La vita violenta di Janez Brajkovič

Janez Brajkovič combatte con la bulimia dall’inizio della sua carriera.

 

La prova in linea dei campionati sloveni, quella che ha segnato il ritorno ad una certa normalità anche nel ciclismo, è andata come doveva andare: se la sono giocata Roglič e Pogačar, col primo che si è liberato del secondo nelle ultime battute di gara; al terzo posto si è classificato Mohorič, dei tre lo sloveno che ha fatto parlare di sé per primo, avendo brillato tra i dilettanti ed essendo arrivato nel World Tour nel 2014. Al quarto posto, a cinquantatré secondi da Roglič e ad una quindicina da Mohorič, Janez Brajkovič, vecchia conoscenza del ciclismo europeo le cui battaglie contro corridori nuovi e atipici come Roglič e Pogačar rappresentano soltanto l’ultimo episodio di una carriera densa di fatti, di delusioni, di stati d’animo.

Premesse, promesse

Nato sul finire del 1983, Brajkovič si è avvicinato al ciclismo soltanto nel 2001, quando veleggiava verso i diciott’anni. Portò lo sport in una famiglia – padre, madre e un fratello – che non lo frequentava: nemmeno lui, a dire la verità, finché un amico delle superiori non lo contagiò. All’inizio Brajkovič fece molta fatica, la sua struttura fisica non essendosi strutturata a dovere. Poi, nel giro di pochi mesi, la certezza che il proprio destino si annidava in quello sport.

©Frank Steele, Twitter

Nel 2004 si distinse come uno dei migliori dilettanti del mondo: vinse il Trofeo Piva al termine di un assolo durato quarantacinque chilometri; sbaragliò la concorrenza ai campionati sloveni, conquistando tanto la prova in linea quanto a quella a cronometro riservate agli Under 23; e infine primeggiò nella prova contro il tempo dei campionati del mondo di Verona, battendo Dekker e Nibali. Nel 2005, a metà tra il dilettantismo e il professionismo, Brajkovič incantava gli addetti ai lavori: nella terza tappa del Giro del Trentino lo anticipò soltanto Honchar, mentre nella prova a cronometro dei campioni europei riservata agli Under 23 dovette accontentarsi della medaglia di bronzo.

Poi, in estate, sbarcò definitivamente nel mondo che ormai sembrava appartenergli: quello del professionismo, anche se non aveva ancora compiuto ventidue anni. Nelle prime quattro cronometro della sua carriera professionistica, tre canoniche e un prologo, Brajkovič non uscì mai dai primi quattordici: nell’ultima del Eneco Tour fu settimo, in quella del Giro di Polonia addirittura quarto. Poche settimane più tardi, nella prova in linea dei campionati del mondo di Madrid, convinse anche gli scettici: su un percorso che favoriva perlopiù corridori veloci, Brajkovič chiuse undicesimo. Boonen batté Valverde, ma lo sloveno chiuse nel primo gruppo riuscendo a mettersi dietro corridori come Wesemann, Bettini e Vinokurov. Altri grandi favoriti della vigilia come Petacchi, Zabel e McEwen terminarono la prova nel secondo gruppo, fallendo laddove Brajkovič era riuscito.

Che fosse forte sul passo e nelle cronometro, lo si era intuito; quando iniziò a rimanere coi primi anche in salita, però, in molti cominciarono a preoccuparsi: a Brajkovič sembrava mancare giusto un po’ di resistenza per la classifica generale dei grandi giri, ma per quella sono più che sufficienti fatica e pazienza. Il 2006, la prima stagione intera dello sloveno tra i professionisti, confermò quelle sensazioni: quinto alla Volta a Catalunya e al Giro di Svizzera, trentesimo alla Vuelta dopo aver sfiorato in due occasioni la vittoria di tappa e aver vestito la maglia oro di leader della classifica generale.

