Un certo modo di raccontare il ciclismo femminile

Parlando di ciclismo femminile, il metodo e la sostanza sono imprescindibili.

 

Se in un certo giornalismo si dichiarassero nettamente i fini di ciò che si va a fare, sarebbe meno penoso. La penseremmo in maniera diversa, non risparmieremmo critiche, ma almeno riconosceremmo l’onestà intellettuale. Invece, il più delle volte, vige questa cosmesi delle proprie azioni. Come se il problema fosse impacchettare meglio il prodotto e non la qualità del prodotto stesso. Come se la soluzione fosse raccontarsi una bella storia su ciò che si fa. Ma il rispetto della persona di cui si parla nell’articolo? E quello del lettore? Non importa, finché le copie vendute, i telespettatori e i click aumentano.

Si discute, giustamente, della poca visibilità e della necessità di parlare del ciclismo femminile. Sgombriamo il campo dall’equivoco: se parlare di ciclismo femminile è doveroso, è altrettanto essenziale capire che non basta parlarne. Il modo non è solo importante, ma fondamentale. Non dicono forse di parlare di ciclismo femminile tutti coloro che riportano le notizie di atlete in vacanza, in spiaggia o prossime al fidanzamento? Non dicono forse di parlare di ciclismo femminile tutti coloro che, identificando la femminilità esclusivamente nell’aspetto estetico, costruiscono copertine di giornali, servizi televisivi e articoli su siti web dedicando un’attenzione maniacale, invece che al contenuto, spesso risibile, ad una foto dell’atleta particolarmente ammiccante?

©anMarton, Flickr

Cosa significa parlare di ciclismo femminile? Non significa di certo buttare in prima pagina qualunque pettegolezzo riguardo una ragazza, preferibilmente famosa, abbinato a foto in costume in spiaggia. Almeno non se la testata per cui si lavora tratta di ciclismo o comunque di sport. Se lo si fa in questa sede, primo si ha un’idea abbastanza confusa di cosa siano lo sport e il racconto sportivo, secondo si ha un’idea molto approssimativa della femminilità e del rispetto delle donne che intraprendono una carriera.

Il primo punto si liquida abbastanza sbrigativamente. Non perché sia meno importante, ma perché è sin troppo ovvio: dove mancano i contenuti, non si può fare altro se non questo. Dove mancano i contenuti, la voglia di approfondire e di raccontare una storia, la consapevolezza che un lavoro di critica e analisi è il primo sintomo di rispetto verso ciò che si racconta e verso le ragazze, oltre che verso i lettori, si ricorre al giornalismo da copia-incolla con foto appariscente. Se poi la domanda è: ma chi fa questo lavoro non dovrebbe naturalmente possedere queste caratteristiche? La risposta è che se tutte le doverose aspettative corrispondessero alla realtà, forse il giornalismo italiano non avrebbe i problemi che ha. E tuttavia c’è uno spazio anche per raccontare questo: le riviste scandalistiche. Ecco, indirizzare lì certi racconti sarebbe un’onorevole presa di coscienza.

Il secondo punto è più complesso e si presta a malintesi, per questo occorre essere chiari. Chi non vuole parlare di bellezza femminile e di estetica è un becero maschilista. Chi non vuole riconoscere a una donna queste caratteristiche, non gode della nostra stima. D’altra parte, però, chi crede che per parlare del mondo femminile basti parlare di bellezza e di estetica (magari condite con qualche pettegolezzo) non è meno maschilista. Come se gli uomini andassero raccontati per le gesta sportive, mentre le donne dovessero accontentarsi di un racconto da rotocalco. L’estetica e la bellezza sono una parte affascinante del mondo femminile, ma non sono tutto. È un fatto grave lasciare spazio anche solo alla minima possibilità di fraintendimento per aumentare le copie vendute o le letture. Lasciare questo spazio vuol dire convincere le ragazze più giovani, influenzabili in quanto giovani, che per essere raccontate debbano mettersi in mostra in un certo modo. Siamo convinti che la loro intelligenza le salverà dal malinteso creato da persone ben più avanti con l’età e mosse da una discreta dose di furbizia.

©anMarton, Flickr

La nostra giovane età non ci consente di andare troppo indietro nel tempo; l’esperienza di questi anni, però, ci consente di apportare il nostro vissuto: abbiamo intervistato molte ragazze, abbiamo provato a raccontare le loro storie. Abbiamo sempre chiesto a loro per cosa volessero essere ricordate, quale caratteristica considerassero importante, cosa volessero che risaltasse. Ci hanno parlato di ciclismo, di passioni, di famiglia, di storia, anche di musica e di letteratura a dire il vero; non ci hanno mai parlato di bellezza, trucco o fidanzamenti in divenire. Forse proprio perché, in quanto donne, si sentono sminuite dall’idea di essere sulle prime pagine solo perché belle, solo perché al centro della storia dell’estate.

Perché sono cicliste e vorrebbero che si iniziasse a parlare delle loro imprese in sella. Vorrebbero che si raccontasse ciò che hanno dentro, il loro carattere, il voler essere donne. Ed essere donna vuol dire avere forza, coraggio, rabbia, capacità di resistere; ma anche sensibilità, voglia di piangere senza che nessuno ti pensi debole, voglia di avere una famiglia, di diventare mamma o di non diventarlo, consapevole che non per questo si è meno donna. Essere donna vuol dire, anche, dare un calcio a quell’ammasso di credenze e pregiudizi che una certa cultura maschilista spaccia per veri, mescolando ipocrisia e falso perbenismo, solo per non perdere il proprio posto di comando. E tutto questo, badate bene, per il bene delle donne, del ciclismo e anche del giornalismo.

 

Foto in evidenza: ©Annemiek van Vleuten, Twitter

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/