La preziosissima storia di Alfonsina Strada, pioniera femminile del ciclismo mondiale.

 

 

Siamo sicuri che Alfonsina Strada sarebbe stata una delle più fiere avversatrici dell’idea insita nella legislazione a favore delle quote rosa. E non perché non credesse nell’emancipazione femminile o alla parità di genere, tutt’altro. Alfonsina Strada credeva a questo dovere morale in misura sicuramente maggiore rispetto a chi è convinto di poter ridurre la questione a una quota dettata legislativamente, affinché anche le donne abbiano un ruolo, e conseguenzialmente un potere, in qualunque campo della società. Quello in cui non credeva Alfonsina Strada, e se non lo testimoniano le sue parole lo testimonia senza dubbio la sua carriera, è l’idea sulla quale poggia questo apparentemente fiero assunto.

Già, perché chi ritiene di dover provvedere per conto di altri a una faccenda, in particolare a faccende complesse come quelle riguardanti i diritti, sotto sotto ritiene che il soggetto considerato non possa ottemperare da solo alla difesa delle proprie prerogative e dei propri ruoli. Di più, il provvedere ad altri è spesso etichettato, se non nelle leggi quantomeno nel dibattito pubblico, come una concessione.

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Alfonsina Strada, per storia e vita personale, sapeva bene che le donne non hanno bisogno di concessioni, quasi fossero minus habens, per perseguire e conseguire i propri traguardi. Sapeva che le donne non hanno bisogno di altro, se non di un mondo meno a misura di uomo che consenta loro di dimostrare capacità e meriti, essendo poi valutate al pari dei colleghi uomini. Perché dev’essere il merito a far fare strada alle donne, sfidando ogni barriera che altro non è se non ignoranza. Un qualcosa che si potrà ottenere solo con un netto cambio di mentalità, che sembra quasi assurdo rendere legge – pur riconoscendo i benefici che una tale delegificazione ha senza dubbio portato nella nostra società – in quanto intacca il valore, l’essenza, tanto degli uomini quanto delle donne: i primi esseri presuntuosi che nella loro vanagloria ritengono di dover provvedere alle concessioni nei confronti delle donne; le seconde incapaci di far valere un proprio diritto e perciò bisognose dell’intervento di un uomo a difesa.

Ecco perché Alfonsina Strada sarebbe stata contraria alle quote rosa: perché c’è ben poco di più maschilista di un tentativo come questo, spacciato poi per femminista. Giusto per essere certi di essere dalla parte corretta della barricata, lavandosi la coscienza.

Ma Alfonsina Morini dalla parte vantaggiosa non vi era mai stata, sin dalla nascita a Castelfranco Emilia il 16 marzo 1891, seconda dei dieci figli di Carlo Morini e Virginia Marchesini, entrambi braccianti agricoli. Donna in un tempo in cui le famiglie privilegiavano i maschi e per di più in una famiglia estremamente povera.

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I Morini non hanno quasi nulla, ma quel poco che hanno provano a condividerlo aiutando indigenti e malati di tifo e pellagra. In quel poco che possiedono arriva alla fine degli anni novanta dell’Ottocento una bicicletta che le fonti definiscono “al limite della rottamazione”: d’altronde, quello possono permettersi. È con quella che Alfonsina inizia a pedalare. La domenica dice ai genitori che va a messa, in realtà gareggia e vince. La storia si ripete per diversi mesi, sino a che la madre, scoprendola, pone una condizione: la famiglia non intende sostenerla in questa passione; se vuole correre deve sposarsi e guadagnarsi da sola il denaro necessario.

Passano quasi quindici anni da quel giorno al matrimonio con Luigi Strada, meccanico e cesellatore milanese che diverrà il primo manager della ragazza, che come regalo di nozze chiese e ottenne una bicicletta. Strada diventerà il cognome di Alfonsina Morini, ma in fondo era già prima sostanza di vita per lei: la convinzione che solo la strada, reale o figurata, avrebbe potuto darle la forza per prendersi ciò che voleva, per opporsi all’odore di stantio delle convenzioni del periodo che le diede i natali. Per questo ancor prima del matrimonio si era spostata a Torino, città dov’era stata fondata l’Unione Velocipedistica Italiana, dove le donne potevano praticare ciclismo senza le malelingue della gente.

È nell’ambiente della città piemontese che inizia a porre le basi della futura carriera: riesce a sconfiggere la nota collega Giuseppina Carignano e forte del titolo di miglior ciclista italiana, dopo aver segnato il record mondiale di velocità in una gara femminile, parte per la Russia, per San Pietroburgo, dove arriverà ad essere premiata anche dallo Zar Nicola ll. Da lì, in Francia a gareggiare su pista dopo la segnalazione di Fabio Orlandini, de “La Gazzetta dello Sport“.

