Le sirene del Tour de France rischiano di compromettere svariate carriere.

 

 

Possiamo raccontarcela finché vogliamo, ma il Tour de France continua ad essere l’appuntamento principale della stagione ciclistica: è l’evento più seguito dal pubblico e più coperto dai media, è il più prestigioso, paga meglio di qualsiasi altra corsa e si prende persino il lusso di dividere a metà la stagione – la volata sui Campi Elisi chiude la prima parte e apre la seconda.

Se tutto questo siamo in grado di percepirlo noi – addetti ai lavori, tifosi, appassionati -, figurarsi se non è chiaro agli sponsor, alle squadre e ai corridori. Partendo dal presupposto che lo sport professionistico è anche, se non soprattutto, migliorare le proprie prestazioni e porsi obiettivi sempre più grandi, si capisce quanto sia arrogante e pretestuoso criticare quei corridori che puntano fortemente sul Tour de France.

Non è una questione di incentrare la stagione su un solo obiettivo – il trionfo della tecnica e dell’efficienza – né di sacrificare tutto il resto. Il corridore che si prepara solo ed esclusivamente per il Tour de France, peraltro, ci pare una leggenda metropolitana e niente più, una realtà ingigantita e portata all’estremo.

©Équipe Cycliste Groupama-FDJ, Twitter

Persino Chris Froome e Geraint Thomas, i due ciclisti che secondo molti rappresentano meglio questa deriva moderna, hanno dimostrato a più riprese di saper vincere anche al di fuori del contesto francese: Froome, oltre ad un Giro d’Italia e a due edizioni della Vuelta, ha all’attivo successi e piazzamenti al Tour of Oman, alla Vuelta a Andalucía, alla Tirreno-Adriatico, al Romandia, al Delfinato e nelle due prove a cronometro – individuale e a squadre – dei campionati del mondo. Stesso discorso per Thomas, che in carriera ha raccolto ottimi piazzamenti anche al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix, riuscendo a primeggiare in corse come la Parigi-Nizza, Harelbeke, i campionati britannici, la Volta ao Algarve e il Tour of Alps. Di corridori irresistibili soltanto nei ventuno giorni del Tour de France, insomma, nemmeno l’ombra.

Tuttavia, ed è qui che volevamo arrivare, abbiamo l’impressione che alcuni atleti del gruppo stiano sprecando, o quantomeno che stiano dedicando, troppi anni e troppe energie alla ricerca di un’affermazione prestigiosa sulle strade del Tour de France. A scontare questo meccanismo sono il Giro d’Italia e la Vuelta a España, le quali interferiscono con la Grande Boucle tanto temporalmente – una dietro l’altra – quanto tecnicamente – sono le uniche tre grandi corse a tappe e funzionano allo stesso modo. Un buon numero di atleti, in sostanza, partecipa al Giro d’Italia e alla Vuelta a España per preparare il Tour de France o per rifarsi del magro bottino raccolto. Il valore intrinseco della corsa, a volte, passa in secondo piano.

Non discutiamo l’aspetto etico, il discorso sarebbe troppo lungo e non arriverebbe mai ad un abbozzo di verità condivisibile; ad interessarci è il lato sportivo, e per questo ci chiediamo: perché alcuni corridori si ostinano a scegliere il Tour de France senza mai prendere in considerazione l’idea di mettersi in gioco al Giro d’Italia e alla Vuelta? Il loro palmarès, e di conseguenza il ricordo che lascerebbero nel pubblico, sarebbe estremamente diverso.

©OSM Hill Climb 2017-2018, Twitter

Romain Bardet, ad esempio, l’ha capito dopo tanto tempo: debutterà al Giro d’Italia nel 2020, a ventinove anni e mezzo e alla nona stagione tra i professionisti. Finalmente, dopo sette partecipazioni consecutive al Tour de France e soltanto una alla Vuelta. Ed è un peccato che Bardet si sia fossilizzato così tanto sul Tour de France: nel 2018 ha provato la sua attitudine alle classiche, arrivando secondo alla Strade Bianche, al Giro della Toscana e nella prova in linea dei campionati del mondo, terzo alla Liegi-Bastogne-Liegi e nono alla Freccia Vallone; e se avesse debuttato al Giro d’Italia qualche anno fa, avrebbe potuto realmente contendere la maglia rosa a Contador, Nibali e Dumoulin. Non si può dire che Bardet abbia sbagliato a preferire il Tour de France, d’altronde è salito due volte sul podio e ha vinto tre tappe e una maglia a pois; però avrebbe potuto conoscere prima le altre corse che gli si addicono, partecipando comunque al Tour de France puntando alle vittorie di tappa piuttosto che alla classifica generale.

