Dan Martin non ha intenzione di vivere il ciclismo come una bolla.
“Cosa pensi di fare?!”, sbraita Dan Martin nella sua mente. “Sei appena un secondo anno e ti permetti di attaccare Valverde? Voltati, guarda la situazione alle tue spalle: ti sta inseguendo con la sua squadra al completo. Bella mossa, davvero. Ormai che hai guadagnato duecento metri, provaci: rialzarsi sarebbe davvero stupido”. La quarta tappa della Volta a Catalunya 2009 andrà a Julián Sánchez Pimienta e l’irlandese terminerà soltanto secondo, con Valverde praticamente alle calcagna. L’attacco gli ha però permesso di risalire al secondo posto della classifica generale, posizione che manterrà sino alla fine. A Dan Martin capita spesso di attaccare in maniera del tutto sconclusionata: può permetterselo, dato che il ciclismo per lui è soltanto una passione e non una missione.
La genealogia non gli pesa. Neil, il padre, fu professionista per qualche anno. Il cugino di Dan, finché i due sono ragazzi, è soltanto Nicolas: non ancora uno sportivo di alto livello. È il cognome di Nicolas ad avere una certa eco: Roche. Stephen è suo padre. La sorella di quest’ultimo, Maria, è la madre di Daniel Martin. Quando Stephen inanella Giro d’Italia, Tour de France e Mondiale nel 1987, Nicolas ha quattro anni mentre Dan soltanto uno.
La prima bicicletta da corsa arriva per Dan il giorno di Natale del 1998. Quello che assomiglia all’inizio della più classica delle favole si rivela un buco nell’acqua. Il ragazzo prova la bici il giorno dopo, per Santo Stefano: fa freddo, lui esce dal cancello e cade, il padre lo rialza e legge negli occhi del figlio l’apatia nei confronti di quel mezzo. Rimarrà nascosta e dimenticata anche l’estate successiva, quando la famiglia vedrà compiersi coi propri occhi sui Pirenei la parabola di Lance Armstrong, esemplare e fittizia.
Dodici mesi più tardi, nell’estate del 2000, la famiglia cambia destinazione: come il Tour de France, alterna i Pirenei alle Alpi. Il padre consiglia a Dan di mettere almeno qualche chilometro nelle gambe prima di partire: lui, senza spremersi, gli dà retta. Pochi giorni più tardi scala l’Alpe d’Huez in sessantotto minuti: Pantani ha fatto decisamente meglio ma non aveva né quattordici anni né qualche centinaio di chilometri appena nelle gambe. Quella di Dan Martin, più che un’ascensione, è una rivelazione.
Le strade del Tour de France hanno consegnato nelle mani (e nelle gambe) di Daniel Martin il dono più prezioso che si possa desiderare: un sogno. Chi ha un sogno vede a colori, si scopre ottimista, trova energie insospettabili. Quando l’irlandese compie trent’anni, però, la Boucle esige che si saldi il conto. Non fanno favori, gli dèi del ciclismo. Per ogni goccia di speranza ne instillano una di veleno: di ambizione, che come l’utopia fa camminare e come una nuvola tutto il resto oscura. L’antidoto è la maglia gialla.
Daniel Martin batte un colpo nel 2013, quando regola Fuglsang a Bagnères-de-Bigorre. Una primavera più tardi si presenta ai nastri di partenza del Giro d’Italia 2014 e tutto l’ambiente lo scruta come un animale esotico: cosa aspettarsi da un essere del genere? Poco, perché nella cronosquadre di apertura la Garmin-Sharp fa harakiri: le ruote di Martin perdono contatto con l’asfalto, lo disarcionano e mandano gambe all’aria altri tre compagni di squadra. Quattro elementi davanti, quattro a terra e il nono, Fabian Wegmann, che si era già staccato per problemi allo stomaco. La frattura alla clavicola lo frena da qualsiasi velleità: Belfast e l’Irlanda del Nord, che ospitava la grande partenza della corsa rosa, si riconferma territorio ostile.
Le sirene francesi aumentano il tono della loro litanìa nel 2016. Chiude nono al termine del primo Tour de France corso senza intoppi e con la volontà di fare classifica: non male, considerando che la sua nuova squadra, la Quick-Step, continua nel solco della tradizione puntando tutto su Kittel e lasciando dunque solo l’irlandese nelle tappe di montagna. Da quel momento, Dan Martin non si nasconde più: dice che chiudere la carriera senza aver provato con tutte le forze a salire sul podio del Tour de France sarebbe stata un’occasione persa.
