Quello del ciclista rimane il miglior mestiere al mondo, sostiene Peter Stetina.

 

Dopo aver visto le immagini di Chris Froome a piedi sul Mont Ventoux, Peter Stetina scagliò sul tifo parole pesanti come massi e taglienti come pietre. Non disse nulla di trascendentale, beninteso. Quantomeno fu un segnale: che i corridori hanno ancora qualcosa da dire, che hanno anche una bocca e non solo due gambe, che ogni tanto collegano pancia e voce senza che nessun addetto stampa possa filtrare, tamponare, impoverire.

Stetina chiese in sostanza cosa portava così tante persone a vestirsi da deficienti, a comportarsi da buffoni: più che per la corsa, sembravano lì per le telecamere. Quello della sicurezza in strada è un tema serio: Stetina non ammette superficialità.

L’americano dà di sé una definizione insolita: uno dei corridori più sicuri del gruppo. Non forza, non rischia, non aspetta l’ultimo momento per trovarsi dove il buon senso e l’andamento della corsa suggeriscono. Tutto questo non bastò nelle battute finali della prima tappa dei Paesi Baschi 2015. Due paletti di ferro, inspiegabilmente non rimossi o comunque non debitamente segnalati, fecero schizzare in aria alcuni atleti. Stetina ebbe la peggio: frattura di tibia, rotula e quattro costole. Provò a rialzarsi ma il suo direttore sportivo, bianco in volto e con le lacrime agli occhi, gli disse di rimanere giù, di non guardare, che si sarebbe risolto tutto.

Non era mai stato in ospedale: nemmeno un incidente. Conobbe la paura, pensava che rimettersi in sesto per poter giocare al parco coi figli sarebbe stato davvero magnifico. Tornò al Tour of Utah quattro mesi più tardi. La prima tappa venne affrontata sotto un diluvio che non dette tregua: Stetina apprezzò ogni singola goccia.

Non avrebbe mai pensato di godere dell’acqua piovana, specie se copiosa. Fino a poco tempo prima gli rievocava brutti ricordi. Come in un incubo, Stetina riviveva quel terribile settembre del 2013: l’alluvione che mise in ginocchio il Colorado e che violò anche l’abitazione del corridore e negli stessi giorni l’incidente che coinvolse il padre, Dale, una leggenda del ciclismo americano. Un automobilista distratto lo travolse, l’uomo finì in coma e ancora oggi deve smaltire i danni riportati. E non è detto che in fondo al tunnel ci sia una luce.

Quando Stetina si presentò ai Campionati del Mondo di Firenze lasciò di stucco l’ambiente:

“Si tratta soltanto di superare settembre, poi ottobre, poi novembre. E così via. Un passo alla volta e tutto andrò meglio”, spiegò.

Nonostante queste peripezie, alle quali va aggiunto l’Epstein-Barr, virus che lo ha indebolito e infastidito per gran parte del 2018, per Stetina pedalare è ancora il miglior lavoro al mondo. Lui stesso ha usato queste parole descrivendo a Cyclingnews l’ultimo periodo della sua vita: stava cercando un impiego, dato che la Trek non gli aveva rinnovato il contratto e nessun’altra squadra si era fatta avanti. In testa una bozza di progetto per il futuro, nel cuore la tristezza di dover dire addio così.

Poi Iván Sosa, al termine di un infinito tira e molla, ha tradito l’impegno preso con la Trek per approdare al Team Sky. Il posto liberato dal colombiano se l’è preso Stetina, che raggiante ha affermato di voler cogliere qualsiasi occasione che la strada gli offrirà.

Un ciclista felice è un ciclista veloce, ha chiosato.

Se ci fosse stata almeno un’incognita avremmo potuto definirla un’equazione niente male: invece di incognite nemmeno l’ombra.

 

Foto in evidenza: @Trek-Segafredo, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.