Una vita al servizio del ciclismo: intervista a Beppe Conti

Beppe Conti è uno dei vanti ciclistici italiani da ascoltare e preservare.

 

Beppe Conti è uno di quei rari personaggi per cui le presentazioni sono quasi superflue. Il suo nome riporta subito alle due ruote ciclistiche. Non solo, a dire il vero. Nella sua carriera giornalistica, Beppe Conti ha commentato anche calcio e sci. Ma con il ciclismo il rapporto è stato sempre particolare, sin da quando, da ragazzo, Conti lo sperimentò salendo su una bici da corsa: cinque anni in gruppo, dieci vittorie. Un corridore veloce che però faticava troppo in salita. Un’esperienza che lui stesso definisce di importanza capitale per il suo lavoro odierno: raccontare i campioni ed i gregari. La sua carriera giornalistica ha preso le mosse da “La Gazzetta dello Sport”, per poi tornare nella città che il 27 agosto 1951 gli diede i natali: Torino. Il primo Giro d’Italia seguito per “Tuttosport” sarebbe stata un’anticipazione del futuro: quarantatré Giri d’Italia, trenta Tour de France e innumerevoli classiche all’attivo. Narrati non solo con la penna, però. Conti sperimenta con incredibile disinvoltura anche il mezzo televisivo, prima in Mediaset e poi in Rai: pacato in ogni giudizio, distinto in ogni intervento. Attraverso i suoi servizi “Amarcord” ricollega ogni evento ciclistico alla sua storia; attraverso i suoi noti “petardi” stimola gli appassionati fornendo le ultime notizie di ciclomercato. Difficile sorprenderlo impreparato. La sua è una vita al servizio del ciclismo.

 

Beppe, partiamo raccontando il tuo arrivo nel mondo del ciclismo, il microcosmo che da circa quarant’anni ti vede fra i giornalisti di riferimento.

Tutto nasce da una grande passione giovanile. Non tutti lo sanno, ma sono un ex corridore: ho corso cinque anni vincendo dieci corse. Devo dire che me la cavavo anche abbastanza bene: facevo solo troppa fatica in salita, ma per il resto ero veloce, avevo stile e sapevo pedalare. Ero un succhiaruote tremendo. In salita, quando si restava in una decina, io c’ero. Se invece veniva fatta maggiore selezione, mi staccavo: e gli avversari, ben consapevoli della mia punta di velocità, se mi vedevano in difficoltà facevano di tutto per non farmi rientrare. Ottenevo tanti piazzamenti e vincevo un paio di gare all’anno, qualche volta delle kermesse. Un anno fui terzo nella graduatoria regionale del Piemonte, in quella che oggi sarebbe la categoria allievi. Ho corso per il Pedale Chierese, per il Castelnuovo Don Bosco e sopratutto per il Gruppo Sportivo Barbero. Loro divennero sponsor del Torino Calcio e furono vicini anche a entrare nel ciclismo professionistico. Erano di Canale d’Alba e producevano vini e liquori. Una squadra molto bella: sono stato due anni con loro. Con i fratelli Barbero ho ancora buonissimi rapporti. Tra l’altro, riguardo al periodo in cui correvo c’è un episodio simpatico da raccontare per cui ancora oggi mi prendono in giro tutti. Posso raccontarlo?

Prego.

Parliamo di una classica per allievi che si corre ancora oggi: L’Eco di Bergamo. Era il 1969. Io ero già a fine carriera, l’ultimo anno. C’era un debuttante importante, però: Francesco Moser. Lui iniziò a correre a diciott’anni. A Seriate, dopo quaranta chilometri di corsa, c’era un ricchissimo traguardo volante: lo vinsi io in volata. Quindi posso dire di aver battuto Moser: non fece la volata, ma era nel gruppo. Nel prosieguo della corsa incontrammo una galleria non illuminata prima del Colle Gallo: ci fu un’ammucchiata a causa di una caduta. Io passai su bici e corridori caduti ma forai. Forai sia la ruota anteriore sia quella posteriore, così mi fermai e decisi di ritirarmi. Ben contento. Di lì a poco sarebbero iniziate le salite e mi avrebbero staccato.

