La vita dietro alla carriera, la tragica intimità d’un ciclista professionista.

 

 

 

David Zabriskie partecipa al Giro di Lombardia 2013 con una sola certezza: non arriverà al traguardo, si fermerà prima. Ai giornalisti americani che lo circondano alla partenza di Bergamo, Zabriskie conferma che quella sarebbe stata la sua ultima corsa tra i professionisti. L’età comincia a pesargli; e poi i suoi trentaquattro anni sono stati particolarmente densi. La stagione precedente si era chiusa in malo modo: insieme a Hincapie, Vande Velde e Danielson era stato fermato per sei mesi in virtù del coinvolgimento nel sistema messo in piedi da Lance Armstrong ai tempi della US Postal; la squalifica decorreva dal primo settembre, dunque anche i primi mesi del 2013 ne stavano risentendo.

Tra una caduta e un acciacco, Zabriskie aveva fatto parte della Garmin Sharp che nella cronosquadre mondiale di Firenze chiuse all’ottavo posto: quel giorno, uno dei suoi compagni era Christian Vande Velde, un collega col quale Zabriskie ha condiviso una porzione importante della sua esistenza; al termine della prova, Vande Velde annunciò il ritiro. Zabriskie capì che era arrivato anche il suo momento. Scelse la domenica successiva al Mondiale fiorentino, quella appunto in cui si correva il Giro di Lombardia. Il cielo era grigio, l’aria ormai irrimediabilmente pungente. “Niente dura per sempre”, sorrise Zabriskie rivolto alla stampa americana, “nemmeno la pioggia fitta e fredda di Novembre”. Fedele alla promessa fatta, si sarebbe ritirato poco più avanti. Smettere è una scelta con la quale David Zabriskie ha dovuto confrontarsi spesso nell’arco della sua vita.

©McSmit, Wikimedia Commons

Il giorno in cui disse basta ai soprusi del padre, ad esempio, se lo ricorderà finché campa. Suo padre, Michael, passava le giornate nel seminterrato stordito dalla droga e dall’alcool. Spacciava sin da giovane, da quando mollò la scuola per provvedere alla famiglia. Era un uomo pericoloso: alzava spesso le mani e gli altri, per non buscarle, dovevano chiudersi nella prima stanza a disposizione. Per garantire loro un minimo d’umanità, Sheree – la madre – portava David e i fratelli al cinema, o in campeggio, passando la notte in albergo per lasciare che il marito sbollisse la rabbia e la sbornia.

Il giorno in cui Zabriskie si ribellò, il padre stava disturbando una sua chiamata col telefono del seminterrato: vivendo il ciclismo come l’unica fonte di tranquillità e soddisfazione, David non accettava che suo padre si frapponesse tra lui e un’importante trasferta da programmare. Sfondò la porta a calci, aggredì suo padre e gli strappò il telefono di mano. Michael Zabriskie morì pochi mesi più tardi senza che il figlio si fosse pentito e riavvicinato. Il giorno dei funerali, David era in Europa: corse il Gran Premio delle Nazioni, classica prova contro il tempo di fine stagione, e lo vinse, centrando così la prima affermazione europea. Tra i professionisti trionfò Lance Armstrong.

David Zabriskie amava andare in bicicletta perché questa, se maneggiata a dovere, riusciva a portarlo lontano da casa per diverse ore. A forza di pedalare, Zabriskie si rese conto che si allontanava sempre più e che il viaggio di ritorno gli costava una fatica tutto sommato esigua. Era pronto per frequentare un gruppo sportivo. Al primo incontro del Rocky Mountain Cycling Club arrivò con un’ora d’anticipo; il sellino della sua mountain bike era troppo basso, in più non aveva nemmeno un sorso d’acqua con sé: si era portato dietro solo un pacchetto di chewing gum, e ovviamente non gli servirono a niente quando la crisi si presentò. Portò a termine i cento chilometri in programma soltanto grazie all’incitamento dei suoi nuovi compagni. Tornato a casa, gustò il senso di benessere che lascia l’attività fisica. Del ciclismo sapeva solo una cosa: che il Tour de France era la corsa più importante. Sdraiato sul suo letto, riconobbe a se stesso che il primo passo verso il Tour de France era stato fatto.

