Michele Scarponi ci ha lasciato due anni fa: andandosene è diventato immortale.

 

Caro Michele,

mi sono bastate due sole parole per capire che quando si ha a che fare con te le sensazioni funzionano diversamente. Ho scritto Michele senza pensarci, come se non potessi dedicarti queste righe in altro modo. Non mi è mai passato per la mente di chiamarti Scarponi. Michele, invece: come se io e te fossimo stati amici, o conoscenti. Niente di tutto questo. È successo soltanto con te. Non mi piace rivolgermi ai corridori chiamandoli per nome. Non ho la confidenza necessaria e anche se l’avessi non lo farei lo stesso perché mi sembra trasparisca un nonsoché di superficiale, di maldestro. Può darsi che qualche volta mi sia sfuggito: distrazione, tutt’al più avevo esaurito i sinonimi. Quanto detto vale anche per la struttura che questo pezzo assumerà: una lettera. Prendila per quella che è: una finzione letteraria. Non saprei cosa aggiungere, se non che non so ancora il motivo principale che mi spinge a scrivere. Non per la gloria, si capisce: non m’interessa, e ci sarebbero infinite vie più semplici da percorrere per raggiungerla. E nemmeno per piaggeria: i tuoi cari, ai quali queste parole in qualche modo arriveranno, potrebbero tranquillamente non gradire. Me lo ha fatto capire Marco, tuo fratello. L’ho intervistato per telefono poche settimane fa e mi è dispiaciuto non farlo di persona: ne avrei conosciuta una meritevole. Lui e le persone che vi erano, e sono tuttora, vicine stanno combattendo una battaglia che riguarda tutti ma che, allo stesso tempo, non avrebbero mai voluto combattere. Sono stanche, persino demoralizzate, ma ogni mattina ricominciano da capo. Non amano raccontare di te e di ciò che ti è accaduto: lo fanno perché sono buone, perché gli viene chiesto, perché questo è il prezzo da pagare per una colpa che non hanno ma che si è abbattuta su di loro. Nei tuoi genitori, infatti, c’è il sano egoismo che una volta rappresentava la normalità mentre oggi si sta perdendo sempre più: quello di chi non mette in piazza il dolore, quello di chi non sente il disperato bisogno di condividerlo in qualsiasi momento con chiunque gli passi a tiro. Avrebbero potuto riempire giornali, riviste e programmi televisivi e invece si sono mostrati nella loro dignità e nella loro vulnerabilità, solo quelle poche volte in cui gli è stato gentilmente proposto. Tua madre ha reagito in una maniera che non credevo possibile. Le ho sentito dire che dalla tua morte sono scaturiti amore e affetto: tutte quelle persone che ti hanno ricordato, pianto, pregato, visitato. Il tuo lutto ha unito quanto o forse più di un momento di gioia. Questo ha sostenuto tua madre: un po’ perché è donna, un po’ perché è mamma, sicuramente perché è una bella persona. Spero, un giorno, di avere la forza per partorire concetti così significativi. Se per caso ti stessi chiedendo cos’è cambiato negli ultimi due anni in quanto a mobilità sostenibile e sicurezza stradale, ti invito a riflettere su qualcos’altro: lascia perdere, se non vuoi arrabbiarti. Non è cambiato nulla, purtroppo. Le strade sono una terra dimenticata e vige ancora la legge del più forte. Le piste ciclabili sono poche, generalmente abbandonate, spesso stupide per come vengono concepite. E le persone continuano, imperterrite, ad accendere finanziamenti per comprare macchine sempre più nuove, più moderne, più grandi. Anche per andare a comprare il pane e accompagnare i figli a scuola. Distanza da casa: un chilometro e mezzo. Come se le galline andassero al supermercato a comprare il mangime col quale il padrone le metterà all’ingrasso per poi, un giorno, ucciderle. Siccome dicendo che si tratta di un problema culturale sembra di non dire nulla, di parlare d’aria fritta, mi sbilancio: viviamo in un sistema che non può reggere e che ha già spezzato le spalle del nostro paese, senza dimenticare che il tempo passato distraendosi nei mille modi diversi che la società di oggi propina è tempo tolto alla riflessione. E se non si riflette non ci si fanno domande, e se non ci si fanno domande non ci si rende conto di chi siamo, di cosa stiamo facendo e dove stiamo andando. Non si alza nemmeno un filo d’aria e così rimangono le nuvole.