@Maurizio Curto, Twitter

Piccole, grandi soddisfazioni.

Hai detto bene: era una passione popolare. Io però già allora volevo fare il giornalista: il mio obiettivo era quello. Ricordo che anticipai anche il servizio militare da ufficiale per poter fare il giornalista il più presto possibile. Appena terminato il servizio militare, mi sono buttato nel mondo del giornalismo. Trovai un posto da collaboratore a “La Gazzetta dello Sport” per seguire il calcio. Avrà portato bene. Da tifoso del Torino ho vissuto momenti molto belli, seguendo giorno per giorno la squadra che vinse lo scudetto nel 1976. Una giornata di cui vado particolarmente fiero è una partita decisiva per i granata: Torino-Verona, conclusasi sullo 0 a 0. “La Gazzetta dello Sport” schierava in cronaca Gianni Brera e Beppe Conti.

Hai iniziato contemporaneamente a scrivere di calcio e di ciclismo?

Iniziai con il calcio, ma volevo scrivere anche di ciclismo. Anzi, dirò di più: il mio sogno era proprio quello di seguire un Giro d’Italia. Aiutavo Vincenzo Torriani, patron del Giro d’Italia, a organizzare i finali del Giro di Lombardia e del Giro del Piemonte e lui mi prometteva sempre: “Dai, l’anno prossimo ti portiamo al Giro. L’anno prossimo vieni al Giro”. Io non dormivo la notte perché volevo fare il Giro, però alla fine stavo sempre a casa. Quell’anno, era il 1976, rimasi a casa perché “La Gazzetta dello Sport” aveva assunto di nuovo Gianni Brera. Si scalava di un posto e il giovane doveva stare nuovamente a casa. C’ero rimasto davvero male. Così Gianpaolo Ormezzano, direttore di Tuttosport, mi disse: “Lascia stare la Gazzetta, lì sarai sempre chiuso tra i grandi, vecchi giornalisti. Vieni a Tuttosport: un giornale per giovani. In inverno segui il calcio e in estate puoi seguire tutto il ciclismo”. Ho accettato entusiasta l’offerta di Ormezzano e dal 1977 seguo il Giro d’Italia. Volevo fare un Giro e invece sono al mio quarantatreesimo: credo di poter dire di avercela fatta.

Quali sono le altre esperienze giornalistiche?

Dal 1978-1979 sono collaboratore stabile di Bicisport. Un’altra parentesi molto bella è stata quella dello sci. Seguii Alberto Tomba in ogni sua trasferta nel suo periodo d’oro: d’inverno, dunque, invece di seguire il calcio mi occupavo di sci. Sono stato in Giappone, in Canada, negli Stati Uniti. Dove andava Tomba, c’ero anche io. Gli sport principali che ho seguito sono stati sempre il calcio, il ciclismo e lo sci. Ma al primo posto c’è il ciclismo: ho corso in bicicletta ad alti livelli e penso mi sia servito moltissimo.

Gianni Brera, uno dei riferimenti giornalistici di Beppe Conti. ©Wikipedia

Poi è arrivata la televisione.

Tutti ricordano il mio ruolo attuale in Rai, ma in realtà la mia esperienza televisiva inizia assai prima. Cominciai a TeleCapodistria, un periodo molto bello quando quella televisione era di Silvio Berlusconi. Era il 1988, dopo i Giochi Olimpici Invernali di Calgary. Facevo telecronache lunghissime per quei tempi: due, tre ore. Poi Tele Capo d’Istria divenne Tele+: a quel punto non mi occupavo più di telecronaca ma di servizi giornalistici vari. Successivamente collaborai ancora quando il Giro d’Italia venne trasmesso dalle reti Fininvest da metà anni ’90. Partecipavo a Giro Sera su Italia1 con interviste e contributi vari. Da Tuttosport mi lasciavano collaborare con Mediaset. Ed eccoci quindi alla collaborazione con la Rai. Era il 2010. Con le nuove normative sui pre-pensionamenti, mi mandarono in pensione a Tuttosport. Ad un Giro del Piemonte incontrai Auro Bulbarelli: “Se vai in prepensionamento, vieni in Rai. Stiamo ampliando RaiSport e sarebbe bello avere la tua voce come storico, commentatore e opinionista”. La risposta fu più o meno questa: “Non vedo l’ora”. Sono stato contento di tornare a ricoprire questo ruolo perché lo avevo già sperimentato: seppur a titolo gratuito, avevo più volte aiutato Davide De Zan per Mediaset durante le corse all’estero. Lui mi chiamava e io lo aiutavo. Così, dal marzo del 2010, ho lasciato Tuttosport e ho iniziato la collaborazione con la Rai.