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Non a caso per indicare l’ariosità delle menti si evocano spazi aperti: basta un varco di possibilità in mezzo a tante serrature che blindano la ragione per destare un segno. La Strada, probabilmente, ha per indole la capacità di cogliere quel varco e di inserirvisi, e come il più scaltro dei velocisti riesce a zigzagare tra le ruote dei rivali. Ciò che c’è non è definitivo, almeno sino a che gli uomini e le donne non si arrendono all’evidenza che quella sia l’unica possibilità. Per esempio alla condizione tacita, nemmeno posta per legge, che una donna non avrebbe potuto partecipare a una corsa ciclistica prettamente maschile.

Nel 1917 una ragazza si presenta alla sede centrale della redazione de “La Gazzetta dello Sport” chiedendo di parlare con Armando Cougnet, il patron delle gare organizzate dal medesimo giornale. La richiesta è chiara: partecipare al Giro di Lombardia. Quella ragazza è proprio la ventiseienne emiliana Alfonsina Morini Strada. Il sì arriva in poche ore. Strada, il 4 novembre del 1917, arriverà ultima a più di un’ora e mezzo dal vincitore, Thys. Comunque arriva, il traguardo lo taglia, qualcosa vorrà pur dire. Altri non hanno la stessa tenacia, eppure sono uomini. Una sorta di rivincita contro i pregiudizi, contro coloro che non smettono di bisbigliare commenti al vetriolo. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. E non servono repliche, che pur Alfonsina Strada concede, ripetendo una simile impresa al Giro di Lombardia dell’anno seguente.

La povertà è assassina in quegli anni: nega il benessere economico a chi ha la salute e a taluni nega anche la salute. Sono gli anni della guerra. Luigi Strada, il consorte, sta male, viene ricoverato al manicomio di San Colombano al Lambro con poche possibilità di essere dimesso. Alfonsina Strada deve mantenere la famiglia. La aiuta il lavoro da sarta che pratica da anni, ma non basta. Potrebbe pensare di mollare il ciclismo, come del resto le aveva suggerito la madre sin da ragazzina, come suggerirebbero le voci intorno a lei, per cercare un lavoro maggiormente redditizio; non lo fa.

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Non esistono cospirazioni: esistono forza di volontà e resistenza tanto alla fatica della pedivella, per lei che è “regina della pedivella”, quanto a quella, ben maggiore, della vita. Ed il mezzo per resistere alla seconda Alfonsina Strada lo aveva scelto quando a disposizione aveva poco più che un rottame, e non lo avrebbe di certo cambiato ora. Quel mezzo era la bicicletta. E il fatto che tutto sembrava portare altrove era il motivo principe per cui tornare lì, sulla sella.

Nel 1924 Strada presenta per l’ennesima volta la richiesta di partecipare al Giro d’Italia maschile, autorizzazione sempre negatale fino ad allora. Se la richiesta quell’anno viene accettata non è certo per uno slancio di benevolenza o una particolare attenzione alla questione femminile da parte degli organizzatori. La questione è molto più pragmatica. Anche il Giro è in crisi: i grandi nomi richiedono ingaggi maggiori per la partecipazione e al rifiuto degli organizzatori decidono di disertare la corsa che a poche settimane dal via si ritrova orfana, fra gli altri, di Brunero, Girardengo e Bottecchia. Non solo: diversi organizzatori sono contrari alla partecipazione della Strada; temono che questa scelta possa caratterizzare la corsa rosa come una pagliacciata.

Il clima è caratterizzato da un mutismo ai limiti dell’omertà. I giornali, nell’elenco degli iscritti, non riportano il corretto nome di Alfonsina Strada: qualcuno parla di Alfonsin Strada, qualcuno muta la a in o e al numero 72 dell’edizione 1924 assegna il nome di Alfonsino Strada. Scelte che non fanno onore all’informazione, ma che rispecchiano perfettamente il clima e la mentalità di quegli anni. Quelli contro cui Alfonsina Strada, per scelta e necessità, si trovò a combattere.

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Tuttavia, sarà la novità o sarà che la gente assomiglia spesso alla bandiera che oscilla al vento, pronta a cambiare o a rinnegare idea in cambio di qualche sorpresa, fatto sta che Alfonsina Strada è la vera attrazione del Giro d’Italia. Gli stessi che avevano sollevato dubbi e risate attendono l’arrivo della Strada al traguardo per donare fiori e denaro, sicuramente per applaudire e ricevere qualche cartolina autografata. L’evento è storico: non succederà mai più e quelle cartoline, ad oggi, sono intrise di tutto il potenziale cambiamento che quella partecipazione al Giro propiziò.

