Il ciclismo, la vita: intervista a Roberto Amadio

Dalla pista al verde della Liquigas una vita spesa sulle due ruote.

 

Parlare di Roberto Amadio significa raccontare uno spaccato degli ultimi trent’anni di storia del ciclismo non solo italiano. Da corridore conquistò medaglie pesanti in pista (“Indimenticabile l’oro mondiale nel quartetto con Martinello, Grisandi e Brunelli“) e una la sfiorò alle Olimpiadi di Los Angeles (“L’anno prima: ma quell’esperienza fu indimenticabile“). Su strada si dice orgoglioso di aver corso con alcuni fra i più grandi della sua epoca (“Sono stato in squadra con Moser, Thurau, Rominger e Bugno“) e del suo “secondo posto di tappa al Tour“, prima di essere messo fuori gioco e costretto ad abbandonare anzitempo sogni e velleità dell’attività agonistica a causa di una extrasistole. “Credo di essere stato uno dei primi casi di professionista già sotto contratto fermato per un problema cardiaco: purtroppo o per fortuna mi hanno trovato questo problema, e da lì un po’ alla volta una serie di circostanze mi hanno lasciato la porta principale aperta nel mondo del ciclismo. Non potevo dire di no alla chiamata della Federazione come collaboratore di Dario Broccardo sulla pista, passando per diverse esperienze. Ho chiuso qualche anno fa – per il momento – con la fine della Liquigas la mia avventura da direttore sportivo.

E oggi Roberto Amadio cosa fa?

Vivo il ciclismo oggi come allora, come quando a sei anni salii per la prima volta su una bicicletta. Il ciclismo non è solo la mia passione: è tutta la mia vita . Oggi faccio il consulente per gli organizzatori di diverse corse con la mia società, la LAM Sport Consulting; in questi giorni stiamo delineando ingaggi e inviti per la Vuelta a San Juan (proprio l’altro ieri sono usciti i nomi delle squadre partecipanti, n.d.r.). Ho collaborato con Argentin per la Adriatica Ionica Race e da un po’ di tempo organizziamo le Saganfondo: quest’anno ne abbiamo fatte due in California: è stato un grande successo.

 

Roberto Amadio è attivo per il Tour de San Juan, corsa a tappe argentina: qui con Vincenzo Nibali, il Governatore Sergio Unac e il ministro dello sport Jorge Chica (Foto per gentile concessione di Roberto Amadio)

 

Partiamo dalla pista. Si ha spesso l’impressione che l’attività su pista sia vista – anche da chi è dentro al mondo del ciclismo – quasi come un elemento di disturbo seduto all’ultimo banco.

Succedeva tempo fa. Ora ho la netta impressione che le cose siano cambiate. Il merito va al lavoro che sta facendo Cassani e alla sua politica della multidisciplinarietà che sta ponendo al centro del lavoro attività differenti, non solo la strada, coordinandole in maniera intelligente e proficua. Fino a poco tempo fa la pista veniva vista come la sorella minore del ciclismo su strada: ora anche i team dilettantistici italiani stanno iniziando a cambiare mentalità e ad adeguarsi. Porto l’esempio del Friuli, dove il Cycling Team Friuli svolge un’attività importante in pista e all’estero, lontano dalle “gare del campanile” alla ricerca del numero di vittorie, ma prediligendo la qualità e la varietà delle corse e alla crescita e lo sviluppo dei propri corridori per prepararli senza logorio al mondo del professionismo: un lavoro che darà i suoi frutti.

In Toscana e Veneto, regioni guida del nostro ciclismo, ancora si predilige l’attività su strada, ma le cose stanno cambiando; in Federazione ci sono tecnici di grandissimo spessore come Villa e Salvoldi e il loro lavoro porterà dei frutti importanti, vedrete, non solo a livello di medaglie e successi, ma per la crescita di corridori di qualità e di tutto il movimento. Aggiungo che in generale il ciclismo italiano su pista ha dato sempre grandi corridori: senza entrare nel merito di quelli che ci sono oggi (Viviani, Ganna, Consonni n.d.r.), penso a Martinello, ma anche Argentin e Saronni. In generale la pista mondiale di recente ha creato grandi stradisti, basta fare due nomi: Wiggins e Thomas, con tutte le differenze del caso dato che in Gran Bretagna la pista è un movimento gigantesco.

 

Nella nostra intervista, Marco Villa che lei cita ci ha detto: “Uno dei problemi della conciliazione tra le due attività è che che la maggior parte dei direttori sportivi italiani viene dalla strada e quindi tende a incanalare i propri allievi nell’attività su strada vedendo con timore l’attività su pista”. Lei nei suoi anni da tecnico di squadra professionistiche ha mai scoraggiato la doppia attività a qualcuno dei suoi corridori?

