Il Mondiale di Gap 1972, quello di Bitossi e di Basso.

 

“Se non ho Bitossi non gioco” . Radiofreccia

Forza Franco! Urla disperato Adriano De Zan. È l’agonia di uno sport, cento metri, cento metri soli. Ma la pedalata si impasta, Franco ondeggia sul manubrio, si piega, si volta. “Ce la fa!” Lo pensi ogni volta riguardando il vecchio maledetto spezzone in bianco e nero. Quasi cinquant’anni dopo, ognuno che ha fatto del proprio cuore albergo di strada e pedali ancora tifa Bitossi lungo un calvario sportivo fattosi leggenda: Gap 1972.

Da scalatore a finisseur. Si era dovuto reinventare Franco, Cuore Matto, affinché le tachicardie gli dessero un po’ di tregua. A volte, come ha più volte raccontato, era in fuga, costretto poi a fermarsi appoggiato a un albero o seduto a terra. L’aritmia poi cessava e ripartiva frustando il pedale. 

Fra i sessanta e i settanta si snoda la sua carriera. Anni ruminanti grandi cambiamenti sociali e culturali: lotte, drammi e idee. Il ’68 è uno spartiacque generazionale destinato a fare epoca, nel ciclismo segna invece l’arrivo del più grande di tutti i tempi: s’impone il “merckxismo”, che segnerà nel pregiato pallottoliere oltre cinquecento vittorie. 

Qui invece, per il campione della nostra storia ci fermiamo “solo” ai centosettantun trionfi, giusto per dare una spruzzata in numeri della classe di Cuore Matto. Ma questo preambolo da contabile poco ci interessa, poiché il potere degli eventi è tale che probabilmente non ne basterebbero mille di vittorie per cancellare quella corsa. Come non bastano le ventuno tappe al Giro, i quattro successi al Tour, i due trionfi al Lombardia, la Tirreno, un Giro dell’Emilia, svariate tappe al Giro di Svizzera; un palmares che il novanta per cento dei corridori che sbuffano nei plotoni di ieri, oggi e domani firmerebbero col sangue. Franco è stato, è e sarà sempre quel Mondiale. 

Ma andiamo con ordine, poiché ogni tragedia che si rispetti necessita di un prologo. Dunque, Mondiali di Ciclismo su Strada del 1972: si corre in Francia, fra la provenza e le Alpi. L’Italia si presenta ai nastri di partenza con Basso, Bitossi, Boifava, Cavalcanti, Dancelli, Gimondi, Motta, Panizza e Polidori. Se si toglie Gimondi tutti sono campioni già appannati o quasi. E sarà proprio Felice, quel giorno, a dover recitare la parte dell’AntiBelgio. Il Cannibale, la cui era splende da quasi un lustro, si presenta come favorito (Ça va sans dire) dopo il fresco trionfo al Tour giunto a coronamento di una stagione semplicemente mostruosa (Sanremo, Brabante, Freccia Vallone, Liegi e Giro). L’Italia cerca il trionfo proprio dal ’68, anno della maestosa cavalcata storica di Adorni a Imola. 

Sei agosto. Il sole brucia sin dal mattino sulle grandi vallate che furono di celti e liguri, si respira un’aria strana, proprio Merckx è il più teso di tutti quando si presentano al via.

“Eddy non deve andarsene”.

Sono questi gli ordini impartiti dal commissario tecnico Ricci, ed è questa la cantilena che frulla nella testa e nei polpacci italiani nei primi giri; Gimondi tallona l’avversario di sempre. Arrivare in fondo con più uomini possibile e magari giocarsela in volata è la tattica. Dopotutto proprio Merckx ha indicato Basso e il suo micidiale spunto veloce, come  la cosa che più teme. I primi giri volano via come sempre fra attesa e attacchi di giornata; a metà corsa Boifava va in avanscoperta, giusto per capire dietro come si potranno muovere. Ed eccoci alle fasi calde, quando la belva sente l’odore del sangue. È un istinto, un moto interiore, giunge il momento atteso: Merckx scala i rapporti, li allunga costringendo il gruppo a un ritmo infernale; Zoetemelk, De Vlaminink, Guimard e Verbeeck gli resistono. Con loro ben quattro italiani: Dancelli, Bitossi, Basso e Panizza. L’Italia ci crede, sa di potercela fare: Bitossi pronto allo sparo, Basso che attende un probabile arrivo in volata. Ed ecco la stoccata di Franco. 

“Ho pensato: Merckx è un amico, non mi seguirà. Basso e Dancelli faranno gioco di squadra, Guimard è stanco, Mortensen e Zoetemelk potrebbero rincorrermi ma sono in minoranza.” Ecco cosa ha pensato al momento della stilettata. Tutti lo aspettavano un po’ più avanti, in verità, all’imbocco della collinetta di Gap. Ma è già partito ormai, verso i sogni e l’iride. Poco più di un chilometro, due, trecento metri il vantaggio sul gruppetto. È fatta.

