Preferire la vita alla carriera, anteporre la rettitudine al successo.
Cyril Fontayne, quarantacinquenne amatore francese, pensava di farla franca ancora una volta, quando nell’ottobre del 2017 si presentò ad una corsa locale in quel di Saint-Michel-de-Double, vicino a Bordeaux. Nella sua bicicletta era nascosto un motore e Fontayne era sicuro che nessuno, né tra i partecipanti né tra gli organizzatori, se ne sarebbe accorto.
C’è andato vicino, si potrebbe quasi dire che è stato sfortunato, se è vero che soltanto una persona si è accorta di quello che stava realmente accadendo: peccato per Fontayne che quella persone fosse Christophe Bassons, il primo grande accusatore di Lance Armstrong, un uomo che ha fatto dell’onestà e della rettitudine nel mondo dello sport la missione della sua vita.
Bassons lavora per l’Agenzia Francese Anti-Doping e l’esperienza lo ha dotato di un intuito pressoché infallibile. Fontayne gli era già stato segnalato in seguito a qualche strana prestazione fornita nelle settimane antecedenti al fatto: nonostante si fosse presentato come “convalescente da un grave infortunio”, Fontayne pedalava piuttosto bene senza particolare fatica. È stato furbo, tuttavia, o perlomeno c’ha provato: non andava mai troppo forte né spingeva rapporti proibitivi, così da non dare nell’occhio.
Una volta colto in flagrante, ha addotto le seguenti motivazioni: “rientravo da un infortunio”, “non ho falsato nessuna gara”, “l’ho fatto perché sono convinto che anche gli altri, in qualche modo, si dopano”. Sono le scuse di una vita, le motivazioni che i colpevoli adducono sempre in motivazioni del genere, il cane che continua a mordersi la coda nonostante gli faccia male da morire. Bassons lo sa, lo sa bene: lo ha provato sulla propria pelle.
Il Tour de Farce e il Tour del Rinnovamento
Non serve una memoria elefantiaca per ricordare come funzionava il ciclismo – se non tutto, in larga parte – negli anni novanta e nei primi duemila: molte medie record, specialmente in salita, vennero stabilite allora, e anche il numero di positività, inchieste, perquisizioni e scandali se non è da record ci va vicino. Il Tour de France del 1998 segnò un punto di non ritorno: fu l’edizione dell’affaire Festina, squadre intere ritirate in blocco e un clima surreale. Venne coniata un’espressione fortunata proprio perché calzante: il Tour de Farce.
L’edizione successiva, dunque, doveva far dimenticare quanto successo, lavare via l’onta del crimine e cancellare tutto quanto con un colpo di spugna. Rimedi superficiali, palliativi striminziti, intenzioni fanciullesche: non si può far finta che una delle pagine peggiori della storia dello sport non sia esistita, non si può pretendere che il marcio venisse estirpato e sostituito dal maturo nel giro di un anno. Per il Tour de France del 1999 venne coniata un’altra espressione, stavolta più dozzinale: il Tour del Rinnovamento, che a giochi fatti si rivelerà un autogol imperdonabile.
I primi sinistri scricchiolii riguardarono esclusioni eccellenti. Riis e Ullrich, ad esempio, erano infortunati. Poi arrivò la positività di Pantani: oggi potremmo dire presunta, inesistente, costruita a tavolino, ma in quei giorni diversi tifosi e appassionati la presero per quel che era, ovvero una positività. E Pantani, lo sappiamo bene, in Francia non sarebbe andato.
Infine, a diciassette giorni dalla partenza dal Puy du Fou, un immenso parco giochi in Vandea, il divieto imposto da ASO sulla partecipazione al Tour de France della TVM e di due personalità piuttosto importanti: Virenque e Saiz, colpevoli di aver irrimediabilmente infangato l’immagine del Tour de France e del ciclismo. Tuttavia, non avendo rispettato i trenta giorni di preavviso previsti dal regolamento, ASO fu costretta a tornare sui propri passi: Virenque e Saiz volarono in Francia e presero parte alla Grande Boucle.