No, assolutamente. Con la Liquigas ricorderai bene abbiamo avuto un certo Elia Viviani; una delle sue richieste era fare la pista e gliela abbiamo sempre fatta fare, naturalmente sempre  in modo compatibile con i programmi su strada, soprattutto le corse di un giorno, ma noi abbiamo sempre dato disponibilità agli atleti vogliosi di misurarsi in pista.

A proposito di Liquigas: la chiusura della squadra è stato un grave danno non solo per le persone che lavoravano nell’azienda, ma anche per il ciclismo italiano.

In dieci anni di attività prima come Liquigas e poi come Cannondale abbiamo costruito e fatto grandi cose. Abbiamo portato al professionismo atleti di alto profilo che vincono tuttora: Viviani, Sagan, Damiano Caruso, Albasini, Oss, Kreuziger i primi che mi vengono in mente. Atleti che ancora oggi sono protagonisti: questo significa che abbiamo lavorato bene tutelando i nostri corridori e pensando alla loro crescita. Siamo stati un riferimento per tutto il ciclismo italiano e mondiale e per quei corridori di casa nostra di buone o ottime qualità che volevano passare con noi.

I ragazzi da noi avevano la possibilità di crescere con calma e con qualità grazie ai nostri programmi a lungo termine. Perché una cosa che non viene mai sottolineata abbastanza è l’importanza di un programma a lunga scadenza per un ragazzino di diciannove, venti o ventuno anni che passa nel mondo del professionismo. Noi davamo loro la possibilità di seguire un programma dettagliato di quattro anni durante il quale poter crescere gradualmente, avevamo una mentalità mirata alla maturazione dell’atleta e dell’uomo, un lavoro importante grazie a uno staff di qualità assoluta. Siamo stati un punto di riferimento, un team che veniva anche per certi versi “copiato”, vedi ad esempio i ritiri in altura.

Uno dei problemi del ciclismo di oggi, o quando si parla di mancanza di programmazione, è vivere anno per anno: le pressioni aumentano, cerchi da subito il massimo in certi ragazzi che magari non sono pronti mentalmente e fisicamente e tutto ciò diventa controproducente e logorante. Ecco, prendiamo Nibali: lui passò in Fassa Bortolo ma l’anno dopo arrivò da noi. Lui è l’esempio perfetto di quello che è stata la Liquigas e di quello che intendo dire: da subito Vincenzo scalpitava, bisognava tenerlo buono e calmo perché sapete benissimo che lui appena mette il numero vuole vincere, lo ricordo in quella tappa in Sicilia da giovane in fuga nel finale, era difficile tenerlo a freno.

Eppure con lui abbiamo fatto un programma di crescita graduale, che lo portò un passo alla volta prima a vincere buone corse (Plouay ndr), poi il podio al Giro, la vittoria alla Vuelta, il podio al Tour e oggi dopo tutti questi anni di professionismo abbiamo di fronte un atleta con una grandissima mentalità ancora fresco fisicamente e che si potrà togliere ancora molte soddisfazioni nei prossimi due o tre anni. Se con lui avessimo lavorato a obiettivi a medio termine invece, probabilmente lo avremmo sfruttato di più nei suoi anni giovanili, ma lo avremmo anche logorato mentalmente e fisicamente: lo avremmo bruciato. Poi, certo, parliamo di un grandissimo corridore: Nibali è un vincente con una mentalità unica.

 

Peter Sagan è il più grande talento scoperto dalla Liquigas, ma non solo: negli anni con i “verdi” sono passati anche Viviani, Caruso, Oss, Formolo, Villella, Albasini, Bettiol (Foto per gentile concessione di Roberto Amadio)

 

Questa stagione c’è stata la chiusura della BMC mentre è di pochi giorni fa la notizia del Team Sky che non avrà più il suo sponsor principale da fine 2019: ragionando sulla difficile sostenibilità economica di questo World Tour, secondo lei quali possono essere le soluzioni che una squadra potrebbe adottare per coprire un budget enorme e non dipendere solo da sponsor o magari di un magnate che si innamora del ciclismo e poi dopo qualche anno si stufa e butta tutto all’aria?

Sono sincero: da quindici, venti anni lavoriamo su questo fronte e su questo argomento. Con l’UCI arrivammo quasi a dividere i diritti televisivi, ma poi con ASO è stata una guerra persa per vari motivi. Mi spiego. La grande differenza con gli altri sport è che qui ci sono tre componenti in ballo: UCI, organizzatori delle corse e squadre. Diventa difficile trovare un accordo su questioni delicate come i diritti televisivi. In tutti gli sport vengono suddivisi con i protagonisti che sono poi gli attori principali: questa anomalia invece esiste solo col ciclismo, questa è la principale difficoltà.

