Amstel Gold Race, una fanciulla tra le classiche

Con l’Amstel Gold Race arriva il passaggio definitivo dalle pietre alle Ardenne.

 

Finiti gli incubi di porfido che hanno massacrato gambe e cuore lungo le Fiandre e la Piccardia, scordati muri e rettifili assaltati, manubrio tra i denti, da passistoni a mulinare rapporti infiniti, ecco i dentelli vallonati, ecco infine le côtes e le Ardenne. Le case olandesi si fanno bianche fuori dalla bruma belga, i ciclisti sono traghettati al brandello di terra che ha nome Limburgo. Fiumiciattoli e ristagni, strade impazzite come piccole anse di un fiume, l’Amstel appunto, che attraversa un’Amsterdam colma di grazia e dove in quelle acque un tempo si lasciava freddare la birra che adesso porta lo stesso nome.

Ricapitoliamo: fiume-birra-corsa. Una sorta di immagine liquida culla i corridori, li affina, li modella fisicamente, fattisi da parte tutti (o quasi) i mastodonti da ciottoli, alleggeritisi e trasformati adesso negli scattisti dalle rasoiate micidiali. I colli, ancora berg come insegna la dura lingua neerlandese (e la sua variante fiamminga) dipingono il volto dell’Amstel Gold Race; qui i berg spogli dei ciottoli tracciano una corsa nevrotica in un giorno di ubriacatura generale, simbolica e non: si apre così il “trittico delle Ardenne”.

Passaggio del gruppo sul Cauberg nell’edizione 2015. (Foto https://www.flickr.com/photos/ed_webster/)

Altre terre dicevamo, altri corridori, stessa bellezza. Se l’Olanda si contende da sempre col Belgio il primato mondiale dell’amore per le due ruote, era impossibile non reclamasse una propria Classica. L’Amstel Gold Race nasce nel ’66 da un’idea di Herman Krott e Toni Vissers, amici e amanti del pedale che nelle loro uscite in bici ebbero quell’idea e così si misero a studiare con passione e in modo maniacale terre e percorsi per dare alla terra dei tulipani una sua epopea.

Il 30 aprile 1966 fu fissato il battesimo dell’Amstel, ma la gestazione fu assai problematica. Dapprima alcuni seri problemi di permessi a causa di quella morfologia tortuosa del territorio che, scavalcando ponti e fiumiciattoli, costringeva a un percorso ben più lungo dei 250 chilometri previsti inizialmente; poi alcuni allarmi sociali. Sì, perché in quella data – Festa Nazionale nei Paesi Bassi – vi erano non pochi timori di proteste ad Amsterdam. I provos allora piantavano in Olanda i primi semi di una contestazione giovanile che di lì a poco avrebbe infiammato tutto il continente. Appena un mese prima, il movimento delle “biciclette bianche” si era reso protagonista di azioni dimostrative contro la famiglia reale.
Cambiare in fretta percorso e data per salvare la corsa. Che infine si fa.

Trionfa Jean Stablinski, poliedrico gioiello polacco naturalizzato francese, trionfa di fronte a centinaia di migliaia di persone a cui lo sport girovago e vagabondo per eccellenza ha regalato un prezioso balocco con cui divertirsi. Grigliate in ogni dove divengono negli anni la regola, brace e litri di birra (un consumo pro-capite calcolato in tempi recenti in un qualcosa che si avvicina ai tre litri per il giorno della corsa).
Uscendo dal folklore e soffermandosi sui campioni, l’albo d’oro è da brividi e regge senza problemi il confronto con le altre Classiche, sorelle ormai ultracentenarie. Eddy Merckx (poteva mancare?) col suo affondo ai meno ottanta chilometri sul Fromberg, quando massacrò letteralmente gli avversari in un giorno da tregenda. E poi Hinault, Zoetemelk, Freddy Maertens, Museeuw.

Il 1974 invece vede la gloria arridere a Gerrie Knetemann, anch’egli successivo Campione del Mondo in questo canape di perle appena steso. Al tempo è un ragazzino, ma di fronte ai compatrioti dà fiato alla leggenda andando a trionfare dopo una fuga clamorosa. La premiazione, poi la baldoria senza fine. Gerrie viene ripescato nel cuore della notte al birrificio dell’Amstel con altre decine di persone. A terra centocinquanta bottiglie della solita birra. “Per ogni chilometro di fuga ce n’è una”, esulta il capo-sponsor con malcerta sobrietà.

L’Amstel Gold Race 2018 si conclude con il successo di Valgren su Kreuziger e Gasparotto. (Foto Twitter, Amstel Gold Race)

Eroi e popolo, festa vera fino ai nostri giorni, tempi non certo avari di ulteriori campioni per “la fanciulla del Limburgo“. Proseguendo con i recenti iridati troviamo Kwiatkowski e Gilbert, il vallone fresco di leggenda alla Roubaix che ha avuto in dono dalle divinità paniche del ciclismo la capacità di volare e divorare ciottoli e colline al tempo. Una manna vera e propria al tempo delle noiose specializzazioni odierne.
Proprio sul Cauberg, collina mitica che da oltre un ventennio è il perno della corsa, Gilbert ha costruito i suoi quattro successi nel tentativo di eguagliare la storica cinquina di un fenomeno come Jan Raas (145 vittorie in carriera), che a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta scrisse pagine incredibili proprio sulle strade di casa. “L’Amstel ti massacra la testa più che le gambe – ebbe a dire – sono necessari dodici occhi e sangue freddo, è una partita a scacchi più che una corsa in bicicletta“.

È per questo che la ragazzina delle Classiche è così bella; perché non vi è respiro e i corridori dardeggiano sul verde affiorato ai bordi di rigagnoli silenziosi, di fianco a pittoreschi mulini a vento, per mangia e bevi senza fiato, discese labirintiche e strappi saettanti. Vi si posano un attimo acclamati da una folla incontenibile e sfilano via ronzando, come tante api sui tulipani olandesi.
Il plotone è giunto sulle Ardenne e la primavera olandese aspetta, piena di grazia, sinuosa e sfuggente come le colline dell’Amstel Gold Race, come un’adolescente appena affacciatasi alla vita. Perché cosa sono poi cinquant’anni per un sport che si preannuncia immortale?

Foto in evidenza: Jan Raas, http://www.gahetna.nl/collectie/afbeeldingen/fotocollectie/zoeken/weergave/detail/q/id/acaf6054-d0b4-102d-bcf8-003048976d84