La corsa fu un disastro. Zülle, caduto nel suggestivo tratto del Passage du Gois, sbottò dopo il traguardo per l’atteggiamento della ONCE, che si mise in testa a tirare non appena seppe della sua caduta. Dire ONCE equivale a dire Saiz, il quale non dimenticò certo che Zülle, coinvolto nello scandalo del 1998 in quanto atleta della Festina, rivelò che le pratiche dopanti fossero un’abitudine anche della ONCE di Saiz, una delle sue ex squadre.
Rinero, quarto e vincitore della maglia a pois nel 1998, venne alle mani con un tifoso che gli urlò: “Con l’EPO era più facile, vero?”. Andando verso Bordeaux, nel corso della diciassettesima tappa, dal pubblico venne sparato del gas lacrimogeno, circostanza che costrinse molti corridori a fermarsi, sofferenti e con gli occhi in fiamme.
Ludo Dierckxsens, dopo aver vinto la prova in linea dei campionati belgi e l’undicesima tappa del Tour, venne allontanato dalla Lampre per una leggerezza imperdonabile. Pur avendo superato il test per rilevare la presenza di corticoidi, Dierckxsens ne nominò uno vietato ai dottori, usato per curare un problema ad un ginocchio. Per togliersi dall’impaccio, la Lampre – la sua squadra – lo cacciò: i commissari la seguivano con attenzione, avendo trovato del materiale insolito tra i rifiuti di un cestino al Giro di Svizzera, dunque non poteva permettersi il lusso di rischiare e di attirare su di sé ulteriori dubbi.
E poi c’è Armstrong, che monopolizzò letteralmente l’attenzione e non soltanto per le quattro vittorie di tappa e il primo trionfo nella classifica generale. Dopo la vittoria nel prologo, ad esempio, risultò positivo al triamcinolone, ma riuscì a rimanere in corsa dopo aver presentato la documentazione che attestava la necessità della crema che lo conteneva per curare una dermatite al soprassella. “Giuro che non sono dopato”, disse alla stampa durante il primo giorno di riposo. “Ho dovuto smettere di attaccare, altrimenti voi giornalisti non mi lasciate in pace”, continuò nei giorni successivi.
Alla vigilia, l’organizzazione si augurava che la media finale fosse di tre chilometri orari più lenta di quella fatta registrare nel 1998, ovvero 39,983. Alla fine delle tre settimane, la media generale fu di 40.273 chilometri orari, fino a quel momento la più alta di sempre.
Mr Clean
Christophe Bassons è nato il 10 giugno 1974 e comincia a pedalare con una mountain bike soltanto a diciassette anni, partecipando alle prime corse su strada l’anno successivo. Il ciclismo, tuttavia, gli interessa fino ad un certo punto: lo pratica giusto perché ha avuto la fortuna di nascere con un fisico particolarmente predisposto al gesto atletico, tant’è che la sua non è una famiglia di sportivi. Per lungo tempo il suo unico sostenitore sarà suo nonno, uno spagnolo che diversi anni prima combatté il regime di Franco.
Bassons, nel frattempo, si laurea in ingegneria civile e diventa professionista nel 1996 con la Force Sud. La sua permanenza, tuttavia, sarà breve, dato che la squadra fallisce. Passa allora alla Festina, una delle squadre più forti e più famose del circuito. Nel corso dei primi ritiri stagionali, Bassons fa sfoggio del suo talento: semina Virenque in salita, va più forte di Zülle in pianura. Poi la stagione entra nel vivo, gli obiettivi più importanti si avvicinano e Bassons sparisce: non è più uno dei migliori della Festina e la squadra, spesso e volentieri, lo lascia a casa.
Bassons non partecipa al Tour de France 1998, dunque non vive in prima persona il dramma dei suoi compagni. Due mesi più tardi, a settembre, France Soir pubblica alcuni passaggi delle dichiarazioni rilasciate da Moreau e Meier alla polizia francese. I due corridori della Festina convengono praticamente su tutto: sono a conoscenza del sistema messo in piedi dalla squadra, non c’è mai stato niente di casuale né di taciuto e si dicono pronti a scontare la pena che gli verrà inflitta. Quando viene chiesto loro se qualche atleta della Festina fosse estraneo ai fatti, Moreau e Meier non hanno dubbi: Christophe Bassons, l’unico che non si è mai dopato.