Com’è stato il passaggio in televisione? Sei riuscito ad adattarti velocemente ai tempi televisivi?

Mi sono trovato subito a mio agio. Credo sia una delle poche qualità che ho: sapermi adattare. Non mi sono mai ritenuto un grande scrittore o uno scrittore aulico: scrivevo in maniera normalissima. Però ho saputo adattarmi prima alla stampa scritta e poi ai tempi televisivi. Indubbiamente mi hanno aiutato le esperienze di cui parlavamo prima: forse mi sono servite, oppure, più semplicemente, i tempi televisivi sono nelle mie corde. Non è facile, però. Ci sono giornalisti che scrivono benissimo ma poi in televisione non rendono perché non hanno i tempi giusti. A me non succede.

Da giovane ti immaginavi più come un giornalista della carta stampata o come un giornalista televisivo?

All’inizio un giornalista da carta stampata. Mi piaceva scrivere. Pensa che Torriani, figura geniale e mitica, a cui davo una mano con la scelta del percorso del Giro del Piemonte, mi disse: “Ma perché vuol fare il giornalista? Venga a lavorare da me, che si guadagna molto di più”. Io avevo questo fuoco sacro: volevo fare il giornalista a tutti i costi ed il giornalista, specialmente all’epoca, era quello che scriveva sulla carta stampata. La televisione è arrivata dopo, diciamo negli anni ’90. In un primo momento non mi fidavo a fare questo salto dalla carta stampata alla televisione. Ricordo che all’inizio degli anni ’90, quando il Giro d’Italia passò a Mediaset, ci fu un momento in cui sembrava che potessi essere io la prima voce per la telecronaca del Giro d’Italia al posto di Davide Dezan. Avrei comunque continuato a lavorare a Tuttosport, ma cambiando i contratti: il primo contratto sarebbe stato con Mediaset, mentre con Tuttosport avrei firmato soltanto un contratto di collaborazione. Ricordo che Candido Cannavò, con il quale avevo un bellissimo rapporto, disse proprio in quell’occasione: “No, la prima firma di Tuttosport non può commentare il Giro d’Italia”.

Beppe Conti negli studi di RaiSport insieme a Damiano Cunego, Andrea De Luca e Francesco Pelosi, il general manager della NIPPO-Vini Fantini-Faizanè.

Parliamo di modelli, Beppe: quali sono i grandi nomi del giornalismo a cui ti sei ispirato?

Dipende dai settori. Se parliamo di calcio, non ho alcuna difficoltà a dirti Gianni Brera. Per il ciclismo, invece, Bruno Raschi. Con Raschi condividevamo le origini, entrambi originari dell’Appennino parmense. Lui era veramente eccezionale: lo chiamavano “il divino”. Era il primo pezzo che si leggeva al mattino, così come quelli di Indro Montanelli. Quando eravamo al Giro d’Italia e al mattino si prendevano i giornali, la prima cosa era godersi il pezzo di Bruno Raschi. Era un poeta. Era aulico. Era unico. Sapevo bene che non avevo nulla a che vedere con lui per stile di scrittura, ma mi godevo la lettura dei suoi pezzi. Semplicemente magnifici.

Quanto è cambiato il ciclismo dai tuoi inizi ad oggi?