Forza Franco! Cinquant’anni dopo lo vediamo, nuove tv al plasma, vecchi filmati di eroi in affanno. Il rettilineo d’arrivo, le urla, De Zan e la sua telecronaca pacata che pian piano monta. L’arrivo è qui, fuori dallo schermo dove siamo noi, noi che guardiamo in basso la televisione per veder sbucare la linea bianca: forza Franco, manca poco! Eppure tutto si allunga e si comprime in uno spaziotempo rarefatto. Ecco la pedalata che impercettibilmente inizia a indurirsi.

E si indurisce il rapporto, in una maledizione d’istinto che sempre coglie il corridore: il sogno disperato di poter macinare più metri con meno pedalate.

Ai lati le urla della folla, Franco sembra scomparire all’ombra delle transenne. Eccolo adesso, lampeggia a bordo strada fra le grida francesi, cinquata metri. Non ti voltare, forza Franco! Guimard ha lanciato lo sprint intanto, la velocità è doppia e compare la scena di una zattera relitta in preda ai marosi montanti.

È lì, è lì l’arrivo. De Zan ha la voce sempre più rotta; Bitossi ondeggia, rotto anch’egli sul manubrio adesso. Non ti girare Franco, ma l’ansia d’amore soverchia Orfeo che voltandosi fa precipitare di nuovo Euridice nell’Ade; l’ansia di gloria rapisce Bitossi, lo stesso errore:  “Mi sono voltato e le auto non mi permettevano di capire dove fossero gli inseguitori”. Franco, allora, per capire dove siano gli altri, si toglie dalle transenne e prende il centro della strada, come un ubriaco malfermo che piombi improvvisamente sul palco di un teatro. Il vento d’estate lo investe, tutto gli è contro. Trenta, venti, quindici metri, le scritte in terra, la linea è lì, le scritte degli sponsor, Forza Franco, è tuo! Ci alziamo in piedi anche adesso, decenni dopo; Guimard però da dietro è furibondo, Basso allora si muove e lo salta. Dieci metri, cinque e su Gap cala l’orrore.

Basso supera Bitossi, braccia al cielo, atroce beffa italiana, il gelo sull’arrivo. 

Sarà lo stesso Basso a raccontare come dietro, una volta andata via la tv prima del centro abitato, tutti avessero girato in testa, tirando e contravvenendo dunque al gioco di squadra di uno sport troppo individuale perché non vi siano tradimenti.

Merckx dunque fuori dal podio. Basso, Bitossi e Guimard a medaglia. Fosse stato un mondiale normale ogni nazione sarebbe in estasi: oro e argento. Ma qui è diverso: la premiazione è surreale, Bitossi è sgomento, non parla, appare frastornato. Cosa è successo? Poi il pianto, quello di Basso di gioia, quello di Bitossi in preda a una crisi di nervi, di tutta la squadra che non riesce a gioire per un mondiale vinto. 

“Stavo per alzare le mani. Quando ho visto passare Basso ho provato la più grande delusione della mia vita“.

Ma sono poche parole biascicate. Franco lascia in lacrime la postazione Rai, sale sul secondo gradino del podio, un sorriso tirato, da folle.

Passano gli anni, dapprima il dolore, l’astio, poi la riappacificazione e il ricordo. Amaro e rassegnato. “Ormai sono abituato a essere ricordato per quella sconfitta. Ogni volta che mi invitano a una festa ciclistica ripropongono il finale di quel Mondiale”.  Eppure è inevitabile in quel ricordo buio aver consegnato un corridore alla Storia. Lo sconfitto che si fa eroe, tragico; il vincitore in sordina, campione ma traditore, potente e dimesso al tempo. Poiché il ciclismo è vera rappresentazione e così oltre alle corse, anche i luoghi vengono associati ai corridori per sempre, nei sogni e nella polvere.

Van der velde e il Gavia, Simpson e il Ventoux, Skibby e il Koppenberg, Bitossi e il Mondiale di Gap. 

A noi passeggeri amanti del ciclismo non resta via via che sfogliare il grande poema delle corse, pescare qualche lettura qua e là. Fra i grandi trionfi, le fughe, le cadute e gli scatti, siamo certi che sempre torneremo al capitolo di Gap, che ci fa sognare e piangere. Che ancora, oltre mezzo secolo dopo, ci tiene incollati al rettilineo facendoci credere che Bitossi ce la possa fare, che possa alzare, dannazione, le sue braccia al cielo dando gioia e riposo al suo grande cuore matto.