Tra le crepe s’intravede del ciclismo

Inerzia capovolta: i campioni ritrovano il gusto della duttilità e della sfida.

 

Si fa presto a bollare come noioso, stantio e disastroso un semplice periodo di transizione. L’espressione racchiude in sé il suo significato: un ponte, un momento di passaggio che si ripete ciclicamente e che collega due ere o due generazioni. Nulla di nuovo, insomma: l’arte, la storia, la politica, la musica, la letteratura e chissà quanti altri campi possono testimoniare che una punta di grigiore non soltanto non ha mai ucciso definitivamente nessuno, di più: è inevitabile. Eppure, ogni volta ripartiamo da capo: toni catastrofici, capelli strappati, il ciclismo è morto.

Si sarà capito: il ciclismo è sempre stato vivo, non è mai morto e mai morirà. Era semplicemente in attesa di nuovi personaggi e di nuovi stimoli. Che ci sia stato un lustro stagnante è innegabile. Dal 2010 al 2014, il ciclismo ha dovuto digerire il lento ma inevitabile declino di un paio di generazioni (quella di Basso, di Evans, di Freire e di Petacchi fino ad arrivare alla successiva, quella dei Boonen, dei Cancellara, dei Rodríguez e dei Contador), senza che le nuove leve fossero in grado di caricarsi sulle spalle l’ingente, e spesso ingrata, responsabilità di tenere alto il nome del ciclismo: basti pensare ai fratelli Schleck, a Porte, a Rolland, a Boasson Hagen, a Vanmarcke o a Gesink, le cui premesse lasciavano immaginare carriere stellari. Ad approfittare di questa stasi è stato abilissimo il Team Sky, prima consacrando Wiggins e poi lanciando Froome: due atleti che non hanno mai rapito gli sguardi delle folle. Le eccezioni si contavano sulle dita di una mano: Valverde, Gilbert, Cavendish, Greipel.

Per rinvigorire un ciclismo smunto ci sono volute diverse consacrazioni (da Sagan a Nibali, da Van Avermaet a Pinot, da Dumoulin a Kwiatkowski) e altrettante novità: Alaphilippe, Bernal, Gaviria, Simon Yates, Landa. Nominiamo con piacere anche Quintana e Aru, due atleti che stanno attraversando mesi più o meno difficili e che nel recente passato hanno lasciato il segno e animato migliaia di tifosi. In più, come se tutta questa ricchezza non bastasse, mettiamoci pure la longevità di Gilbert e Valverde e la straripante gioventù di Van Aert e van der Poel, ai quali sono bastate poche corse per dimostrare tutto il loro valore. Il ciclismo internazionale gode di una salute che negli ultimi vent’anni era mancata, rivelandosi spesso fallace e parziale. L’assenza di veri e propri dominatori accende coraggio e tentazioni, il calendario sembra esser stato riscoperto nella sua totalità. Da che parevano irrimediabilmente compromesse, le due ruote possono permettersi il lusso di guardare al passato non più con senso di inferiorità, ma con la complicità di chi sta vivendo un’epoca fortunata, colorata e movimentata. La sentenza degli ultimi quindici mesi è inappellabile: la noia è finita.

 

Foto in evidenza: ©Paris-Roubaix, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.