©Frank Steele, Flickr

E invece, tutto rimase cristallizzato a quei momenti: raramente, infatti, Janez Brajkovič sarebbe riuscito ad andare oltre nei quindici anni successivi. Tra i primi dieci di un grande giro ci sarebbe entrato soltanto al Tour de France 2012, nono a sedici minuti e mezzo da Wiggins e a meno di un minuto dal sesto posto di Zubeldia. Di brevi corse a tappe ne avrebbe conquistate tre: il Tour de Georgia 2007, il Giro di Slovenia nel 2012 e il Delfinato nel 2010, di gran lunga la più importante. In quella settimana si rivelò incontenibile: vinse la cronometro rifilando un minuto e quarantasei a Contador e seppe seguirlo in salita, chiudendo terzo nella tappa di Risoul e secondo sull’Alpe d’Huez. A queste poche vittorie ne vanno aggiunte altre tre: una tappa alla Volta a Catalunya nel 2012 e due edizioni della prova a cronometro dei campionati sloveni, la prima nel 2009 e la seconda nel 2011.

Ci sono anche diversi piazzamenti, certo: il secondo posto al Giro di Lombardia del 2008 è il più significativo, forse, battuto da un Damiano Cunego che in quella classica sapeva esaltarsi – e che conquistava per l’ultima volta, la terza, in carriera. Per il resto, Brajkovič ha dovuto convivere con le botte, rialzarsi dalle cadute, smaltire le delusioni: le rosee premesse erano diventate promesse dorate, ma la brutalità dell’esistenza non ha sentito discorsi e ha fatto il suo corso. Tuttavia, se Janez Brajkovič non ha vinto quello che sperava – e che un talento come il suo avrebbe meritato -, i suoi limiti c’entrano fino ad un certo punto.

Scontare gli errori degli altri

«Durante la mia carriera ho perso diverse opportunità a causa della mia nazionalità e della cattiva nomea delle squadre in cui ho corso», dichiarava anni fa Brajkovič a Cycling News. «Talvolta mi è stato riservato lo stesso trattamento di alcuni miei ex compagni di squadra che si sono dopati per anni». Per quanto forte, la riflessione dello sloveno è molto meno sconclusionata di quello che può sembrare: d’altronde lui non si è inventato niente, la sua carriera è la prova più concreta e inattaccabile.

©Georges Ménager, Flickr

Al professionismo ce lo portò la Discovery Channel e Brajkovič fece in tempo a conoscere da vicino Lance Armstrong. In controtendenza col ritratto dipinto da molti, il suo ricordo del texano è piuttosto dolce. «Era un leader esigente e una persona estremamente occupata, su questo siamo d’accordo. E non torno nemmeno su quello che ha fatto, è palese che abbia sbagliato», argomentava a PezCycling News nel 2014. «Tuttavia, se devo dire la verità, non era uno di quei capitani che danno per scontato l’aiuto dei gregari soltanto perché questi sono pagati per farlo. Magari non così spesso, però ricordo che s’interessava sinceramente ai suoi uomini e passava del tempo con loro».

Parlare bene di Lance Armstrong non è comodo, almeno da un po’ di anni a questa parte, ma Brajkovič non ha mai ritrattato. Anzi, nella stessa intervista sottolineava l’ipocrisia dilagante dell’ambiente. «Che i suoi sponsor lo abbiano abbandonato e che lui sia stato punito posso anche accettarlo», continuava. «Ma non capisco perché abbiano rincarato così tanto la dose: ma se Trek, ad esempio, non avesse avuto un testimonial come Lance Armstrong, oggi avrebbe una squadra professionistica? Forse sì, anche se non ne sono così sicuro. Non ho una soluzione che metta d’accordo tutti quando si parla di Armstrong: dico soltanto che, secondo me, ci concentriamo troppo sul passato e per niente sul futuro».

Successivamente sarebbe tornato sull’argomento chiacchierando con Cycling News. «In molti non mi crederanno e dubiteranno delle mie parole», ipotizzava Brajkovič, «ma non ho mai assistito a trattamenti dopanti e Armstrong mi ha sempre trattato bene: di questo sono sicuro». Dopo la Discovery Channel, Brajkovič visse qualche stagione relativamente tranquilla: prima l’Astana, nel 2008 e nel 2009, e poi la RadioShack nel biennio successivo. Tornato all’Astana nel 2012, lo sloveno avrebbe trovato un ambiente diverso: alla guida della squadra non c’era più Bruyneel, una delle figure più importanti della sua carriera, ma Vinokurov. E i tre anni successivi sarebbero stati i più difficili della sua carriera.

