stata rapida e chiara, ad esempio, ma allo stesso tempo non posso dimenticarmi che ogni stato ha gestito diversamente la pandemia e che l’UCI si è trovata, quindi, a fronteggiare un quadro spezzettato e non uniforme. Della Federazione Ciclistica Italiana non posso dire niente: con Renato Di Rocco abbiamo parlato di tutto e in più occasioni, confrontandoci su tutte quelle tematiche extrasportive che rivestono un’importanza capitale nella sopravvivenza di una squadra professionistica. Io stesso, dovendo gestire un gruppo corposo come quello della Trek-Segafredo, ho provato sulla mia pelle tutte le difficoltà del caso. Abbiamo cercato di rimanere il più possibile lucidi e sereni, i contatti erano costanti e ogni due settimane facevamo il punto della situazione nazione per nazione. Abbiamo fatto il massimo per tranquilizzare i ragazzi, da un punto di vista tanto economico quanto tecnico. Mi auguro soltanto una cosa: che il ciclismo impari la lezione.

Diventando più sostenibile? Sarebbe bello, d’altronde è quello che tutti vorremmo. Però alle parole non sembrano seguire tanti fatti. Cosa fare?

Potenzialmente, almeno a mio parere, il ciclismo ha dei margini di crescita incredibili: basti pensare al pubblico sulle strade e a tutte quelle persone che stanno scoprendo la bicicletta come mezzo di trasporto. Secondo me serve una grande riforma: globale, però, e non soltanto qualche modifica del regolamento qua e là. Penso alla vendita dei dati, dei diritti d’immagine e di quelli televisivi. E alla nascita di una lega professionistica parallela all’UCI che abbia capacità autonoma di legislarsi. Quando dico di guardare alle leghe automobilistiche o, più in generale, americane, subito si alzano le mani e s’iniziano ad elencare i problemi. Ma guardiamo anche cosa c’è di positivo ed interessante, dico io. Possibile che il ciclismo non debba mai imparare da nessuno, che tutto quello che rompe con la tradizione debba essere sbagliato? E non è vero nemmeno, come sostengono molti, che il modello ciclistico ha funzionato per cinquanta o sessant’anni. Basta guardare al calcio, all’hockey, al basket: la maggior parte della squadre esiste da un secolo, nel ciclismo invece sembra un miracolo che realtà come Quick-Step e Lotto siano attive da vent’anni. Il rapporto è di uno a quattro, non so se mi spiego. Il ciclismo è arrivato ad un bivio: cambiare o rimanere schiacciato. E non mi pare, considerando la pessima salute di cui gode, che possa permettersi di non guardarsi intorno senza prendere esempio dagli altri sport.

 

 

Foto in evidenza: ©Trek-Segafredo, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.