Una competizione sofferta: 3.613 chilometri, dodici tappe, undici giorni di riposo, centootto gli iscritti ma solo novanta partenti. La partenza è già in salita per l’emiliana: più di due ore accumulate solo nella prima frazione a Genova, altrettante nella seconda a Firenze; ma non conta. Proprio “La Gazzetta dello Sport” scriverà: “Alfonsina non contende la palma a nessuno, vuole solo dimostrare che anche il sesso debole può compiere quello che compie il sesso forte. Che sia un’avanguardista del femminismo che dà prova della sua capacità di reclamare più forte il diritto al voto amministrativo e politico?”.

La grande e la piccola storia si fondono nelle pedalate della Morini-Strada: correre per combattere il pregiudizio e, combattendo il pregiudizio, riuscire a trovare i soldi per pagare la retta del manicomio in cui è ricoverato il marito. Qualunque cifra le venisse consegnata, l’operazione era di una meccanica commovente: immediato vaglia telegrafico a favore del marito. La gara di Alfonsina Strada si protrae per otto tappe: a Perugia, anche a causa di cadute ed incidenti meccanici (in una frazione era arrivata al traguardo con un manico di scopa al posto del manubrio) arriva fuori tempo massimo.

Il Comune di Milano le ha dedicato una via. ©Comune di Milano, Twitter

La scelta degli organizzatori è difficile: salvare Alfonsina Strada e mantenerla in gara tanto in virtù dei motivi che l’avevano mandata fuori tempo massimo quanto in virtù dei motivi che avevano fatto sì che la sua domanda di partecipazione venisse accettata, oppure applicare alla lettera il regolamento ed escluderla? Entrambe le soluzioni sono troppo draconiane per essere applicate; si opta per una terza via: Alfonsina Strada rimarrà in corsa, ma non in gara. Lei accetta.

All’arrivo a Fiume, distrutta, dichiarerà al “Guerin Sportivo“: “Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa, una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa dieci lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato cinquecento lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene”.

E sapere che il nome di Alfonsina Morini Strada figurerà fra i trenta nomi che concluderanno quel Giro d’Italia, sapere che lo farà senza impermeabili e cappello, con una bici ridotta in condizioni pietose, costretta persino ad indossare gli abiti prestati da un contadino al posto dell’usuale divisa nera, rende davvero concreta la considerazione che Zambaldi propose sulle pagine della rosea.

Non è utopia o semplice buonismo d’annata ritenere che la Strada corse quel Giro, al netto della motivazione economica che la spingeva ad aiutare il marito, per una ragione ben più profonda e radicata rispetto a quella sportiva e competitiva. C’era un ideale dietro quella forza inscalfibile, un ideale da bastian contraria, perché Strada aveva una parte di questa mentalità: qualunque cosa fosse resa costrizione o data per scontata e necessaria dalla società, era in realtà qualcosa contro cui combattere con l’ineluttabilità dei fatti. La stessa ineluttabilità che le valse i riconoscimenti di coloro che dapprima avevano camuffato il suo nome per un nome maschile.

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Un senso di giustizia e di riconoscenza proprio nei confronti di coloro che agli arrivi la applaudivano, le regalavano rose e orecchini, perché stimavano le istanze che portava avanti. Perché tante di quelle donne e di quelle madri, se solo avessero potuto, si sarebbero mosse in prima persona per affermare la parità tra uomo e donna. Non lo fecero in sella, lo fecero per il diritto di voto e per gli altri diritti che finalmente anche le donne hanno conseguito negli anni combattendo il sonno della ragione. Lo fecero ancora prima accettando con orgoglio di essere donne e per questo diverse dagli uomini. Non inferiori, mai. Con abilità diverse, con spirito e visione differenti. Accettando la diversità come ricchezza, non reclamando altro che la possibilità di dimostrare il loro valore di persone, nella naturalezza che ogni società che si definisce tale dovrebbe avere in sé ben prima e ben oltre i momentanei legislatori.

Senza dover chiedere permessi o quote a nessuno, perché chi deve chiedere a un legislatore superiore permessi o cifre che consentano di prendere parte alla vita di società è, in fondo, considerato inferiore dallo stesso legislatore che pretende di porlo su un piano di parità. E si sa, chi si affida alle concessioni di altri corre il rischio di perdere la propria essenza, se successivamente quelle concessioni venissero revocate. Questo non è accettabile. Per nessuno, men che meno per le donne.

Per questo Alfonsina Strada non si fermò ai rifiuti degli organizzatori tanto prima quanto dopo quel 1924. Conquistò trentasei corse battendo colleghi uomini, partecipò al primo campionato del mondo femminile, stabilì il Record dell’Ora e restò sino all’ultimo giorno di vita nel mondo delle gare, quello della Tre Valli Varesine del 1959, quando si sentì male e si spense proprio mentre riavviava la sua moto Guzzi dopo essere tornata a casa. Per questo Alfonsina Strada è ben più che una ciclista. Per questo Alfonsina Strada è una donna.

 

 

Foto in evidenza: ©Offside/Archivio Farabola

Stefano Zago

Stefano Zago

Redattore e inviato di http://www.direttaciclismo.it/