Ho seguito dal vivo quarantatré Giri d’Italia e trenta Tour de France. Dal 2010, il Tour de France ho iniziato a seguirlo e commentarlo dagli studi Rai di Milano. Sono passati tanti anni e ci sono stati tanti cambiamenti. È fisiologico, comunque. Il rapporto giornalista-campione, ad esempio, è diverso: e questo in tutti gli sport. Anzi, se pensiamo al calcio dobbiamo trarre la conclusione che il ciclismo è comunque lo sport che più di ogni altro è rimasto accessibile. Col campione di ciclismo si riesce ancora ad avere un rapporto abbastanza stretto. Col calciatore no. Io ho avuto la fortuna e il privilegio di seguire il Torino e la Juventus a metà degli anni ’70. In quel periodo, se per esempio voler buttar giù un’inchiesta sul perché il Torino non segnasse più di testa, non dovevo fare altro che andare allo stadio e fermare Pulici e Graziani fuori dal Filadelfia e chiedere. Lo stesso potevo fare con i difensori. Le inchieste si facevano così. Oggi è la società a scegliere: ti mettono a disposizione un calciatore e devi parlare con quello, anche se magari non è quello che ti interessa. Quindi il calcio è cambiato ancora di più. Anche il ciclismo, però, è cambiato con la presentazione degli uffici stampa. Inoltre, il ciclismo ha quasi completato il processo di globalizzazione. Io ho vissuto l’epoca di Moser e Saronni, mi sono divertito moltissimo e ho contributo a far vendere Tuttosport in Trentino. Allora non c’erano tutte le nazioni di oggi: quando arrivò Greg LeMond, americano, sembrava un marziano. Adesso anche per gli italiani è più difficile: si ritrovano i colombiani, che arrivano dai tremila metri ed in salita vanno alla grande; e poi il sudafricano bianco, l’australiano, il neozelandese, gli inglesi. È diventato un ciclismo molto più complesso: all’epoca di Gimondi le nazioni principali nel ciclismo erano quattro.

Nel tuo lavoro hai portato la componente storica del ciclismo. È una tua passione da sempre o qualcosa che si è sviluppato col tempo, traendo anche giovamento dalla tua grande esperienza?

È una passione che ho sempre avuto. Probabilmente, però, agli inizi non riuscivo ad evidenziarla. La storia del ciclismo mi ha sempre appassionato. Nel 1980, per esempio, ho avuto il privilegio di intervistare Alfredo Binda. In quegli stessi anni ho avuto modo di parlare spesso con Gino Bartali e con Fiorenzo Magni. Ho instaurato un bel rapporto con Alfredo Martini. Personalmente ho raccolto delle testimonianze di prima mano dai gregari di Coppi che per me sono un patrimonio inestimabile. A volte mi sembra quasi di essere un predestinato. Ci sono degli episodi che hanno dell’incredibile. Io mi ricordo esattamente dove mi trovavo quando il 2 gennaio 1960 è morto Fausto Coppi. Ero in un bar di Torino a far colazione con i miei genitori: avevo otto anni e mezzo. Quell’estate, prima di compiere i nove anni, un vicino di casa mi diede la notizia che Roger Rivière era caduto in un burrone e che Gastone Nencini stava vincendo il Tour de France. Era il 10 luglio 1960. Non avevo ancora nove anni e me lo ricordo. Forse ero davvero un predestinato. Mi è sempre interessata la storia di questi grandi personaggi e ripeterò fino alla noia quello che disse un giorno Mario Soldati in televisione: spiegò che Fausto Coppi e Gino Bartali sono stati personaggi così grandi che sarebbe stato giusto farli studiare a scuola dai ragazzi.

Giuseppe Saronni ha ricordato più volte, e senza portare rancore, che Beppe Conti preferiva Moser a lui. ©Verhoeff, Bert/Anefo, Wikipedia

Parlando di Coppi e Bartali, arriviamo ad uno dei tuoi ultimi libri: Fausto Coppi, il primo dei più grandi. Perché Coppi è il primo dei più grandi, Beppe?