Il 2017 sembra l’anno buono, peccato che si trovi a ruota di Richie Porte nella discesa del Mont du Chat quando il tasmaniano taglia una curva e sbatte violentemente sull’asfalto: Martin non può far altro che travolgerlo e volare con la schiena sul muro di roccia a lato della strada. La frattura di due vertebre lombari lo convince di una cosa: considerando quanto gli sta costando, terminare la corsa è il minimo. Più facile a dirsi che a farsi, ma l’irlandese lo fa davvero: sesto, e tanti rimpianti.
L’ultima edizione è stata ancora una volta tempestata di cadute e problemi: ottavo con una convincente vittoria di tappa a Mûr-de-Bretagne. Il veleno iniettato a suo tempo nel sangue di Dan Martin fa effetto soltanto parzialmente: il suo corpo reagisce bene nonostante tutto e per eliminarlo definitivamente ci vorrà ben altro.
In nessun altro sport un atleta importante come Dan Martin avrebbe la fisionomia di Dan Martin: soltanto nel ciclismo ci sono degli esseri umani così normali, comuni, che abbandonano la mediocrità soltanto quando salgono su una bici da corsa. Daniel Martin ha la faccia spigolosa e le spalle tagliate con nettezza; è magro, in certi periodi forse troppo, e scoordinato. Quando pedala non ha nessun interesse stilistico e fotogenico: mostra spesso la dentatura scomposta, la posizione in sella lo è altrettanto, la pedalata tutt’altro che ipnotica.
L’irlandese ha trovato nella quotidianità e nella normalità le sue tecniche per rinnovarsi: il ciclismo è un’appassionante porzione della sua vita che non deve però inficiare tutto il resto. Per questo a gennaio preferisce ancora staccarsi dai compagni di squadra anziché logorarsi inutilmente, oppure evitare i ritiri finché gli è possibile perché allenarsi a casa (Andorra, nel suo caso) permette di rimanere accanto alla propria famiglia arrivando alle corse più riposato e rilassato. Dan Martin ride quando pensa all’espressione che nasce spontanea sulla faccia di molti suoi colleghi quando rivela loro quanto tempo è rimasto senza pedalare durante l’inverno: a volte, anche diverse settimane.
La sua carriera consiste, da sempre, nel mettere su strada quello che gli passa per la mente. E infatti, come testimoniano gli attacchi scellerati sulle Ardenne o al Tour de France, Martin non vincola la sua attività alla tecnologia:
“Perché tutti quei numeri, comunque la si voglia mettere, finiscono per limitarti: e io non vorrei mai succedesse perché non conosco i miei limiti”, rivela sincero.
Che il funzionamento del World Tour non gli piaccia è evidente: non viene incentivato lo spettacolo, non viene premiato il coraggio, difendere un sesto o un settimo posto nella classifica generale equivale a volte a salvare una stagione.
“Per vincere, devi rischiare di perdere”, ama ripetere a se stesso.
Ma non basta, perché quando si vede inseguito da una squadra che deve proteggere un piazzamento va su tutte le furie: “È solo una corsa di bici, dico io. Non c’è niente da perdere, quindi tanto vale provare a vincere, no? Invece di fare la corsa su di me per il decimo posto finale, non potrebbero organizzarsi meglio e provare a vincerla?”.
Daniel Martin, al termine della sua carriera (i trentatré anni si avvicinano ad ampie falcate), verrà ricordato come un enorme malinteso. Come successo con molti altri prima di lui, non sapremo se incasellarlo sotto la voce “classiche” oppure “grandi giri”. Fino a qualche stagione fa, non avremmo avuto dubbi: una Liegi, un Lombardia, una Tre Valli Varesine, il Giro di Toscana e altri podi sparsi tra Ardenne e Italia. Nel 2014, ad esempio, avrebbe potuto ripetersi sul traguardo della Doyenne conquistata un anno prima. Una chiazza d’olio all’ultima curva, però, lo ridimensionò: ancora più piccolo e sgraziato, concluse trentanovesimo.