Una livrea che omaggia Capitan America, uno degli eroi dell’infanzia di David Zabriskie. ©Georges Ménager, Flickr

Essendo alto e magro, Zabriskie impiegò poco tempo a prendere le misure. Nel giro di qualche anno era già stabilmente nel giro della Nazionale, talmente sicuro del suo avvenire da abbandonare gli studi per dedicarsi interamente al ciclismo. Subito dopo aver conquistato il Gran Premio delle Nazioni riservato ai dilettanti, venne avvicinato da Johan Bruyneel; al belga fu sufficiente presentarsi per ricevere il sì di Zabriskie: la US Postal Service sarebbe stata la sua nuova squadra a partire dal 2001. Lance Armstrong era scettico a riguardo. Aveva avuto modo di pedalare con Zabriskie e non gli suscitò impressioni positive. Lo giudicava strano.

Bruyneel non ebbe dubbi: il ragazzo è tranquillo, nel senso che non parlerà con nessuno di quanto succede nella squadra. Bruyneel si sbagliava. Come sottolinea Juliet Macur nel suo “The fall”, “Messo sotto pressione, David era incapace di tenere un segreto”. Gli successe, ad esempio, quando la polizia fece irruzione a casa sua per arrestare suo padre: non appena gli chiesero se per caso fosse a conoscenza di denaro nascosto da qualche parte, Zabriskie rivelò tutto. Accadrà anche col caso Armstrong: parlerà. E Armstrong ha ragione: David Zabriskie è un tipo davvero strano.

Un occhio verde e uno azzurro, la collezione di statuette di supereroi, le teorie della cospirazione, la correlazione tra il cellulare e il cancro: David Zabriskie non è mai stato convenzionale. E infatti rimaneva emarginato. Abitava a Salt Lake City, una città di mormoni, pur non essendolo; i suoi compagni di classe gli ricordavano sempre che sarebbe finito all’inferno. Per non parlare dei balli scolastici: mai andato, tanto non se ne sarebbe accorto nessuno.

Era normale che, una volta entrato nella US Postal, gli avrebbero messo accanto un altro tipo strano, almeno tanto quanto lui: Floyd Landis. Condividono lo stesso appartamento e la convivenza avrà diversi momenti difficili. Zabriskie sta bene anche nel silenzio, gli piace avere del tempo a disposizione per riflettere; in quel momento, al contrario, Landis è più irrequieto e lunatico del solito: è depresso.

Un giorno minaccia di togliersi la vita gettandosi dal primo piano: magari non sarebbe successo nulla di irreparabile, ma con qualche buona parola Zabriskie lo riporta dentro. Armstrong non vede di buon occhio i compagni: non sono professionali, affidabili, ambiziosi. La squadra non sa come comportarsi quando viene a sapere che tra Landis e Zabriskie c’è stata una gara a chi beveva più cappuccini: se il secondo si è fermato a cinque, Landis è arrivato a consumarne tredici consecutivi.

©Ken C, Flickr

Poi, un giorno all’apparenza normale, Bruyneel e del Moral, il medico della squadra, propongono a Zabriskie e Barry di passare definitivamente alla cura che sta facendo le fortune della US Postal. Zabriskie rimane scioccato: lui, che dalle droghe si era sempre tenuto distante e che amava il ciclismo proprio perché permetteva di eccellere senza percorrere scorciatoie. In un primo momento, tergiversa: chiede se gli cresceranno le orecchie, se potrà avere figli, se nasceranno sani.

Bruyneel ride ma le domande non sono così sbagliate: Matt White, uno dei membri della US Postal, gli ha rivelato che a forza di prendere ormone della crescita gli sono cresciuti i piedi di qualche taglia. Ad un certo punto, Bruyneel fa capire ai due che non sta scherzando: questo è quanto, prendere o lasciare. Zabriskie, ferito e stordito, accetta seguendo l’esempio di Barry. In un appartamento di Girona poco distante dal bar in cui è avvenuto il confronto, del Moral inietta dell’Epo nei corpi di Zabriskie e Barry. È il maggio del 2003, Zabriskie proverà sulla sua pelle che la prima volta non si scorda mai. Più tardi, sconvolto sul pavimento del suo appartamento, Zabriskie chiamerà sua madre raccontandogli quanto successo. “Mi sono drogato”, gli sussurrò in lacrime. “Sono diventato come papà”.

