Con la vittoria della Roubaix, O’Grady è diventato una leggenda australiana.

 

 

Non è facile nominare tanti atleti che, solo poche settimane prima di spegnere quaranta candeline, decidono di abbandonare l’attività agonistica. Senza dubbio la longevità sportiva ha registrato un allungamento delle carriere: non sono più i fatidici trentacinque anni a segnare lo spartiacque, in particolar modo in uno sport come il ciclismo, dove il prime della propria carriera viene raggiunto relativamente tardi rispetto ad altri sport. Nonostante ciò, arrivare a quarant’anni ed essere ancora un professionista è uno status che riescono a raggiungere in pochi. Stuart O’Grady è uno di questi.

Il ciclista australiano non aveva tanto altro da dimostrare. Una corona da trenta vittorie in carriera sarebbe comunque stata sufficiente per certificare il suo impatto sul movimento aussie, con la gemma a forma di ciottolo incastonata al centro in memoria della storica vittoria della Parigi-Roubaix 2007, unico extraeuropeo a riuscirci fino a quel momento (nove anni dopo verrà eguagliato dal connazionale Mathew Hayman).

©Cyclingnews.com, Twitter

Forse sarebbe arrivato alla fine della stagione, forse ne avrebbe corsa ancora un’altra. Il ritiro di Stuart O’Grady, per quanto tardivo, rimane la conseguenza di un errore vecchio di quindici anni e di un’indagine portata avanti dal Senato francese all’interno della quale c’era anche il suo nome.

Alla fine del Tour de France 2013 – che O’Grady, in maglia Orica GreenEDGE, chiuse al centosessantunesimo posto -, il nativo di Adelaide appese la bicicletta al chiodo e confessò l’uso di sostanze dopanti: EPO, per la precisione, per cinque o sei volte durante le due settimane antecedenti all’inizio del Tour de France 1998. Le ragioni sono piuttosto semplici, e allo stesso tempo piuttosto complesse.

O’Grady inizia la sua carriera ciclistica durante gli anni dell’università. Al St. Paul’s College di Adelaide si specializza nel ciclismo su pista, partecipa alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 e si porta a casa la sua prima medaglia: un argento nell’inseguimento a squadre. Tre anni dopo passa professionista con la GAN, poi diventata Crédit Agricole. Nel 1996, alle Olimpiadi di Atlanta, si conferma sul podio con la squadra australiana – bronzo – e si porta a casa il bronzo anche nella corsa a punti. Il profilo è quello di un pistard che ha tutte le caratteristiche per andare molto forte anche su strada.

Cominciano ad arrivare i primi successi e nel 1997 la squadra lo ritiene pronto per farlo debuttare al Tour de France. Esperienza che, limitandoci alle prestazioni, è più che positiva, con l’australiano capace di chiudere una tappa al secondo posto e una all’ottavo, lasciando intravedere sufficienti qualità da finisseur per guadagnarsi un posto nell’élite del ciclismo mondiale. Il punto di vista di O’Grady, tuttavia, è leggermente diverso: «Ho sofferto come un cane; però ci sono riuscito, sono arrivato a Parigi. Nel 1998 immagino che fossi spaventato dal fallimento, dall’andare incontro alla stessa sofferenza patita un anno prima. Ero un po’ insicuro, avrei avuto bisogno di un po’ di supporto, e ho preso una pessima decisione».

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Nel 1998 O’Grady vincerà la sua prima tappa alla Grande Boucle, indossando per tre giorni la maglia gialla. In poche parole, capirà in un attimo che c’è una strada, per quanto immorale e tenebrosa, più facile e più remunerativa delle altre. Capirà anche che quella strada non fa per lui, e non è un esercizio di autoconsapevolezza così banale.

Quando si parla di doping è difficile che il primo nome a venire in mente sia quello di O’Grady. La sua è comunque una storia minore, eppure è una di quelle più profonde. Diventare un ciclista professionista è una scelta di vita che non sempre paga e quasi subito ci si accorge che, per quanto possano esserci gioia e amore nello sport che si pratica, si è scelto uno sport che per sua natura spinge l’essere umano ai limiti della sopportazione della fatica. Nelle corse di tre settimane, questa caratteristica viene accentuata ulteriormente; ma i limiti esistono per un motivo, sono dei campanelli d’allarme, aiutano il corpo e la mente a capire che, forse, non è il caso di andare ancora più in là. Forse va bene così, non ci dovrebbe (condizionale) essere vergogna nella sconfitta. Di sconfitta, però, così come di umanità, di fragilità, di pressione e di aspettative, si fa ancora molta fatica a parlare proprio perché lo sport, per sua natura, vive di assoluti. Chi arriva secondo ha perso, chi arriva ultimo è oggettivamente il meno forte, chi arriva primo è oggettivamente il più forte.

La realtà, ovviamente, è molto più sfumata di così, ma per comprenderlo serve un lavoro sull’atleta che lo stesso O’Grady auspica in un futuro: gli atleti più anziani, gli ex atleti, gli allenatori, tutti dovrebbero sforzarsi per capire che se un ragazzo o una ragazza perdono, c’è bisogno che qualcuno dica loro che va bene così, che lo sport dà sempre una seconda chance, che nessuno avrà da ridire se vorranno piangere o spaccare una sedia al muro, purché ci sia una comprensione delle motivazioni dietro a queste reazioni.