In quel libro ho fatto una classifica dei primi dieci di tutti tempi fra gli atleti che non corrono più. Personalmente ho ritenuto di mettere Fausto Coppi prima di Eddy Merckx, per la grandezza del personaggio e per il modo in cui vinceva. Coppi portò a termine dieci fughe vincenti superiori ai cento chilometri: Claudio Gregori lo sottolinea e lo ribadisce in questo libro. Coppi è un personaggio che esce dai confini dello sport: ha contribuito a risollevare l’Italia dopo le nefandezze, i tradimenti e le tragedie della seconda guerra mondiale. È anche grazie a lui se abbiamo acquisito un rinnovato prestigio anche all’estero. Un atleta di una completezza impressionante: vinceva i match di inseguimento in pista sui cinque chilometri contro gli specialisti e poi trionfava sull’Alpe d’Huez contro gli scalatori. Proprio la guerra gli portó via gli anni più belli. Forse questo discorso vale più per Gino Bartali che per lui, ma comunque vale anche per lui. Tutto questo, unito alle tragedie che ha vissuto, fanno di Coppi, a mio avviso, il primo dei più grandi.

Se facessimo un discorso simile con gli atleti in attività oggi, che nome ci faresti?

Nibali. Sicuramente Vincenzo Nibali. Il problema è che non è un personaggio mediatico. Glielo dico sempre. Un campione così dovrebbe essere il leader di tutto lo sport italiano di oggi. Invece è troppo modesto, timido, riservato, quasi al limite dell’introverso. In realtà non lo è, ma l’impressione che arriva è quella. Dove lo troviamo un corridore così? Lui ha vinto due volte il Giro d’Italia, una volta il Tour de France, la Vuelta a España, la Milano-Sanremo e due volte il Giro di Lombardia. L’ultimo corridore ad aver vinto Milano-Sanremo, Giro di Lombardia e grandi giri è Eddy Merckx. L’ultimo ad aver vinto Tour de France e Milano-Sanremo, due corse così diverse, è Laurent Fignon. Nibali ha un palmarès unico. Purtroppo non è molto amato, anche tanti italiani non lo apprezzano fino in fondo. Molti rammentano, ad esempio, che lui ha vinto il Tour de France perché Contador e Froome sono caduti. Anche Merckx, però, vinse la Grande Boucle perché Ocaña cadde sui Pirenei, altrimenti avrebbe interrotto la serie. Questo, però, nessuno lo ricorda. È sempre successo così: anche Nencini vinse il Tour de France perché Roger Rivière cadde in un burrone. Però, nel caso di Nibali, tutti ricordano la caduta di Froome. Dovrebbe avere più entusiasmo attorno: forse è bravo lui a crearlo, oppure l’entourage che lo segue non sa valorizzarlo.

Arriviamo ad oggi. Proviamo a fare una panoramica delle classiche appena trascorse, Beppe?

Le classiche sono state altamente spettacolari, non c’è stato un momento di noia. Protagonisti diversi e variegati anche per la globalizzazione di cui parlavo. Purtroppo, questo è un ciclismo in cui ogni atleta prepara un certo obiettivo e punta a quello. È più difficile dare continuità. Io, però, mi auguro che questa continuità venga riscoperta. Sia per Davide Formolo, secondo alla Liegi-Bastogne-Liegi a ventisei anni dietro a Fuglsang, sia per Alberto Bettiol, che spero di rivedere sui livelli del Giro delle Fiandre. Ci sono corridori che, col tempo, si sono confermati: Trentin è campione d’Europa, Viviani è un grande velocista, e mi auguro che anche Fabio Aru si riprenda dopo questo intervento. Un corridore non va forte per tre anni consecutivi per caso. Il talento c’è. Sono ottimista. Philippe Gilbert ha fatto qualcosa che entrerà nella storia: se riuscirà a vincere la Sanremo, sarà uno dei corridori ad aver vinto le cinque classiche monumento insieme a Merckx, De Vlaeminck e Van Looy. È un grande personaggio e un grande campione. Poi, c’è Julian Alaphilippe: in parte ricorda Paolo Bettini, fuoriclasse delle corse di un giorno. Belli questi corridori che sanno vincere su traguardi diversi. Vale altrettanto per coloro che riescono a vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno: nel libro di cui parlavamo, metto Pantani al decimo posto anche se ha vinto la metà di tanti altri, perché è l’unico dopo Coppi, fra gli italiani, ad aver vinto Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno.

Un corridore che assomiglia tantissimo ai campioni del passato? Semplice: Philippe Gilbert. @Philippe Gilbert, Twitter

Quest’anno, per esempio, Vincenzo Nibali sarà al via sia del Giro d’Italia che del Tour de France. Cosa pensi di questa scelta?