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Il primo scoglio fu linguistico: Brajkovič parlava un inglese fluente, ma le due lingue della squadra erano il kazako e l’italiano. In più, nel 2013 arrivarono Nibali e Fuglsang, che relegarono Brajkovič al ruolo di gregario di lusso – battitore libero, nella migliore delle possibilità. Infine, gli infortuni completarono il quadro: fuori dai giochi al Tour de France 2013 e al Giro d’Italia 2014, ovvero in due dei quattro grandi giri disputati con l’Astana tra il 2012 e il 2014.

Alla Corsa Rosa rimase coinvolto nella brutta caduta generale di Montecassino: si spezzò un braccio, il quale subì una rotazione che tolse sensibilità alla corrispettiva mano. In ospedale arrivò per primo e uscì per ultimo: lo fecero aspettare per cinque ore su un lettino, senza nemmeno un antidolorifico che potesse alleviargli il dolore. Il giorno dopo era in Slovenia, il braccio era grande tre volte il normale; bisognava operarlo e così fecero, ma nel frattempo passarono altri sei giorni e la piena sensibilità nella mano l’avrebbe recuperata soltanto diverso tempo più tardi.

Nell’estate del 2014, l’Astana gli comunicò che il suo contratto non era tra quelli rinnovati. L’agente di Brajkovič si fece cogliere alla sprovvista, le squadre avevano già completato i loro organici e lo sloveno rischiò di rimanere senza squadra. Nemmeno la scelta di un nuovo procuratore, Baden Cooke, sembrava poterlo aiutare. «Il progetto di Fernando Alonso si è arenato, adesso mi accontento di qualsiasi squadra: non sono nella posizione ideale per scegliere, devo prendere quello che viene», raccontava a CyclingTips. «Quantomeno sto capendo chi sono le persone sulle quali posso contare: quelle che rispondono ai miei messaggi, che mi ascoltano e che stanno facendo qualcosa per me. Quello del ciclismo è un mondo crudele, è frustrante non ricevere risposte».

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Alla fine una soluzione l’avrebbe trovata: la UnitedHealthcare, una Professional americana che avrebbe potuto garantirgli un calendario di buon livello. «Correre in America è un sogno, altro che un passo indietro», dichiarava estasiato a Cycling News. «C’è una mentalità diversa: più aperta, più vicina alla mia, e non chiusa e diffidente come quella europea». Si dichiarava felice e soddisfatto, impaziente di cominciare il 2015. Non lesinò nemmeno qualche affondo nei confronti dell’Astana, che in quei giorni veniva accostata all’operato del dottor Ferrari. «Non ne so niente e non voglio spingermi troppo in là», glissava Brajkovič. «Dico soltanto che non metto la mano sul fuoco per nessuno e che alcuni membri di quella squadra dovrebbero allontanarsi dal mondo del ciclismo».

Nomi non ne ha mai fatti, Brajkovič; in compenso, dopo due stagioni alla UnitedHealthcare, tornò nel World Tour con la neonata Bahrain Merida. Durò solo un anno, vale a dire il 2017. Nel 2018 tornava in patria, all’Adria Mobil, inconsapevole che nei diciotto mesi successivi avrebbe dovuto attraversare l’ennesima tempesta del proprio viaggio sportivo.

Il coraggio di ammettere le proprie debolezze

Nel gennaio del 2019, all’improvviso come sempre in situazioni di questo tipo, l’UCI sospende Janez Brajkovič per la positività alla metilexaneamina, uno stimolante che fino ai primi anni ’70 veniva regolarmente venduto e usato per alcuni trattamenti medici. La positività risale a un anno prima, al 18 aprile 2018, seconda tappa del Tour of Croatia. Tuttavia, la squalifica ammonta soltanto a dieci mesi; secondo il conteggio dell’UCI, Brajkovič può tornare a correre a partire dal 1 giugno 2019. Misure del genere non sono state prese a caso, bensì sulla base di un’importante testimonianza dello stesso Brajkovič. I documenti che lo sloveno mette sul tavolo confermano quanto lui sostiene, anche se prima non ne aveva mai fatto parola con nessuno. La presenza di quella sostanza ne sottintende un’altra assai più delicata: quella della bulimia.

