Abbandonate le responsabilità del predestinato, Robert Gesink è diventato un corridore nuovo.

 

 

Nella prima parte della sua carriera, Robert Gesink correva per realizzare i sogni degli altri. Era una bella storia, la sua: pulita, una di quelle a cui affezionarsi è incredibilmente semplice. Un ragazzone di un metro e novanta e una settantina di chili – oggi, all’epoca qualcosa in meno – cresciuto nella fattoria di famiglia, cento acri vicino a Varsseveld; i nonni abitavano alla porta accanto e Robert fu iniziato al ciclismo dal padre nell’aia della fattoria. A tutto questo, Gesink aggiunse una dose spropositata di talento: passò professionista nel 2007, a vent’anni, appesantito dal dovere di riportare il Tour de France in Olanda; l’ultimo a riuscirci era stato Joop Zoetemelk nel 1980.

I sogni degli altri, Robert Gesink, li ha realizzati soltanto in parte: ha vinto due edizioni consecutive del Giro dell’Emilia, una del Grand Prix de Montréal e una del Grand Prix de Québec, una del Tour of California, una tappa al Giro di Svizzera; nella cronometro individuale del Tour of Oman 2011, ad esempio, vinse rifilando quasi trenta secondi a Cancellara. In più, Gesink si è piazzato in più occasioni tra i primi dieci anche al Tour de France, alla Vuelta, al Giro di Lombardia. Qualsiasi breve corsa a tappe possa venirvi in mente, Gesink è andato vicino a conquistarla: senza riuscirci, però. Eppure andava forte: tanto che un paese, Aalten, gli dedicò una salitella, la “Robert Gesinkbult”; tanto da meritarsi uno di quegli orribili soprannomi ciclistici, uno di quelli formato dal binomio animale+luogo di provenienza: il condor di Varsseveld.

©Bidon, Twitter

Per aggirare la pressione mediatica, Gesink si trasferì a Girona con Daisy, la sua compagna. Tuttavia, non fu sufficiente. Quando l’opinione pubblica olandese si rese conto che probabilmente Gesink non avrebbe mai riportato in patria il Tour de France, iniziò a vomitargli addosso di tutto. Boogerd disse che stimava Gesink, che gli piaceva, ma lo vedeva troppo fragile per vincere il Tour de France. Gli andarono tutti dietro, purtroppo per Gesink. «Ho soltanto ventisette anni», sbottò nel 2013. «Parlano di me come se fossi vecchio, come se in questi anni non avessi vinto niente». Gesink non chiedeva pietà: gli sarebbe bastata un minimo di comprensione.

Nessuno, infatti, si chiedeva cosa potesse significare, per un giovane e talentuoso olandese, correre nella Rabobank che stava scomparendo tra le inchieste sul doping di squadra; nessuno provò a capire lo stato d’animo di Gesink quando all’improvviso perse suo padre, vittima di un incidente in una gara amatoriale di mountain bike; e nessuno, di nuovo, provava a ipotizzare che dietro l’aritmia cardiaca che ogni tanto gli causava iperventilazione e fitte al cuore, potesse esserci il peso di una responsabilità troppo pesante, un chiacchiericcio divenuto insopportabile, un dovere che non corrispondeva col volere.

E la sfortuna, poi, sempre in agguato: una gamba rotta, un femore andato, la testa ammaccata; una gamba più debole dell’altra, problemi di tanto in tanto ad abbassarsi per prendere in collo i figli. Alla Vuelta a España 2014, a quattro tappe dalla fine, Gesink era sesto in classifica generale, ma fu costretto a ritirarsi in fretta e furia: la seconda gravidanza di Daisy si stava complicando, c’era il rischio che partorisse dopo appena venti settimane. Quando Gesink arrivò, l’avevano già trasferita in una struttura specializzata: il loro secondo figlio sarebbe nato, regolarmente, diciotto settimane più tardi.

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Due anni dopo, alla Vuelta a España 2016, la carriera di Gesink cambiò mentre scalava l’Aubisque: salendo, si liberò di pesi non necessari, di sogni che non gli erano mai appartenuti e di desideri che avrebbe voluto realizzare senza, tuttavia, riuscirci. In cima all’Aubisque trovò la vittoria: la più prestigiosa e significativa della sua vita, la prima in un grande giro, quella che gli ha permesso di puntare le dita al cielo in memoria di Dick, suo padre. Improvvisamente, tutto gli è sembrato chiaro: aveva trent’anni, era acciaccato e ammaccato, e vincere una tappa di tanto in tanto gli pareva abbordabile ed emozionante. E poi, la squadra intorno a lui era cambiata: della Rabobank, la squadra di cui era stato uno dei capitani, non era rimasto niente; adesso, c’era un gruppo di amici più freschi di lui per cui valeva la pena lavorare.

Nonostante la sfortuna che di tanto in tanto lo visita, Robert Gesink è un uomo felice. Lo scorso anno, la sua presenza è stata fondamentale nelle vittorie di Primož Roglič e verosimilmente lo sarà anche in futuro. Gesink vive sempre a Girona con la famiglia: lui e Daisy avevano intenzione di aprirvi un ristorante. Robert, intanto, si consola andando a giro con un Ape Piaggio celeste Bianchi – livrea concessagli dall’azienda italiana, che fornisce le bicicletta alla Jumbo-Visma: ci ha fatto montare, tra le altre cose, una macchinetta per fare il caffè e si diverte a farlo a chi glielo chiede. La squadra vuole lasciarlo libero di muoversi come meglio crede, lui difficilmente sbaglierà: un uomo felice è un corridore pericoloso.

 

 

Foto in evidenza: ©Soigneur, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.