Il nome di Bassons, dunque, inizia a circolare nell’ambiente e sui giornali senza che lui lo volesse né avesse fatto niente di particolare per meritarlo. O forse sì, forse a pensarci bene aveva fatto qualcosa di inusuale, considerando che la normalità era rappresentata dall’assunzione di sostanze vietate e dall’adozione di pratiche illecite.
Sul finire del 1998 viene contattato da Vélo, un mensile francese che desidererebbe un suo contributo. Bassons non si tira indietro e scaglia pietre: parla delle dubbie e folli velocità del gruppo e dell’ipocrisia di molti corridori che si stanno opponendo nei confronti dell’intensificazione nei controlli imposta dalle varie istituzioni. “Parlano di un ciclismo a due velocità. Beh, io ho sempre usato la seconda, non sono sicuro che gli altri possano dire altrettanto. Nonostante le abitudini dell’ambiente abbiano rovinato i miei primi tre anni di professionismo, non mi sono mai lamentato. È strano che lo facciano loro, gli altri, quelli che probabilmente hanno adottato quelle abitudini”.
Christophe Bassons è uno dei pochissimi atleti della seconda metà degli anni novanta che può dichiararsi pulito, onesto, trasparente. Non è mai ricorso né all’EPO né ad altre sostanze proibite. Non cadrà in tentazione nemmeno quando la Festina gli offrirà un contratto da duecentosettantamila franchi al mese, un ingaggio dieci volte superiore a quello che percepiva in quel momento.
Per tutti questi motivi, decide di cambiare squadra: nel 1999, illudendosi forse di trovare una situazione diversa e quindi migliore, passa alla FDJ. Con profonda tristezza, Bassons deve constatare che l’idea di ciclismo che lui coltiva sembra definitivamente morta.
Alle tensioni Bassons risponde coi risultati. A metà giugno conquista l’ultima tappa del Delfinato, dimostrando un ottimo colpo di pedale in vista del Tour de France. La FDJ non può girarsi dall’altra parte. Il debutto di Christophe Bassons al Tour de France arriva dunque nel 1999, come abbiamo detto in precedenza un’edizione quantomeno controversa. Soprattutto, è l’anno zero per quanto riguarda la vicenda di Armstrong.
L’opinione pubblica, intanto, continua a cavalcare l’onda della polemica lanciata da Bassons. Il francese viene avvicinato stavolta da Le Parisien, che lo invita a dire la sua sulle prime giornate del Tour de France 1999. Bassons non si tira indietro e parla ancora di velocità folli, insostenibili, dubbie. E poi commette un errore madornale: si rivolge direttamente ad Armstrong, tirandolo in ballo e mettendo in discussione la sua maglia gialla, arrivata all’improvviso dopo gli anni della malattia grazie ad una serie di prestazioni incredibili.
Nella prima metà del Tour de France 1999, Bassons si rende conto di essere rimasto solo. Soltanto Robin, un giorno, gli manifesta la sua vicinanza: “È tutto così pazzesco. Non possiamo andare avanti così”. Ma è un caso isolato e lontano dalle telecamere, praticamente come se non fosse successo nulla. La realtà è che Bassons è circondato da nemici (nemici, non avversari) e non ha nessun amico sul quale contare.
Persino i suoi compagni di squadra lo guardano in cagnesco. A Saint-Étienne, sede d’arrivo dell’undicesima tappa, Bassons sta rilasciando delle dichiarazioni ad una televisione francese quando alle sue spalle passa un suo compagno che gli urla: “Stai attento a quello che dici!”. Marc Madiot, il suo direttore sportivo, gli consiglia di rilasciare meno interviste e di concentrarsi di più sulla corsa.
