Un gesto bellissimo da parte di un corridore unico, diverso, indimenticabile.

 

 

Più che un leader, la Vuelta a España 1995 ha un dominatore. Laurent Jalabert ha vinto tre delle prime nove tappe – otto in linea più il prologo iniziale -, indossa la maglia gialla conquistata nella terza frazione grazie al successo sull’Alto del Naranco e sta vivendo la stagione migliore di una carriera che durerà tredici anni, dal 1989 al 2002.

È stato l’autentico mattatore della primavera: da marzo a giugno ha conquistato due tappe e la classifica generale del Critérium International, la Klasika Primavera, il Trofeo Llucmajor, una frazione alla Volta a la Comunitat Valenciana, una alla Parigi-Nizza con annessa classifica generale, Milano-Sanremo, Freccia Vallone e infine due tappe e la classifica finale della Volta Ciclista a Catalunya; alla Liegi-Bastogne-Liegi ha chiuso quarto e dopo aver dichiarato di partecipare al Tour de France soltanto per ritrovare la forma in vista della Vuelta, ha centrato anche una vittoria nella tappa di Mende e la maglia verde della classifica a punti. Fanno quattordici vittorie tra marzo e luglio e una condizione che nella prima parte della grande corsa a tappe spagnola appare inavvicinabile.

Appena un anno prima, l’ascesa di Jalabert aveva subito una bruttissima battuta d’arresto. Dopo una primavera ricca – una vittoria ai Paesi Baschi e addirittura sette alla Vuelta a España, organizzata tra aprile e maggio per l’ultima volta nella sua storia -, fu costretto a salutare il Tour de France al termine della prima tappa in linea, la seconda tenendo conto del prologo monopolizzato dal solito Chris Boardman. Fu il famoso incidente di Armentières: alcuni agenti sono al di qua delle barriere che dividono il rettilineo d’arrivo dal pubblico, al di qua ovvero nella careggiata stradale; uno di loro viene letteralmente centrato da un corridore, ma la prima collisione ne genera inevitabilmente altre; Jalabert vola letteralmente in aria e si schianta a terra: la clavicola è andata, così come diversi denti.

Le immagini sono impietose: la divisa rosa della ONCE che indossa Jalabert è inzuppata di sangue e lui è stordito, circondato da un nugolo di persone che non credono ai loro occhi – alla dinamica, assurda e drammatica, e al fatto che Jalabert sia ancora vivo e vigile, probabilmente. A chi gli chiede come ha fatto a passare da quell’incidente all’inarrestabile sete di vittoria del 1995, lui risponde così:

“Un inverno trascorso in sella per gettare le basi e cinque settimane di pausa prese tra la Liegi-Bastogne-Liegi e gli appuntamenti estivi”.

Alla Vuelta del 1995, dicevamo, Jalabert sta talmente tanto bene da irretire gli avversari: vince con naturalezza, controlla con facilità, nelle interviste dice sempre che la giornata è scivolata via tranquilla anche quando tranquilla non è stata. Anche per questo nessuno si stupisce quando la ONCE, la sua squadra, si schiera in testa al gruppo fin dalle prime battute della dodicesima tappa: con i suoi duecentotrentotto chilometri è la frazione più lunga di quell’edizione e il traguardo posto sulla Sierra Nevada sembra perfetto per ribadire la superiorità di un corridore rispetto a tutti gli altri.

L’ascesa finale misura una trentina di chilometri, dunque la fuga che si è formata in mattinata appare destinata a morire: se sono saltati Ugrumov e Zülle – arriveranno rispettivamente con otto e diciotto minuti di ritardo -, crolleranno anche i fuggitivi. Il primo corridore a imboccare l’ultima salita di giornata è Bert Dietz e lo fa con nove minuti di anticipo sul gruppo; è rimasto da solo e, come dirà al traguardo, “in quel momento la vittoria era pura utopia”.