La traiettoria umana che lui stesso ha contribuito a tratteggiare non deve tuttavia offuscare la sua carriera ciclistica. David Zabriskie è stato un ottimo corridore, uno dei passisti più forti del primo decennio degli anni duemila. Tra il 2004 e il 2010, in ben quattro occasioni ha chiuso tra i primi otto della prova a cronometro dei campionati del mondo: ottavo nel 2010, quinto nel 2004, terzo nel 2008 e secondo nel 2006; in più, è stato per sette volte il campione americano nelle prove contro il tempo.

Prima che anche Tyler Farrar lo eguagliasse, David Zabriskie è stato il primo corridore americano nella storia del ciclismo a centrare almeno una vittoria di tappa in ognuna delle tre grandi corse a tappe: nel 2004 conquistò una frazione in linea alla Vuelta, nel 2005 invece dominò la cronometro di Firenze al Giro d’Italia per poi bissare nella prima tappa del Tour de France, quando vestì di giallo avendo anticipato Armstrong per soli due secondi.

Nel 2005, Zabriskie era già passato alla CSC di Ivan Basso e Bjarne Riis: l’ultima esperienza col doping risale a quei giorni. Un anno più tardi, essendosi tenuto in contatto con Landis – diventato il capitano della Phonak -, Zabriskie viene a sapere dallo stesso che proverà a vincere il Tour de France: non è mai stato meglio, le sostanze che si inietta lo fanno sentire un leone e Armstrong si è ormai ritirato. Consapevole dell’importante ruolo che dovrà svolgere per Basso, Zabriskie cede un’altra volta alle promesse della chimica.

L’Operación Puerto che scoppia di lì a qualche giorno sbaraglia i concorrenti più agguerriti di Landis, che con un’impresa verso Morzine ribalta le sorti di un Tour de France che sembrava ormai sfuggitogli di mano. Un’impresa disumana, infatti: che non apparteneva ad un essere umano normale. Quando i risultati dei prelievi inchioderanno Landis, Zabriskie è sdraiato nella vasca da bagno di uno dei tanti alberghi, tutti comodi e tutti ovattati, nei quali alloggia durante l’anno: quando gli verrà comunicata la positività dell’amico, affogherà le lacrime nelle bolle di sapone.

In maglia gialla al Tour of California 2010. ©Jean Pickard, Flickr

Ci sarebbero da segnalare altre due vittorie al Delfinato e al California e una al Romandia, ma tutto passa in secondo piano se i risultati appartengono a David Zabriskie. Le sue confessioni non salderanno il conto col passato, ma perlomeno ha fatto la sua parte:

“Spero soltanto che un giovane non debba trovarsi davanti alle scelte che sono state proposte a me”, dichiarò alla stampa.

Un merito gli va riconosciuto: quello di aver passato i sei mesi di squalifica in solitudine, senza lamentarsi né farsi vedere; non come Tom Danielson, che presenta il suo libro di città in città, e nemmeno come Michael Barry, impegnato a redigere articoli nei quali spiega che per ripulire il mondo del ciclismo basterebbero cinque minuti.

Ai giornalisti che glielo chiedono, Zabriskie risponde che la sua carriera è finita sostanzialmente nel 2003. Certo, non scorda le vittorie e le corse importanti: ma il 2003 è l’anno in cui scoprì il doping, l’anno in cui venne investito da un auto poche settimane dopo aver parlato con Bruyneel e del Moral in quel bar di Girona. La vita di Zabriskie procede tranquilla: si dedica alla famiglia, all’azienda che produce cannabis e derivati aperta con Landis, al gravel, lo spicchio di ciclismo che ora come ora lo attrae maggiormente. Nonostante non venga più pagato per farlo, David Zabriskie si riscopre a pedalare spesso e volentieri, quasi spaventato dalla puntualità con la quale sale in bicicletta ed esce di casa. Dice che non ha mai amato la sua esistenza così tanto, che non essere più un professionista è una liberazione, ma che al ciclismo, malgrado tutto, non riesce proprio a rinunciare.

 

 

Foto in evidenza: ©Frank Steele, Flickr

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.