La mattina del 22 aprile 2017 me la ricordo bene. Era limpida, a metà tra la primavera e l’estate. Era un sabato e io ero a fare benzina quando il cellulare squillò. Hai visto cos’è successo a Scarponi?, chiedeva svuotata l’altra voce. Voglio essere sincero, se non con te quantomeno con chi leggerà: ho pensato a un controllo antidoping andato male. Sono malizioso? Può darsi, non lo escludo. Credo ciecamente in questo ciclismo, altrimenti non ne parlerei: però è altrettanto vero che i ciclisti sono uomini e degli uomini, di tanto in tanto, conviene non fidarsi. E comunque, anche se in molti storceranno il caso, non posso non ricordare che i tuoi problemi con la giustizia sportiva li avevi già avuti. Prima l’Operación Puerto che ti portò via diciotto mesi della tua carriera, poi i tre mesi di squalifica nell’autunno del 2012 per la frequentazione con Michele Ferrari, inibito dal 2002. Raccontata con la tua ironia pungente, l’Operación Puerto sarebbe potuta diventare una barzelletta in un attimo: c’è un ginecologo spagnolo che ha a che fare con dei ciclisti e ognuno di loro è registrato negli appunti del medico con un nomignolo bizzarro. E invece, barzelletta un accidenti: fu una carneficina. Come sottolinearono in molti, ti ritrovasti in un mare in tempesta senza saper nuotare: ti aggrappasti al primo scoglio intravisto, peccato fosse friabile. Il calore e la semplicità della tua famiglia fecero di te un uomo nuovo: con l’Androni tornasti al successo, con la Lampre ti consacrasti, con l’Astana ti eri adattato a un ruolo faticoso e prestigioso. Il 2011 fu il tuo anno migliore, ero un ragazzo ma mi è rimasto bene in mente. Il trofeo del Giro d’Italia vinto a tavolino lo tenevi sopra a un tavolino, ma nell’angolo: davanti, le foto dei tuoi cari, “perché se si vincono trofei del genere è tutto merito delle fotografie che vedete in primo piano”. Avresti potuto vincere anche la Sanremo, quell’anno. Rimasto attardato insieme ad altri inseguitori, li salutasti sulle prime rampe della Cipressa per rientrare da solo, al termine della discesa, sul primo gruppo. In volata facesti sesto: se quel ritmo sulla Cipressa lo avessi tramutato in uno scatto perentorio sul Poggio, chissà. Hai vinto una Tirreno-Adriatico e un’altra te l’ha soffiata Garzelli grazie ai piazzamenti; hai conquistato tre tappe al Giro d’Italia, lo hai concluso per ben tre volte al quarto posto e hai accarezzato almeno una Liegi e un Lombardia. L’ultimo successo lo hai centrato pochi giorni prima di morire. Si trattava della prima tappa del Tour of the Alps, che tu avevi già vinto quando si chiamava ancora Giro del Trentino. Quel giorno vincesti di forza a Innsbruck. Non alzavi le braccia al cielo da quattro anni: ironia della sorte, lo hai fatto proprio in quella città che un anno e mezzo più tardi avrebbe ospitato i campionati del mondo, una corsa di cui parlavi in continuazione e che avrebbe potuto rappresentare l’ultimo atto della tua carriera. Se ci fossi stato non sarebbe cambiato niente: Moscon e Nibali non avrebbero potuto fare di più. E invece, a pochi giorni da quell’affermazione, un furgone ti ha investito e spedito al padreterno. Te ne sei andato da ciclista professionista, non dimentichiamocelo: eri vestito con la divisa della tua squadra, pedalavi sulla tua specialissima da corsa e continuavi a preparare il Giro d’Italia che avresti corso da capitano nonostante il Tour of the Alps fosse terminato nemmeno ventiquattr’ore prima. Giuseppe Giacconi, quel povero cristiano che t’investì, ti ha raggiunto dopo una decina di mesi. Gli avevano trovato da poco tempo un male incurabile. Nemmeno il tragedista più incallito avrebbe pensato una fine del genere. Anna, tua moglie, ha portato i gemellini a quell’incrocio e ha spiegato loro cos’è successo a papà. La dinamica e basta: senza spiegazioni, senza tanti fronzoli. Nessuna speranza cristiana, nessun giardino dal quale qualcuno strappa sempre i fiori migliori. Che quel tizio se li vada a strappare da un’altra parte, i fiori migliori, avrebbero potuto pensare Giacomo e Tommaso. Ho riletto il diario che Marco Pastonesi ti commissionò alla partenza del Giro d’Italia 2002. Avevi l’arduo di compito di raccontare ogni giornata dal tuo punto di vista. Poi, insieme ai lavori di Bruseghin nel 2003 e di Noè nel 2004, il tutto sarebbe diventato un libro davvero prezioso: “Il diario del gregario”, appunto. Alcuni tuoi passaggi sono meravigliosi. Di una leggerezza, di una verità e di un’arguzia che basta leggerli per farsi un’idea piuttosto giusta della persona che eri. Non metto in dubbio che Pastonesi abbia dovuto metterci mano, ma la base era già eccellente: come rifinire un diamante. Di te ci sono rimaste diverse cose. La simpatia, ad esempio: costante, puntuale, mai esagerata. Si vedeva che eri intelligente, altrimenti non avresti mai potuto essere così buffo. Di te ci è rimasto il nome, come ti dicevo: Michele, non Scarponi. In pochi, per dire, evocano Pantani chiamandolo Marco. Di tuo, infine, ci sono rimaste un sacco di foto. Quando non scherzi, soffri: ma è una sofferenza voluta, generatrice. Le più belle, anche se sono poche, sono quelle in cui sorridevi e non guardavi. Ripensando alla tua storia, a come sei ripartito e a come te ne sei andato, ho capito che tra uno scrittore e un ciclista non c’è molta differenza. Ovviamente mi riferisco a chi pedala e scrive per vocazione, quasi per missione, mosso da una necessità sotterranea. Tu hai sempre pedalato per te e basta. Non per la fama, nemmeno per impegni contrattuali o perché non sapevi fare nient’altro: altrimenti, a quasi trentotto anni, non ci si alza alle sette di sabato mattina per allenarsi, lasciando moglie e due bambini piccoli a letto e dopo essere tornato da una corsa impegnativa soltanto la sera prima. Ho capito, caro Michele, che si scrive come si pedala: per se stessi.

 

Foto in evidenza: ©Sean Rowe, Flickr

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.