Il protagonista della storia di Dan Martin, in alcune circostanze, non è stato lui: Alejandro Valverde, bello e solare, gli ha portato via da sotto il naso almeno un’altra Liegi e tre edizioni della Freccia Vallone. Nel 2017, a Muro di Huy appena superato, l’irlandese fu laconico: “In vista della Liegi, posso solo sperare che lo spagnolo vada più piano; più in generale, devo solo resistere e aspettare il giorno in cui lui si ritirerà”. Martin, che non è né uno sprovveduto né uno di circostanza, ha rivelato a James Witts di Cyclist quello che pensa di Valverde.
“Dentro di me, dato che spesso mi sono trovato testa a testa con lui, devo credere che non si stia ancora dopando. Ma non conosciamo i potenziali effetti a lungo termine del doping”.
L’irlandese fa riferimento alla cosiddetta “memoria epigenetica” dei muscoli: secondo questo studio, come spiegato dalla rivista Science Reports, “un muscolo stimolato regolarmente può raggiungere l’apice della forma anche dopo un periodo di pausa”: ergo, un uso sistematico di sostanze dopanti, per quanto lontano nel tempo, potrebbe continuare ad alterare il motore di chi ne ha abusato nonostante questi abbia smesso.
Daniel Martin non ha paura di confrontarsi sui medicinali. Usa un inalatore ma raramente è dovuto ricorrere alle tanto famigerate TUE (Therapeutic Use Exemption, ndr): è asmatico fin da ragazzo ed essere nato cinque settimane in anticipo potrebbe avere influito. Sul tramadolo, antidolorifico del quale in futuro sentiremo purtroppo parlare, ha le idee chiare: lo ha preso soltanto una volta al Giro d’Italia 2010 ed è stato così male da aver paura. Quando gli chiedono come si fa a restare ottimisti parlando di doping, lui sospira:
“Se ti convinci del fatto che il tuo avversario assuma farmaci, allora sei già sconfitto”.
Paragona il doping ad un furto al supermercato o a copiare durante un esame scolastico: semplicemente sono cose che non si fanno per rispetto verso se stessi e gli altri.
“Non ho nessuna intenzione di provare certe sostanze per un motivo molto semplice: non ho bisogno di vincere per stare bene con me stesso. Mi basta aver dato il 100%”.
Il futuro di Daniel Martin è imprevedibile almeno tanto quanto lui. Finché avrà voglia e ispirazione, pedalerà: quando questi requisiti verranno meno la bicicletta dovrebbe tornare in uno scantinato a prendere polvere. Non saranno i sacrifici a farlo desistere: per lui sono normali e a sua moglie non pesano, dato che si chiama Jess Andrews e alle Olimpiadi di Rio de Janeiro ha chiuso al sedicesimo posto i diecimila metri piani. Sicuramente non sarà una scelta stressante: tutta quell’attesa per un evento che dilania inglesi e spagnoli, Dan Martin non la capisce. Per questo, sfruttando la nazionalità della madre, ha optato per l’Irlanda nonostante fosse nato a Birmingham. E quando Inghilterra e Spagna escono da una competizione con la coda tra le gambe, lui si fa delle grasse risate.
Quanto successo alla Vuelta a España 2018 è indicativo per capire fino a che punto Martin sia disposto a sacrificare la sua esistenza per il ciclismo: i dottori che seguivano la gravidanza di sua moglie non hanno fatto in tempo a comunicargli l’imminente arrivo delle due gemelle che l’irlandese aveva già fatto i bagagli ed era ad Andorra a stringere la mano alla compagna. Chi sottolinea la maleducazione nel lasciare la squadra con un uomo in meno e chi, invece, apprezza l’umanità del gesto: chi guarda il dito e chi la luna, insomma. E poi Martin non era nemmeno al 100%, e lui odia correre quando corpo e mente non rispondono alla perfezione.
Aspettatelo a Liegi o a Como, sul Muro di Huy o a Bergamo; aspettatelo quando meno lo riterrete in grado di presentarsi, quando non si fa mai vedere, quando digrigna denti e spalle in cerca di linfa. O magari aspettatelo in fuga, il giardino adatto per far sfogare un cane sciolto: in quelle fughe stanche e bollenti, dove ci si ricorda che al Tour de France è sempre estate. Quando da dietro non rientra nessuno e allora conviene guardare avanti.
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