Credo gli faccia veramente onore. In questo ciclismo “mordi e fuggi” è un bel passo avanti. A me non piacciono nemmeno gli scalatori che puntano ad un solo grande giro. Chris Froome l’ho apprezzato per la prima volta lo scorso anno, per l’impresa che ha fatto al Giro d’Italia e perché ha tentato di vincere anche la Grande Boucle. Lance Armstrong, tanto per dire, a me non è mai piaciuto: e la vicenda doping non c’entra nulla. Non mi piaceva perché tutti gli anni snobbava il Giro d’Italia puntando dritto al Tour de France. Un campione come lui doveva tentare l’accoppiata Giro-Tour. La penso così: posso accettare che un campione rinunci a qualche classica, ma che si tiri costantamente indietro dal tentare l’accoppiata nella stessa estate non mi va giù. Froome, a mio avviso, ha guadagnato una popolarità e un apprezzamento nuovi per quanto fatto lo scorso anno. Questo deve fare un campione.

Ci dai una tua personale valutazione del Giro d’Italia che partirà tra pochi giorni?

Il Giro d’Italia è tornato, da due o tre anni a questa parte, la seconda grande corsa a tappe per importanza poco dopo il Tour de France. Sarà una corsa molto spettacolare e molto incerta come da tempo non si vedeva più. Gli organizzatori hanno azzardato le tre cronometro, anche se brevi, per cercare, giustamente, di avere alla partenza Geraint Thomas. Thomas non ci sarà ma in compenso il livello è altissimo. A mio avviso è un Giro d’Italia disegnato molto bene. Vogliamo fare una critica?

Certo.

Credo sarà più appassionante e avvincente il penultimo fine settimana rispetto all’ultimo. Il rischio, secondo me, è che le tappe più belle siano quelle di Ceresole Reale e di Courmayeur: tappe che si correranno il venerdì e il sabato della seconda settimana seguite al martedì dalla tappa regina, la tappa a mio avviso più bella, con Gavia e Mortirolo. Ecco, per me questa tappa sarebbe stata ideale per essere disputata il sabato prima della cronometro conclusiva a Verona. È davvero l’unica critica che posso fare a questo Giro d’Italia.. La cronometro di San Marino potrebbe già essere abbastanza lunga per allungare la classifica generale; quella di Verona sarà invece più breve. In generale, però, le cronometro saranno fondamentali.

Quali sono i favoriti di Beppe Conti?

Tom Dumoulin è sicuramente uno dei favoriti, anche se fino ad ora non si è visto. Anche alla Liegi-Bastogne-Liegi è andato piano. Se mi avessi fatto questa domanda prima della rottura della clavicola che gli impedirà di essere presente, ti avrei detto Egan Bernal, un atleta che tiene bene anche contro il tempo. Simon Yates è un altro dei favoriti, mentre Vincenzo Nibali credo lotterà per il podio, non per la vittoria finale. Bisogna aspettare le prime tappe per farsi un’idea. La cronoscalata al San Luca sarà un bel test per tutti: a quel punto capiremo qualcosa di più.

Se non fosse rimasto vittima dell’incidente che gli ha precluso la possibilità di partecipare al Giro d’Italia, Egan Bernal sarebbe stato il favorito principale di Beppe Conti. ©s.yuki, Wikimedia Commons

Facciamo un confronto classico: da una parte il percorso del Giro d’Italia e dall’altra quello del Tour de France.

Il Tour de France è comunque più duro del Giro d’Italia: le alte temperature di luglio e la tensione che si avverte in gruppo influenzano tantissimo l’andamento della corsa. Intanto si può dire che sono scomparse o quasi le cronometro. La scelta non è casuale: i francesi non vincono il Tour de France dal 1985. Pensate se un italiano non vincesse il Giro d’Italia dal 1985: io dico sempre, come battuta, che probabilmente non si correrebbe più. Mentre, al contrario, ai tempi di Indurain esageravano: io temevo addirittura che ci fosse una liaison tra Jean-Marie Leblanc e Echavarri, entrambi gregari di Anquetil da corridori. Poveri Bugno e Chiappucci, all’epoca. Adesso hanno esagerato nel senso opposto: c’è solo una cronometro individuale di ventisette chilometri, proprio per non danneggiare eccessivamente atleti come Pinot, Barder e Barguil. Nonostante tutto, il Tour de France è sempre spettacolare. Le salite francese sono diverse, ma comunque appassionanti.