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Il tema dei disturbi alimentari serpeggia nel ciclismo ormai da diversi anni, ma si fa ancora fatica a trattarlo. Che ci sia, è palese: oltre a Brajkovič, anche Ben King – corridore della NTT Pro Cycling – ha dichiarato di averne sofferto in passato; in più, non ci sarebbe da stupirsi, vista e considerata la magrezza e i ritmi talvolta insostenibili dei protagonisti del ciclismo odierno. La presa di posizione di Janez Brajkovič è preziosissima: spezza un silenzio insopportabile, segna un punto di non ritorno, da ora in avanti non si potrà far finta di non sapere.

«La combatto da molto tempo, non se n’è mai andata del tutto. Mi sono ritrovato suo schiavo e quasi non me ne sono accorto», raccontava nel 2019. «Nel ciclismo, e più in generale nello sport professionistico, argomenti del genere sono considerati dei tabù. Parlarne significa rischiare l’isolamento, rimanere senza squadra e senza lavoro. Ho imparato a soffrire in silenzio, sperando che la situazione si sistemasse da sola col tempo. La dirigenza di una squadra non perde molto tempo, di questi problemi se ne disinteressa e valuta solo il tuo rendimento: se vogliono mandarti via, useranno contro di te le confidenze che hai fatto loro sulla tua situazione; se invece vogliono rinnovare il tuo contratto, faranno finta di niente».

Brajkovič ha ammesso anche di non essere l’unico corridore con questi problemi. «Non faccio i nomi per ovvi motivi», ha aggiunto, «ma ho conosciuto diversi colleghi con problemi simili, almeno cinque o sei per squadra tra quelle di cui ho fatto parte. Gregari, bei corridori, alcuni di loro sono saliti persino sul podio dei grandi giri: ragazzi normali e felici, visti dall’esterno».

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Concluse l’intervento con una puntualizzazione. «Non scrivo tutto questo per me, per farmi notare e suscitare compassione. Io tutto sommato non me la passo così male, il ciclismo rimane la mia passione più grande e in un modo o nell’altro faccio ancora parte di questo mondo. Finché ti rialzi non sarai mai un fallimento, anche se la sensazione d’esserlo è indescrivibile. Io scrivo questo per sottolineare l’ipocrisia del ciclismo: abbiamo un problema e non possiamo far passare il concetto che un corridore all’arrivo con un osso rotto è un eroe, mentre un altro che rivela i propri disturbi alimentari è un debole».

Cycling Weekly, ancora prima che Brajkovič rendesse nota la propria vicenda, gli chiese se la positività e la seguente squalifica fossero le delusioni più grosse della sua carriera. «Da un certo punto di vista sì, considerando quanta risonanza genera la positività di un ciclista», rispose. Si prese qualche secondo, dopodiché allargò il discorso. «Da un altro punto di vista, invece, direi proprio di no. Nel corso della mia carriera sono stato bullizzato ed emarginato perché ho deciso di non far parte di certi gruppi, un compagno di squadra stava quasi per soffocarmi durante un Tour de France, mi è stato detto che sono una nullità subito dopo aver firmato un contratto, qualcuno mi ha minacciato dicendomi che avrebbe fatto di tutto pur di farmi smettere di correre. Quindi, no: da questo punto di vista non è la cosa peggiore che mi sia mai successa».

A Janez Brajkovič, audace come lo Yanez di Salgari, vanno riconosciuti dei meriti tutt’altro che banali: ci ha ricordato, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che il mondo del ciclismo non è sempre tanto gentile e tanto onesto come spesso pare – e vuole apparire, intorbidando ulteriormente la questione.

 

 

Foto in evidenza: ©News Beezer

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.