Riguardo Sky la questione è differente: ha vissuto un ciclo di quasi dieci anni ottenendo grandi risultati ed enorme visibilità. Il ciclo di una sponsorizzazione è sempre di otto, massimo dieci anni, dopo di che subentra un discorso di passione oppure particolari interessi, ma per un’azienda importante e strutturata è quello il ciclo di sponsorizzazione. Non mi sorprende per nulla che abbiano abbandonato: forse mi sorprende di più la tempistica. Se parliamo di budget, invece, è chiaro che venti o venticinque milioni sono fuori portata per l’Italia. Io in questi anni ho sempre cercato delle sponsorizzazioni: abbiamo un grandissimo prodotto e potenzialmente il ritorno di immagine che dà il ciclismo non esiste in nessun altro sport. Il problema è che per capire il meccanismo e queste potenzialità ci devi entrare; se oggi vai da una multinazionale dove non sanno cos’è il ciclismo è difficile convincerli e i motivi sono tantissimi, come ad esempio la piaga del doping che ha infamato questo sport, pur essendo il ciclismo oggi lo sport più pulito in assoluto.

Roberto Damiani ci ha detto che grazie al ciclismo l’azienda Cofidis ha avuto un grande ritorno a livello di immagine. Perché secondo lei in italia si fa questa fatica a reperire sponsor che vogliano inserirsi nel World Tour per riportare in gruppo una grande squadra, mi passi il termine, “di club” italiana? È un problema solamente di crisi economica? Eppure nel mondo del ciclismo vediamo, oltre a Segafredo che sponsorizza una squadra che però è americana, altri grandi sponsor come Mediolanum, sponsor al Giro, oppure Mapei, sponsor al Mondiale, senza contare gli sponsor tecnici, i fornitori di bici.

È un insieme di situazioni. Una sponsorizzazione fino agli otto, dieci milioni in Italia è abbordabile parlando di aziende di un certo livello; il problema è che con otto o dieci milioni non riesci a fare una squadra World Tour, non riesci a garantire corridori di qualità che possano vincere un Giro o un Tour. I costi nel ciclismo sono cresciuti in maniera esponenziale.

Attenzione, però: non è una questione che più soldi ho e più vinco, ma una questione proprio di ingaggio e valore dei corridori. I corridori per i grandi giri costano di più e nel ciclismo attuale, dove la squadra è fondamentale per vincere una corsa a tappe di tre settimane, una squadra ha bisogno di quattro o cinque elementi che se non costano come il capitano, costano poco meno, quindi le cifre di cui parlavo per costruire una squadra non bastano più se non con mega sponsorizzazioni. Il World Tour costruito così è destinato a implodere, lo dicevo anche a McQuaid anni fa: una squadra World Tour non dovrebbe andare sopra i quindici milioni di budget. La cifra giusta sarebbe tra i dieci e i quindici milioni, oltre non puoi giustificare la spesa agli sponsor, salvo vincere un Tour de France, ma su venti squadre il Tour lo vince una sola, il Giro lo vince una sola squadra: e le altre diciotto o diciannove?

Difficile giustificare costi sopra i quindici, venti milioni: c’è troppo divario tra il valore di un Tour de France e quello delle altre corse. E tutto gira intorno a questo: se una squadra come il Team Sky non vince il Tour è un fallimento. Il ciclismo, però, permette allo stesso tempo di far conoscere lo sponsor a tutto il mondo. Non ci sono altri sport così. Oggi l’attività ciclistica da gennaio a novembre tocca tutti i continenti. Partecipi a corse in Cina, Africa Asia, America, Canada, vai in televisione, però la parte grossa la fa sempre il Tour de France, da questo non si scappa. Quindi squadre francesi come Cofidis o FDJ, nel ciclismo da oltre vent’anni, sono avvantaggiate da questo punto di vista.

Loro hanno la garanzia di correre quella corsa e quindi hanno una visibilità incredibile che una Professional italiana non ha. Figuriamoci: non vanno al Tour, ma rischiano anche di non partecipare al Giro come è già successo. Anche per questo in Italia c’è difficoltà.

 

Il Tour de France è la corsa che dà il più importante ritorno di immagine nel ciclismo (Foto ©https://www.flickr.com/photos/78174327@N00/836898754)

 

Frecciatina all’UCI: cosa ne pensa dell’idea di Lappartient di diminuire i giorni di corsa di Giro e Vuelta, mantenendo le tre settimane solo per il Tour de France?

