Il ciclismo viene ancora compreso dallo spettatore del 2020?

 

Il ciclismo è ripartito – vediamo fin dove arriverà – appesantito dalle zavorre che si porta dietro ormai da decenni. Nemmeno la pausa forzata imposta dalla pandemia sembra essere riuscita nell’intento di scuotere le coscienze di chi avrebbe il potere per cambiare questo ciclismo sempre più complicato, sempre più patinato e proprio per questo irrimediabilmente agonizzante. Magari una soluzione è stata trovata, giace silenziosa in alcuni uffici svizzeri o francesi e aspetta soltanto che qualcuno le apra la porta infondendole la vita con un soffio. È quello che ci auguriamo, ma allo stesso tempo niente ci appare così improbabile.

Ma non è di questo che voglio parlare. Alle patologie endemiche del ciclismo professionistico se ne aggiunge un’altra, resta da stabilire se vera o presunta. Per quanto mi riguarda rischia di diventare la principale nell’immediato futuro, mai nessuna smentita mi potrebbe rendere più tranquillo. Osservando ora il ciclismo e ora la società in cui è calato e di cui fa parte, mi sono chiesto: e se questo sport non fosse più compreso? Se risultasse incomprensibile e anacronistico? Avere troppo tempo a disposizione e riempirlo di domande esistenziali non è stata una mossa intelligente, lo ammetto.

©Tour de France, Twitter

Cerchiamo di mettere ordine in un pensiero che si muove perlopiù per sprazzi e intuizioni. Se fino a non molti anni fa era seguito, apprezzato e coinvolgente, oggi non è più così: il ciclismo sconta una crisi di affetto e il ruolo, minore ma rilevante, che ricopriva adesso è stato occupato da qualcun’altro. Il ciclismo odierno non è più seguito, ma soltanto più diffuso: basta guardare al Regno Unito, all’Australia e alla Colombia per capire a cosa mi riferisco.

Certo, l’ultimo decennio ha contribuito e non poco in questo processo di dissoluzione: di grandi rivalità non ce ne sono state, a malapena qualche guizzo qua e là, e sono mancati anche quei campioni in grado di caricarsi sulle spalle le aspettative e le emozioni – positive e negative – del pubblico. A Contador va il merito d’essersi reinventato attaccante, ma le sconfitte e le cadute non gli hanno reso giustizia; i meriti di Sagan sono altri, come vedremo. Gli altri – Cavendish, Valverde, Froome, Gilbert, Nibali – hanno impresso il loro nome nella storia di questo sport, ma per quanto mi riguarda non mi fanno venire in mente “La libertà che guida il popolo” di Delacroix.

Mi domando: la fatica di un ciclista professionista riesce ad essere compresa dal pubblico? E le cadute, le ferite, le cicatrici, l’abbronzatura parziale e la bava alla bocca. Una società come la nostra accetta tutto questo a patto che sia finto e deciso a tavolino, come nella pubblicità, oppure funzionale ad un racconto, come nei film. Ma quando tutto questo è vero, come la mettiamo? In una società in cui regna sovrano il valore della comodità – nel privato, nel lavoro, quando si acquista e quando ci si sposta -, non c’è il rischio che una fatica immane, e spesso fine a sé stessa, non venga compresa? E allora non è un caso che il ciclista del decennio sia Sagan, un campione – il primo – che ha saputo togliere al ciclismo quell’aura epica e mitica che lo ha sempre contraddistinto, un fuoriclasse – il primo, di nuovo – che la fatica l’ha nascosta, dissimulata, sbeffeggiata.

Oppure penso al ruolo del gregario, costretto da un talento insufficiente per primeggiare a lavorare per il successo dei migliori compagni di squadra – vittoria che arriva soltanto raramente, così come non è scontata nemmeno la gratificazione del capitano. Un cazzotto nello stomaco a quell’ottimismo spicciolo e imperante che riempie gli scaffali delle librerie, colmi di manuali che dicono d’insegnare qualsiasi cosa, che al mondo c’è posto per tutti, che per realizzare un sogno basta crederci – come se non influissero la stoffa, le capacità individuali, la fortuna, gli imprevisti, scelte più o meno fortunate, l’arrivo di qualcuno migliore di noi.