Poi, nella decima tappa tra Sestriere e l’Alpe d’Huez, si muove Armstrong in prima persona. Il gruppo si era messo d’accordo per pedalare con relativa tranquillità la prima parte della tappa. Tutti ne erano al corrente tranne Bassons, informato in via del tutto confidenziale da uno dei meccanici della FDJ. Repellente ai diktat del gruppo, Bassons si butta all’attacco fin da subito. Dopo una manciata di pedalate, tuttavia, è costretto a rialzarsi: il gruppo, compatto e feroce come non mai, si è organizzato per riprenderlo, come se Bassons fosse il corridore più pericoloso e temuto. Per certi versi lo è e il plotone lo teme.
Armstrong non prende Bassons da parte. Gli appoggia una mano sulla spalla e comincia a bombardarlo di domande davanti a tutti gli altri, cosicché essi possano capire chi è comanda. “Perché stai dicendo tutte quelle brutte cose sui tuoi compagni e su di noi? Perché non credi nel ciclismo? E se non credi nel ciclismo, perché continui a farne parte? Perché, invece, non torni a casa?”.
Bassons è stordito. Prova a rispondere (“penso alle generazioni future”) ma senza sortire nessun effetto. Armstrong lo congeda con un “fuck you” catturato anche dai fotografi e dalle televisioni: insieme all’inseguimento ai danni di Simeoni, sono i due momenti che descrivono meglio l’arroganza, il potere e la soggezione che Armstrong spargeva, esercitava e incuteva.
Bassons si ritira due giorni più tardi: consuma la colazione in fretta e in furia dopo aver trascorso la notte in bianco e quando arriva il momento di salutare i suoi compagni, uno di loro – non s’è mai saputo chi fosse – non lo guarda nemmeno, né gli stringe la mano. Bassons cade in depressione e resta in quello stato più o meno per sei mesi.
L’aria intorno a lui, intanto, si fa sempre più ostile. Jan, un suo compagno di squadra, annuncia che la FDJ non dividerà i premi del Tour de France con Bassons “perché è un individualista che non ha mai lavorato per la squadra”; Bourguignon, che di Bassons è stato compagno di squadra in passato, conferma la tesi di Jan, affermando che “pensa solo a se stesso, non ascolta mai nessuno e fa sempre di testa sua”.
L’unica che spezza una lancia in favore di Bassons è Marie-George Buffet, all’epoca Ministro dello Sport: “Che strano”, azzarda la Buffet, “Piuttosto che combattere il doping, il ciclismo sta facendo la guerra a chi lo sta combattendo”.
Nel 2000 esce Positif, la sua autobiografia, e il suo nome – che tanti confondono ormai con Mr. Clean, un soprannome che allude alla sua rettitudine – figura tra i firmatari di “100 pour 2000”, un manifesto con delle regole per tornare ad uno sport più umano.
Nel 2001 si ritira dal ciclismo pedalato. Il rientro in gruppo con una piccola squadra, la Jean Delatour, si è rivelato più pericoloso del previsto. Alla Quattro Giorni di Dunkerque del 2001, infatti, Bassons denuncia insulti e spinte da parte di alcuni corridori, i quali avrebbero provato in più occasioni a farlo cadere in un fosso a bordo strada.
Nello stesso anno ottiene la qualifica per insegnare Educazione Fisica nelle scuole. In un’intervista rilasciata al The Guardian nel 2012, Bassons ha rivelato che da quando si è ritirato pensa raramente al suo passato da corridore: “Quando parlo della mia carriera, mi riferisco a quella scolastica, non a quella ciclistica”.
Armstrong e Bassons dieci anni dopo
Perché i media rispolverassero la storia di Christophe Bassons, si è dovuto aspettare un decennio. Per dieci anni, nessuno si è ricordato – o ha fatto finta di non ricordare – del corridore francese che aveva rotto il muro dell’omertà, che aveva lasciato un segno nonostante – o proprio per – il netto rifiuto al doping, che si era trovato costretto a smettere perché un ambiente malato, ipocrita e complice non contemplava la presenza di un onesto. Ironia della sorte, Bassons è tornato alla ribalta quando il doping – o meglio, l’antidoping – ha mietuto l’ennesima vittima: Lance Armstrong.