E allora perché il Tour de France è, da sempre, la corsa più importante al mondo?

La spiegazione va ritrovata nell’edizione del 1930. Quell’anno, al Tour de France si sfidarono le rappresentative nazionali. Fu un vero colpo di genio. Oggi, purtroppo, non è più fattibile perché gli sponsor sono troppo importanti, ma il salto di qualità della corsa francese viene proprio da lì. Immaginiamo il periodo in cui c’erano Coppi e Bartali in maglia tricolore e Binda in ammiraglia. I francesi sono i più bravi del mondo a vendere i loro prodotti, penso anche ai formaggi e ai vini. Il Tour de France è anche l’evento ciclistico più seguito del pianeta. Non c’è niente da fare: è la corsa principale. Vincere il Tour de France cambia la vita; lo stesso non si può dire del Giro d’Italia.

La notizia più importante degli utlimi giorni è il passaggio di consegne tra Team Sky e Team Ineos. Nuova sponsorizzazione ma patrimonio incrementato, se possibile.

Brailsford è stato molto bravo: ha mantenuto una squadra davvero forte. Magari avessimo una squadra simile in Italia. Purtroppo manca un team manager che sappia trovare degli sponsor importanti, gli industriali di primo piano, per intenderci. In questo senso, le cose più belle le ha fatte Davide Cassani col Giro d’Italia Under 23. In Italia il ciclismo paga ancora gli anni bui del doping: tante aziende non si fidano, temono di associare il loro marchio a fatti di doping.

Beppe Conti insieme a Franco Balmamion: il passato che si racconta. ©Centro Congressi Unione Industriale Torino

Le gare femminili sono state poste in corrispondenza di quelle maschili per avere maggiore visibilità, ma non sempre accade. Recentemente, infatti, Elisa Longo Borghini ha lamentato l’assenza di copertura televisiva per alcune delle prove femmili. Come analizzi questo fatto?

Secondo me è bello che le gare maschili e femminili si corrano assieme. C’è maggior attenzione, senza dubbio. Io ho vissuto un Tour de France a metà degli anni ’80 con Maria Canins e Jeannie Longo che duellavano per vincere la Grande Boucle che si correva prima di quello maschile. Fu molto bello. È stato in quell’occasione che il movimento femminile ha fatto il salto di qualità. È giusto che corrano prima degli uomini. Tornando alla domanda, è chiaro che ci vuole l’intervento e il sostegno dell’Unione Ciclistica Internazionale ogniqualvolta il ciclismo femminile si trova in difficoltà o viene denigrato. È un ciclismo appassionante, piacevole da vedere, che ai mondiali ha salvato tante volte il bilancio italiano.

Chiudiamo tra il serio e il faceto con un omaggio alla tua “voce flautata”. Tutti gli appassionati si chiedono cosa significhi.

Lo spiego subito. Preparavo dei servizi scritti per Radiocorsa: sceglievo le musiche, mi scrivevo una quindicina di righe e poi le raccontavo con un pizzico di enfasi. Quest’anno non lo posso più fare per una questione sindacale: essendo un esterno Rai, non posso fare i cosiddetti “pezzi chiusi”, ma devo improvvisare guardando le immagini. Quindi non c’è più questa “voce flautata”. La voce flautata era data dalla lettura dei pezzi con il sottofondo musicale. Auro Bulbarelli per primo sosteneva che somigliassi a Bisiach e, per scherzare, mi chiamava Bisiach, un grande giornalista che faceva questo tipo di pezzi. Come dicevo, non potrò più farli per questioni sindacali, ma a me sta benissimo anche improvvisare così, commentando le immagini che scelgo prima. Da questo è nata la voce flautata: dall’idea di proporre degli Amarcord sull’onda del ricordo, raccontando con qualche aggettivo in più.

 

Foto in evidenza: ©www.comeedove.it

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/