L’idea di ridurre il Giro è anni che viene messa sul tavolo dall’UCI, ancora prima di Lappartient. Il Giro ha una storia importante ed è una corsa meravigliosa e che va rispettata perché è la storia del ciclismo. L’UCI non capisco dove voglia arrivare: qual è l’obiettivo? Anche con la nuova riforma in arrivo non so quante squadre Professional resteranno a lottare per fare le gare. Diminuiranno le wild card e uno sponsor che investe milioni di euro non lo farà più perché non si muove per fare beneficenza, ma per avere un ritorno attraverso le corse che gli possano dare visibilità. La passione è importante ma se non ci sono i numeri si va da altre parti. Immaginatevi che danno potrebbe essere per la stessa RCS il Giro con una settimana in meno di corse: meno entrate, meno investimenti, meno visibilità. E poi perché il Tour de France a tre settimane e le altre a due? Diamo ancora più valore a una corsa che ne ha già tantissimo sfavorendo le altre?

Lei con la Liquigas ha avuto diverse esperienze nei grandi giri e conosce bene gli atleti e le caratteristiche che ci vogliono per vincere una classifica finale avendo lottato per anni con Basso e Nibali per Giro, Tour e Vuelta: che futuro ha il ciclismo italiano dei grandi giri dietro Nibali e Aru? Le faccio questi nomi: Formolo, Conci, Ravasi, Ciccone. Possono essere nomi spendibili nel futuro del nostro ciclismo per vincere un grande giro?

Formolo è passato professionista con me e ho avuto modo di conoscerlo seppur per per un breve periodo. Ha sicuramente delle buone qualità. Lui l’anno prossimo deve dare una svolta alla sua carriera: non è più giovanissimo e quindi è ora di battere un colpo per essere almeno da primi cinque in una grande corsa a tappe. Gli altri hanno sicuramente bisogno di tempo per maturare e prendere le misure con le grandi corse. Attenzione, però: il ciclismo italiano non è in difficoltà. Abbiamo Moscon che ha enormi qualità e può crescere ancora. Damiano Caruso ogni anno fa un passo in avanti: dà tanto ai suoi capitani, ma quando ha la possibilità è capace di togliersi soddisfazioni personali. Si torna al discorso di prima: avessimo una squadra italiana probabilmente uno come Caruso potrebbe correre per obiettivi personali che darebbero anche più motivazioni. Caruso poi ha un grande pregio: quello di farsi trovare sempre sul pezzo, sia come aiuto dei capitani che come uomo di punta.

 

Moren Moser è un talento che non ha mai mostrato a fondo tutte le sue qualità: parola di Amadio.

 

Un ciclista che lei ha avuto in Liquigas che ha raccolto meno del suo talento?

Pozzato, senza ombra di dubbio. Grande atleta, grande professionista e grande talento: si è sempre dedicato al 100 % al ciclismo, forse è stato anche un po’ sfortunato in carriera, soprattutto al Fiandre e alla Roubaix. E poi c’è Moreno Moser, che ha fatto cose incredibili nei primi due anni, poi si è perso e non capisco come mai. Ora con la Nippo troverà un ambiente più familiare e spero si riesca a sbloccare. I numeri che ha fatto non sono da atleta normale: vuol dire che dentro ha un talento incredibile.

E di Kreuziger cosa mi dice?

C’è stato un momento durante il quale tra lui e Nibali non sapevamo chi scegliere. Poi ho avuto l’intuito di puntare tutto su Vincenzo. Kreuziger ha vinto buone corse ed era un grande talento, però pensavo potesse vincere un Grande Giro, me lo sarei aspettato e invece e rimasto lì, sempre un ottimo corridore, ma non è riuscito a fare il salto di qualità per vincere la classifica finale di una grande corsa a tappe. Resta un corridore dalle qualità enormi, le squadre che ce l’hanno come gregario non possono che essere contenti. Si torna al discorso di prima: le squadre che vogliono vincere i grandi giri investono su gregari che potrebbero essere capitani, penso oltre a Kreuziger a due come Poels e Kwiatkowski.

La sua vittoria più bella e la delusione più cocente?

La delusione più cocente, ci penso ancora perché è rimasta lì, e ci pensa sicuramente ancora anche Nibali: Liegi 2012. Quel giorno Vincenzo corse benissimo e andava fortissimo, ma si trovò di fronte un fenomeno (Iglinskij, n.d.r.). La vittoria più bella? Sicuramente Basso al Giro.

(Immagine copertina: ©Jan Jacob Mekes, from Wikimedia Commons)

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.