Intervistato a riguardo, Bassons ha rilasciato dichiarazioni estremamente pacate e intelligenti. Non si definiva né felice né soddisfatto, la vendetta non gli appartiene; in più, ha sempre mantenuto una lucidità invidiabile nel vivere e nell’analizzare la situazione. “Vi sembra normale che Riis faccia ancora parte del gruppo e che Jalabert parli di ciclismo in televisione, la stessa televisione che io devo pure pagare per vedere?”, chiedeva retoricamente in un’intervista concessa al The Telegraph nel 2014.
“Non ce l’ho con Armstrong per un semplice motivo: lui era soltanto la punta dell’iceberg, una vittima di un sistema più grande di lui che l’ha usato e scaricato a piacimento. A deludermi di più furono tutti quei corridori che odiavano Armstrong ma che facevano esattamente le stesse cose; persino escludere me, che lo combattevo. Molti di loro avrebbero voluto essere come Armstrong, se solo ne avessero avuto il carattere, i soldi o la possibilità”, disse al The Guardian nel 2012.
Il 6 dicembre 2013 Armstrong e Bassons si sono incontrati per la prima volta dal Tour de France 1999. Non c’era nessuna corsa in programma, soltanto loro due in un ristorante di Parigi e Le Monde – il giornale francese, non il corridore americano – a raccontare l’evento. Tra i due, quello che faceva fatica a guardare gli occhi dell’altro era proprio Armstrong. Bassons ha poi raccontato d’averlo trovato imbarazzato, provato e nervoso: prima di cominciare il racconto degli eventi, confermato praticamente in toto dal texano, Armstrong si è scolato due bicchieri di vodka continuando a ticchettare sul tavolo.
“Ecco, credo che il messaggio più importante sia proprio questo”, disse Bassons. “Se c’è qualcuno che deve pentirsi, quello è Armstrong, non io. Io non mi sono mai pentito d’aver messo a repentaglio la mia carriera e la mia incolumità: non è detto che Armstrong l’abbia fatto o lo farà, ma io oggi sono in pace con me stesso, lui no, checché se ne dica”. Alle scuse del texano, Bassons si è fatto una mezza risata: “Sai una cosa?”, gli ha risposto. “Tu e Madiot, perlomeno, siete stati gli unici due a dirmi cosa pensavate davvero di me”.
Le differenze, presunte e reali, tra Bassons e Armstrong risiedono in questo passaggio. “Sono un padre di due figli. Ho un lavoro che mi piace. Non ho rimpianti. Sono orgoglioso e ho progetti”, ha rimarcato il primo. “Ho dei figli, sono molto orgoglioso ma non ho piani”, ha scherzato – destando un bel po’ di tristezza – il secondo.
Il ruolo dei media secondo Bassons
L’ultima questione sollevata da Bassons nelle ultime stagioni è senza dubbio la più importante. Gli ci sono voluti quindici anni abbondanti per teorizzarla. “Qual è il ruolo dei media?”, si è chiesto in continuazione il francese. Beh, di sicuro non ipotizzare che un corridore sia dopato soltanto perché arrogante, forte e vincente: sentenziare senza conoscere è altamente sconsigliato. E allora indagare, studiare, seguire, partecipare, chiedersi e chiedere; e rendersi conto di quante potenzialità sono racchiuse in una penna, in una telecamera, in un microfono, in una tastiera.
E se ad essere sbagliata fosse la società in cui viviamo? Certo, è ovvio, perfino troppo scontato, e allora conviene essere più precisi. Questo è Bassons a Cyclingnews, nel 2013: “Dobbiamo lavorare sull’autostima dei giovani. Il problema non è l’EPO, perché tra qualche anno arriveranno nuove sostanze e i ciclisti si troveranno ancora una volta di fronte al fatidico bivio. Questa scelta, purtroppo, ci sarà sempre perché fare il furbo e fregare il prossimo fa parte dell’essere umano. Ogni sportivo vuole vincere ed è disposto a tutto per farlo. È proprio qui che deve intervenire l’autostima: non si deve essere disposti a tutto per vincere, così come non si deve apprezzare la propria persona soltanto quando vince”.
