C’era un americano sul Geraardsbergen

George Hincapie è stato solido gregario, sfortunato capitano e amante delle pietre.

 

Il doping di squadra messo in piedi da Armstrong, Bruyneel e il resto della combriccola travolse e sconvolse per sempre il mondo del ciclismo. Non tutti, però, caddero dal pero: alcuni scesero volontariamente in anticipo, un po’ grazie al disincanto e un po’ perché a pensare male si fa peccato, ma spesso e volentieri si azzecca. Da un punto di vista tecnico il coinvolgimento di George Hincapie non stupì nessuno: era il miglior uomo di Armstrong e il texano sceglieva soltanto persone fidate, disposte a tutto pur di supportare la sua causa. Se non Hincapie, chi? Il dispiacere si manifestò quando molti colleghi si concentrarono sulla sostanza umana del newyorkese.

Frankie Andreu, ex compagno di squadra e quindi complice di Armstrong diventato poi uno dei suoi più acerrimi nemici, descrive Hincapie come una persona più unica che rara. Alla mano, insomma: un leader silenzioso, uno di quelli che all’urlo preferisce la pacca sulla spalla, alle parole i fatti. “La maggior parte dei corridori che hanno pedalato con lui vi direbbe che il ragazzo più buono del gruppo è George Hincapie”. È dello stesso avviso Taylor Phinney, che se lo scelse come mentore quando arrivò alla BMC, squadra della quale Hincapie era uno dei senatori. “I professionisti dei racconti che sentivo erano personaggi gelosi, egocentrici, invidiosi. Invece George mi ha aiutato tantissimo: dispensava consigli senza che glielo chiedessi, come se tra noi non ci fossero quasi vent’anni di differenza”.

Al netto del sistema orchestrato da Armstrong, Hincapie è stato un gran corridore. Se non vi fosse rimasto invischiato (anche per colpa sua, ci mancherebbe), orde di giornalisti e appassionati si accapiglierebbero affermando che gregari del genere passano una volta ogni tanto, che di atleti così non ne fanno più. Intagliato nella quercia e imbevuto d’acciaio, Hincapie era buono per tutte le stagioni. Dal 1996 al 2012 ha preso parte a ogni edizione del Tour de France. Ne ha concluse sedici su diciassette, la sola che non ha portato a termine è stata la prima, aveva ventitré anni da un mese. Se si sommano i sette successi di Armstrong, quello di Contador nel 2007 e quello di Evans nel 2011, fanno nove Tour de France vinti sui diciassette disponibili. Ha vestito la maglia gialla per un giorno soltanto nel 2006, nel 2005 invece conquistò la quindicesima tappa, la più dura di quell’anno. All’arrivo di Saint-Lary-Soulan precedette Pereiro, Caucchioli, Boogerd, Brochard, Basso, Armstrong, Sevilla, Ullrich, Rasmussen, Mancebo e Vinokurov. Il suo capitano, raggiante, lo definì “my biggest guy”: il mio ragazzo, quello più forte, quello a cui tengo di più.

©Eric Houdas, Wikipedia

E poi ci sarebbero le classiche, l’unico periodo dell’anno durante il quale Hincapie metteva in pratica tutto quello che di buono gli ha insegnato Armstrong: attaccare, conservare, gestire la squadra. Quattordici Milano-Sanremo e sedici Parigi-Roubaix tratteggiano il profilo d’un corridore coriaceo e duttile, resistente e costante. Un ritiro alla Sanremo, nel 2000, e uno alla Roubaix, nel 2006, quando il manubrio della sua bici si sfilò a causa delle sollecitazioni del pavé: la caduta di Hincapie fu talmente goffa e dolorosa che tutti i membri del gruppo dei migliori si voltarono per capire a cosa fosse dovuto quel tonfo.

Hincapie era uno di quei corridori che trovava spesso la porta aperta senza riuscire mai a varcarla per primo o indenne. Sette volte tra i primi dieci della Parigi-Roubaix, secondo nel 2005, battuto in volata dal solo Boonen che una settimana prima aveva vinto il Giro delle Fiandre e che nel prosieguo della stagione avrebbe conquistato due tappe al Tour de France e il campionato del mondo. Poi ci sarebbero le cinque Olimpiadi consecutive, da quelle di Barcellona del 1992 a quelle di Pechino del 2008: a Sydney fu ottavo, portatore d’un destino ingiusto e infausto.

La prima classica monumento iniziata e conclusa da Hincapie è stata il Giro delle Fiandre del 1994. Era passato al professionismo da qualche mese appena e terminò cinquantaquattresimo, troppo distante per godersi gli attimi di tensione tra Bugno e Museeuw in attesa di capire chi avesse vinto. Il Giro delle Fiandre è la corsa preferita di Hincapie: vi ha preso parte diciassette volte senza aver mai contemplato la possibilità dell’abbandono. Soltanto nel 2003 e nel 2007 non figurava fra i partecipanti. Ha iniziato nel giorno di Bugno, è salito sul podio dietro a Boonen e Hoste nel 2006 e ha salutato nel 2012, quando davanti vinceva ancora Boonen e i primi due sconfitti si chiamavano Pozzato e Ballan. Boonen non era mai sembrato così battibile ma vinse lo stesso. Il lavoro di Hincapie non fu vano nemmeno quel giorno: Ballan chiuse terzo, Van Avermaet quarto regolando il gruppo degli inseguitori.

Quando gli è stato chiesto a cosa fosse dovuto questo rapporto col Giro delle Fiandre, Hincapie non ha mai dato spiegazioni particolarmente interessanti. Si è limitato a dire quello che dicono tutti: il calore del pubblico, la varietà del percorso, l’importanza che i belgi attribuiscono a questo giorno di festa. Rivelò sinceramente che avrebbe forse preferito vincere la Roubaix per una questione d’immagine: almeno negli USA non avrebbe dovuto spiegare quale corsa avesse vinto.

E la bellezza del Fiandre, per Hincapie, sta proprio nel fatto che in altre parti del mondo sarebbe probabilmente replicabile, ma non in America. “Ed è strano che sia io, una volta bambino newyorkese, a legare indissolubilmente il mio nome a questa corsa”. Lo hanno fatto in tanti ma soltanto uno è riuscito a riscrivere il record di Briek Schotte: alle sedici edizioni portate a termine dal belga si sono sovrapposte le diciassette di George Hincapie, per tutti ormai un Flandrien. Nel ciclismo le cittadinanze vanno meritate a suon di pedalate e gocce di sudore: non c’è niente di onorario o dovuto.

 

Foto in evidenza: ©Thomas Ducroquet, Wikipedia

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.