Dietz è l’opposto di Jalabert. Tedesco il primo e francese il secondo, per non parlare poi delle differenze in sella ad una bicicletta da corsa: Dietz è costretto ad affidarsi alla fuga, Jalabert può permettersi di rimanere in gruppo per giocarsela coi migliori; se il francese è uno dei corridori più forti del mondo, il tedesco è arrivato al professionismo soltanto a venticinque anni, nel 1994, nonostante avesse raccolto ottimi risultati tra i dilettanti. Dopo il ritiro rimarrà per qualche tempo nel ciclismo per poi abbandonarlo definitivamente, preferendo aprire un negozio di articoli sportivi. Quando scoppierà la nuova bolla del doping nei primi anni duemila, Dietz sarà uno dei primi a confessare: alla Telekom, la squadra nella quale ha militato, prendevano di tutto e i dirigenti non erano soltanto consapevoli, bensì complici, in quanto incentivavano l’uso di certe sostanze.

Salendo verso il traguardo, il suo vantaggio cala a vista d’occhio: a tre chilometri dall’arrivo conserva due minuti di vantaggio, ma Jalabert chiede un ultimo sforzo a Melchor Mauri e grazie al forcing dello spagnolo il margine di Dietz si assottiglia ulteriormente. Poi, a poche centinaia di metri dall’arrivo, succede quello che tutti si aspettavano: con una leggerezza che non è di questo pianeta, Jalabert accelera e rimane da solo.

Agguanta Dietz ma non lo semina. Lo raggiunge, guarda dietro, poi avanti e di nuovo alle sue spalle. Si sposta sulla destra, un cambio di ritmo che allo stremato Dietz dev’essere parso l’affondo più crudele che si potesse immaginare; Jalabert guarda il tedesco e gli dice qualcosa: possibile che lo stia davvero spronando? Possibile. Dietz passa davanti e vince la tappa, Jalabert gli guarda le spalle e taglia il traguardo impassibile, guardandosi in giro come un bambino in un parco giochi. Olano, il terzo, arriva subito dopo. Jalabert è quasi metafisico nello spiegare il suo gesto:

“Volevo dimostrare che non sono venuto qui per conquistare più tappe possibili, ma per vincere la classifica generale”, dice ai giornalisti presenti.

“Ho chiesto a Mauri di aumentare il ritmo per scoraggiare eventuali attacchi, dovevo guardare Olano e l’ho fatto”.

E della vittoria elargita à la Indurain?

“Non voglio dire che vincere non mi interessava; è che quando ho ripreso Dietz e ho visto la sua sofferenza, ho capito che doveva vincere lui. Gli ho detto di seguire il mio cambio di ritmo altrimenti lo avrebbero ripreso, lui si è fidato ed è andata bene”.

Poi, poetico come solo un corridore francese e in fiducia sa essere, Jalabert si lascia andare: “Sono un corridore, conosco bene la fatica e i sacrifici che si fanno per vincere. Dietz era in fuga da stamattina e non posso privarlo di una gioia così grande al termine di una giornata così difficile.

Questa tappa, il cui traguardo è posto quassù, dove il cielo sembra così sottile, è una di quelle in cui è giusto morire subito prima del traguardo”.

Dietz, incredulo, dice che Jalabert è un pazzo, che nessun altro sarebbe stato capace di una cosa simile e che – ma non credetegli – non avrebbe accettato lo stesso gesto se fatto da un qualsiasi altro corridore. La Vuelta di Jalabert prosegue com’è iniziata: bene. Vincerà altre due volte, portando a cinque i successi di tappa. A Luz-Ardiden centra l’ultimo ma la volontà di conquistare quella frazione l’aveva annunciata addirittura la settimana prima nelle varie interviste. Il trionfo nella classifica generale verrà indicato dallo stesso Jalabert come il più bello della sua carriera: per godersi l’ultima giornata, la passerella finale di Madrid, si alzerà alle sei di mattina, sfruttando uno di quei rari momenti in cui un uomo è un tutt’uno con se stesso e con tutto quello che lo circonda.

 

 

Foto in evidenza: ©Le dérailleur

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.