Un bel messaggio, ma il mondo e lo sport vanno nella direzione opposta. Come fare? “I media, dalle televisioni ai giornali, devono dare una mano nel veicolare un messaggio nuovo, inedito, diverso. Cosa succederebbe se nella prima pagina de L’Équipe, diciamo una volta a settimana o anche una volta al mese, ci finisse uno sportivo meno famoso del solito, magari perché sta combattendo una battaglia giusta o perché si è distinto al di fuori della logica del risultato? Sono convinto che tanti ragazzi cambierebbero idea sul mondo dello sport. Direbbero: allora non sono costretto a vincere o a perseguire la vittoria a tutti i costi. E poi, fatemi capire una cosa: li mandiamo alla scuola dell’obbligo, dove non devono azzardarsi a dire di no, diciamo loro d’essere normali, li facciamo partecipare a decine di rituali sociali, e poi ci stupiamo se a diciotto o vent’anni scelgono il doping? Sono totalmente impreparati ad una scelta del genere. A tutti quei ragazzi che incontro io dico questo: se tu ti fai uno spinello perché il tuo gruppo si sta facendo uno spinello, il gruppo continuerà ad esistere mentre la tua individualità scomparirà”.
Bassons è al corrente del fatto che un processo del genere richiede almeno qualche decennio? Sembrerebbe di sì. “Forse anche di più, anche cent’anni, ma per me è davvero inevitabile. Da qualche parte dovremo pur partire: un mondo del genere non è più sostenibile. In America, tra l’altro, sono molto più sensibili di noi europei. È stata Sports Illustrated, infatti, a nominarmi “sportivo dell’anno” per quanto ho detto e fatto a suo tempo, non una rivista europea. La psicologia che s’innesca è perversa. Finché la vittoria e il successo saranno i soli criteri di valutazione, chi si dopa continuerà a farlo perché è convinto d’essere sulla strada giusta, forse non si rende nemmeno conto di minare la propria salute”.
E del ciclismo contemporaneo cosa ne pensa Bassons? “Che il doping meccanico è più facile da rintracciare rispetto a quello farmacologico, che per inciso non si fermerà mai e non scomparirà mai: ci saranno sempre delle sostanze invisibili, almeno in un primo momento. Forse è cambiato qualcosa, ma poca roba: credo che la mentalità di ogni sportivo o quasi sia quella di eliminare l’ostacolo che si frappone tra sé e la vittoria, e quindi si ricorre ai permessi, ad alcune sostanze dubbie, alla negligenza in caso di positività. Il gruppo va ancora troppo forte. D’accordo il progresso, la specializzazione, l’abbigliamento e la bicicletta, ma quanto possono darti questi fattori? Davvero le performance sono aumentate grazie al loro utilizzo? O c’è dell’altro?”.
Detto questo, la notizia di una squalifica ai danni di Bassons potrebbe stonare, lo concediamo, ma è proprio quello che successe nel 2012. Il francese stava partecipando al campionato nazionale francese marathon MTB quando, ormai fuori dal vivo della corsa, decideva di ritirarsi. Mancavano venti chilometri all’arrivo. Qualche ora più tardi, quand’era già sulla via del ritorno a casa, la notizia: era stato sorteggiato per sottoporsi ai test di rito, non si è presentato e quindi si becca un anno di squalifica.
Bassons non ci stava: avrò anche sbagliato a non aspettare, ma non potevate dirmelo un po’ prima? Perché accanirsi così tanto se non ho fatto niente? Seguì una causa per danni, allora il presidente della Federciclo Francese era Lappartient, l’attuale presidente dell’UCI. All’inizio di quest’anno, la sentenza definitiva: se in primo grado la Federazione dovette versargli ventisettemila euro, dopo l’appello e la seconda condanna gli euro sono diventati poco più di trentatremila. Giustizia è fatta, una volta tanto. Se c’è un corridore che non va squalificato, bensì ascoltato, spalleggiato e applaudito, è proprio Christophe Bassons.
Foto in evidenza: ©Yann Castanier, Twitter