©L’ÉQUIPE, Twitter

Ma più di ogni altra cosa, il ciclismo sconta due peccati oggi irredimibili: una spettacolarità ridotta all’osso e un’originalità pressoché assente. Lo spettacolo è colorato, fragoroso e istantaneo, della pazienza non se ne fa di niente. Come possiamo aspettarci che tappe di duecento chilometri e corse di tre settimane possano raccogliere consensi? Significa chiedere ad un neofita di rimanere sintonizzato per sei ore nell’attesa di una volata breve e magari a senso unico, oppure di una maglia gialla o rosa che ha vinto amministrandosi, mai un tentennamento né un attacco in tre settimane, figuriamoci una vittoria di tappa.

E che dire dell’originalità, oggi una delle forme più palesi e insopportabili del conformismo? Il ciclismo, se vuole sopravvivere come tale e non diventare qualcos’altro, ha un disperato bisogno di rimanere sé stesso: guardandosi intorno, certo, ma non snaturandosi. Ma come si può essere originali e classici allo stesso tempo?

Quando il ciclismo raggiunse il proprio apogeo – tra le due guerre e nel secondo dopoguerra -, la bicicletta era il mezzo di tutti. L’unico, date le ristrettezze dell’epoca, e in un certo modo lo sforzo dei corridori era quello della gente, decuplicato ma pur sempre simile per esigenza e condizioni del mezzo e delle strade. Oggi, invece, cos’è la bicicletta? Uno dei tanti mezzi di trasporto, uno dei più comodi ed economici, sicuramente il più giusto da un punto di vista morale – aspetto tutt’altro che risibile, in un’Italia bigotta e ipocrita che appena può fa a spallate per sedersi dalla parte giusta della ragione. Se prima era lo sport del popolo, oggi il ciclismo è una delle tante attività della società.

Intendiamoci, non m’interessa dare dei giudizi di merito sul mondo in cui viviamo. È bello e brutto com’è sempre stato, mi sforzo di giudicarlo da contemporaneo il più imparziale possibile che non desidera né mitizzare il passato né tantomeno strizzare l’occhio al futuro. Che si sia riscoperta la bicicletta è un bene, ma è innegabile che preferirei una società in cui le scelte giuste si prendono proprio perché giuste, e non per seguire le mode e le tendenze del Nord Europa e dell’America, come troppo spesso mi pare che succeda in Italia. Però passi anche la moda, se può servire a pensare un mondo diverso. Piuttosto che nulla meglio piuttosto, come si dice.

©Fabio Mornati, Twitter

Che non mi sono inventato proprio tutto lo testimoniano i fatti. Le strade sono più vuote rispetto a qualche decennio fa e chi le riempie, in buona parte, lo fa per sentirsi protagonista attivo di un evento. Se è vero che esiste soltanto quello che si può attestare, ecco allora che il tifoso attende ore e ore non tanto per assistere al passaggio della corsa, ma per farsi inquadrare dalla telecamera e per godere del transito dei campioni non dal vivo, ma tramite lo schermo del proprio cellulare – attestare, provare, testimoniare la presenza e il fatto.

Il crescente utilizzo dei fumogeni e le danze della curva degli olandesi sull’Alpe d’Huez, giusto per fare due esempi, vanno in questa direzione: due spettacoli ormai slegati dall’andamento della corsa, performance a sé stanti. La vittoria del decennio, quella di Chris Froome nella tappa del Colle delle Finestre al Giro d’Italia 2018, è emblematica: è la meno casuale e la più studiata che si possa immaginare, organizzazione e ingegneria al servizio del talento, del bisogno e del coraggio.

Cosa fare non saprei, cosa dire l’ho già detto. Non mi sfugge che il ciclismo sia vissuto in maniera novecentesca – il che è un bene e un male allo stesso tempo – soltanto in Sud America, dove il campione possiede ancora il tocco taumaturgico e smuove intere popolazioni. Quel che mi è chiaro è che qualcuno – o qualcosa – dovrà cambiare: escludendo che sia il ciclismo a far cambiare la società, credo che toccherà al ciclismo mutare pelle. Fino a che punto, questo non saprei dirlo. Né troppo né troppo poco, ma siamo punto e a capo. Come il ciclismo uscito dalla pandemia, identico nella sostanza e notevolmente appesantito nella forma. Ma tra non molto, può essere un anno come cinque anni, il World Tour potrebbe essere l’ultimo dei problemi.

 

Foto in evidenza: ©Le Tour de France, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.