I corridori come Matteo Montaguti hanno sempre qualcosa di intelligente da dire.

 

Matteo Montaguti iniziò ad andare in bicicletta stando seduto a un tavolo, un giorno a pranzo, era domenica. Da Giordano, il nonno, si finiva sempre per parlare di corridori e corse. Senza che il nipote chiedesse qualcosa, l’anziano attaccava a raccontare com’era andata la gara. Le figlie annuivano, mica sempre convinte. “Una di quelle due sarebbe diventata mia mamma. Mio nonno se le portava sempre dietro. Poveraccia, mia madre: soffriva anche la macchina ma non ne saltava una”. Un giorno, insomma, chiesero a Matteo se per caso volesse provare. Le rarissime domeniche impiegate diversamente dal pedalare negli ultimi ventinove anni della sua vita dovrebbero bastare a rendere l’idea.

Montaguti è un uomo in pace con se stesso, avendo fatto della sua più grande passione la sua vita. Non gli manca niente. “A dire la verità, sì: una tappa al Giro d’Italia”, ammette, anche se forse non l’ha ancora vinta più per colpa sua che per merito degli altri. Dice che si mette troppa pressione, che si carica di aspettative esagerate, sa che non è necessario essere dei fuoriclasse per conquistare una frazione al Giro d’Italia ma proprio sul più bello se ne scorda. Se dovesse scegliere una classica, sarebbe l’Amstel Gold Race “perché è nervosa e tipica, da attaccanti”: quel posto privilegiato era toccato per tanti anni alla Milano-Sanremo ma poi l’ha corsa e l’ha trovata noiosa. Fino al 2017, Montaguti aveva gioito solo una volta: nel 2010, quasi dieci anni fa. Fuggì con Savini nella prima tappa del Giro della Provincia di Reggio Calabria, lo regolò in volata e primeggiò anche nella classifica generale della corsa. “Non sarà l’Amstel Gold Race ma che emozione: ero pagato poco o nulla, reduce dal primo ritiro solitario di tre settimane alle Canarie. Impagabile”.

L’Androni gli sta bene come un vestito su misura: da una parte la possibilità di aiutare i giovani, dall’altra quella di mettersi in proprio. Una libertà che in AG2R non sempre aveva. “Non mi posso lamentare, anzi”, riflette Montaguti. “Correre per una squadra francese in tempi così difficili per l’Italia mi ha permesso di non risentire della crisi. Diciamo che ero libero ma nei limiti del calendario italiano: le semiclassiche, il Giro d’Italia per supportare Pozzovivo. A volte un po’ troppo poco, considerando il mazzo che mi facevo”. Il Tour de France lo ha disputato solo nel 2014. Mentre Nibali surclassava la concorrenza, Montaguti faceva i conti con le sue ambizioni e con l’impressione che essere campioni non sempre è necessario, ma di certo aiuta. Fu ottavo a Bagnères-de-Luchon e quinto a Mulhouse, dove vinse Tony Martin davanti a Cancellara, Van Avermaet, Dumoulin e Montaguti, appunto.

Gli mancheranno alcune vittorie, a Matteo Montaguti, di certo non il carattere. Non è un dettaglio da poco, in un mondo che assomiglia sempre più a un binario. Non ebbe problemi, per esempio, a schierarsi apertamente contro le varie sparate sensazionalistiche de Le Iene ripetutesi negli anni. “Non sopporto l’idea che qualcuno possa credere che un mio eventuale successo sia frutto del doping. La stampa e la televisione hanno grosse responsabilità. Ai ragazzi bisognerebbero spiegare i motivi che portano delle persone a prendere delle determinate decisioni. Dirgli che non sempre chi si dopa vince e che quasi mai chi vince si dopa”. Oppure potremmo chiedere direttamente a Vincent Lavenu, il general manager della AG2R, il quale non avrebbe nessun problema a raccontare che Montaguti non ha mai avuto un procuratore e il contratto lo discutevano loro due, faccia a faccia. “Ce l’avevo, all’inizio, ma poi sono rimasto scottato e ho preso un’altra strada: la mia. Forse avrei dovuto guardarmi intorno un po’ prima. Si fece avanti la Sky, per dire, ma per una serie di motivi non se ne fece nulla. Per trovare un posto all’Androni mi sono affidato a Manuel Quinziato, giovane e non così scafato come altri, ma è onesto”.

I trentacinque anni accumulati permettono a Matteo Montaguti di librarsi sopra alcune questioni senza rimanervici invischiato. Conosce il calendario italiano a menadito, il ruolo attuale lo sa interpretare con mestiere, altri tre o quattro anni non glieli leva nessuno. “Mi alleno bene e sto attento a tutto, per questo tutto sommato sono ancora integro. E nonostante non sia più giovane, sono ambizioso: una corsa vale l’altra, l’obiettivo rimane lo stesso. Non posso limitarmi al compitino. Il ciclismo è lo sport che mi ha dato tutto: stabilità economica, una casa, una macchina. Ma sono le sensazioni a contare più di tutto il resto. E sono sempre quelle delle prime domeniche, in parole povere”. Povere un corno, caro Montaguti.

 

Foto in evidenza: ©Claudio Bergamaschi

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.