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O’Grady si è dopato, ha capito di aver sbagliato, si è vergognato per quindici anni e poi ha vuotato il sacco, ricevendo ovviamente messaggi di sostegno – pochi – e messaggi d’odio – tanti. Il ragazzo di Adelaide, nel frattempo, continuava a macinare risultati: nel 2003 sfiora il colpaccio al Giro delle Fiandre; nel 2004 passa alla Cofidis e arriva terzo alla Milano-Sanremo, una corsa che gli piace tanto e che si sposa a meraviglia con le sue caratteristiche, ma che non riuscirà mai a vincere – quarto nel 2005, quinto nel 2007.

Il 2004 è l’anno della consacrazione: vince una tappa al Giro del Delfinato, con tanto di classifica a punti, e una al Tour de France. Arriva tirato a lucido per le Olimpiadi di Atene: nella prova su strada non brilla, ma in pista, insieme al compagno Graeme Brown, conquista l’oro nell’Americana, confermando l’Australia tra le potenze mondiali del ciclismo su pista. Il 2004 e il 2005 sono anche gli anni in cui la Cofidis lo convince a spendere delle energie nella preparazione e nel perfezionamento delle classiche sul pavé. O’Grady è molto attratto da quelle gare. Diventeranno la sua specialità e la CSC, nel 2006, lo affianca a Fabian Cancellara, il più grande interprete delle pietre degli ultimi quindici anni – insieme a Tom Boonen, ovviamente.

In effetti, dopo aver vinto la Parigi-Roubaix del 2006, Cancellara era il favorito numero uno anche per il 2007. La CSC era costruita intorno a lui, ma la forma dei corridori, si sa, non è una scienza esatta. O’Grady si inserisce nella fuga del mattino, buca sul tratto della foresta di Arenberg, si incolla al suo capitano, ricuce il distacco con i corridori di testa, cade in un tratto successivo sul pavé e ricomincia a lavorare per Cancellara; finché a venticinque chilometri dall’arrivo è chiaro che O’Grady sta troppo bene per tenerlo incatenato a ordini di squadra.

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La progressione dell’australiano è perentoria: in breve i secondi di distacco dal gruppetto dei primi inseguitori iniziano a crescere. L’azione di O’Grady non accenna a spegnersi; Flecha e Boonen non hanno a disposizione una squadra come la CSC e durante la giornata hanno dovuto spendere troppe energie. Lo spagnolo della Rabobank chiuderà con quasi un minuto di distacco dal vincitore, che porta a casa il trionfo più importante della sua carriera.

Sarà, in tutto e per tutto, il suo canto del cigno. Dopo quella Roubaix vincerà appena altre tre gare: tutte corse minori, tutte in Australia, dove ormai era diventato una specie di eroe nazionale, capace di portare il ciclismo australiano – insieme a Cadel Evans – a un altro livello di visibilità e di appeal.

Sarebbe un bel lieto fine se la parabola a cinque cerchi si fosse chiusa a Londra: la scoperta di un talento alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 e il saluto di un grande corridore vent’anni dopo, tra la folla di Victoria Park. Gli inglesi avevano pensato un tracciato perfetto per le caratteristiche di Cavendish, ma come ogni volta che gli inglesi studiano qualcosa nei minimi dettagli, finisce sempre che vincono gli altri.

O’Grady si infila nel gruppetto giusto, un gruppetto nel quale forse è anche il più veloce dopo Kristoff, ma l’alloro olimpico deciderà di osannare un’altra storia legata a vicende di doping: quella di Alexandre Vinokurov. Per l’australiano c’è il sesto posto e la convinzione di andare avanti. Nonostante il 2013 certifichi uno stato di forma perfettamente in linea con la sua carta d’identità – quindi molto scarso -, O’Grady sarebbe andato avanti se dopo il Tour de France non fosse scattata l’indagine.

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Sarebbe stato bello vederlo continuare a pedalare, arrivare nelle ultime posizioni solo per dimostrare che esisteranno sempre delle scorciatoie, ma che c’è una forma di rispetto e di onore nell’intraprendere un percorso di redenzione potenzialmente infinito. Magari qualcuno glielo avrebbe chiesto, perché continuasse a logorarsi su quelle strade nonostante la competitività fosse solo un pallido ricordo. Magari O’Grady avrebbe anche risposto che essere un esempio, un mentore silente, ha una valenza infinita per chi di esempi e di mentori ne avrebbe tanto voluti avere.

Magari una delle strategie migliori per combattere il doping potrebbe essere proprio quella di chiedere a chi ci è passato, non in cerca della storia scandalistica ma di quella umana, della persona che si cela dietro a certe scelte, del sistema che decide di tacere finché il marcio non straborda. Magari loro sbaglieranno, ma di certo la redenzione non passa dalla vergogna. Quella viene prima, e forse O’Grady è stato solo più bravo a interiorizzarla e a ribaltarla a suo favore; tenendo un punto, provando qualcosa.

 

 

Foto in evidenza: ©Sports Illustrated