Un discorso ancora più netto lo si può fare sulle scelte di Richie Porte, che dall’ossessione per il Tour de France non ha guadagnato niente, a parte il quinto posto del 2016 e l’undicesimo del 2019, risultati che non aggiungono molto alla carriera di un corridore. Probabilmente Porte non era tagliato per i grandi giri e non ci sarebbe stata comunque nessuna soluzione, ma ci rimane difficile accettare che la sua ultima partecipazione al Giro d’Italia sia quella del 2015, parecchio sfortunata tra cadute e acciacchi e terminata con un ritiro al termine della quindicesima tappa. Stessa musica per quanto riguarda la Vuelta: c’era nel 2012, quando doveva ancora affermarsi, e c’era nel 2018, quando ormai la parabola discendente l’aveva già imboccata.

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Non la scampa nemmeno Valverde, uno dei corridori più forti e vincenti degli ultimi trent’anni, visto al Giro d’Italia soltanto nel 2016 nel corso di una carriera lunga quasi vent’anni. Ha vinto una tappa ed è arrivato terzo, è vero, ma nessuno vuole sindacare il risultato, quanto le occasioni perse. Alla Vuelta è sempre stato uno dei protagonisti, vincendola nel 2009 e concludendola altre sei volte sul podio, però non possiamo non segnalare le dodici partecipazioni al Tour de France. Valverde, in pratica, puntava alla vittoria della Vuelta dopo aver disputato un Tour de France ad altissimi livelli.

Quante edizioni della corsa a tappe spagnola avrebbe potuto vincere, gestendosi diversamente?

L’obiettivo di Valverde alla Grande Boucle era uno: salire sul podio finale almeno una volta. C’è riuscito nel 2015 e piangeva dalla felicità. A noi rimane il rimpianto di averlo visto lottare per un piazzamento o per qualche capitano non all’altezza, quando sulle strade italiane avrebbe potuto conquistare ben altro.

Ci sono tanti scalatori che non hanno resistito al fascino del Tour de France, sacrificando al suo altare risultati altrettanto validi e più alla loro portata. Fuglsang, ad esempio, che al Giro d’Italia ha partecipato soltanto nel 2016 e alla Vuelta è tornato nel 2019 dopo sei anni di assenza – e per di più da gregario, vista la caduta rimediata al Tour de France e una primavera piuttosto esigente. Anche Urán, che i tratti del vincente non li ha mai avuti, potrebbe preparare altre corse, dato che nelle ultime due edizioni del Tour de France ha collezionato un ritiro e un settimo posto. A gennaio compirà trentatré anni, un’età che non concede molte chance di riprovarci.

Dicasi lo stesso di Pinot, un corridore bello ed ineffabile che rovina nelle tenebre ogniqualvolta la luce prova a raggiungerlo. Dopo il podio al Tour de France 2014, Pinot ha ottenuto il giusto: quarto al Giro d’Italia 2017, sesto alla Vuelta a España 2018 e cinque ritiri tra Giro, Tour e Vuelta. L’ultimo alla Grande Boucle 2019 è stato struggente e proprio per questo Pinot ha dichiarato che nel 2020 tornerà al Tour de France per provare a vincerlo. A luglio avrà già compiuto trent’anni: gli auguriamo che la sensazione di aver vinto molto meno di quanto potesse vincere lo abbia abbandonato, anche se ne dubitiamo.

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Non si salvano nemmeno Adam Yates, Daniel Martin e Guillaume Martin, i quali continuano ad arricchire di piazzamenti il loro ruolino di marcia al Tour de France. Il ciclismo non è un’equazione: arrivare sesti al Tour de France non significa automaticamente lottare per il podio o per la vittoria finale del Giro d’Italia. Ma se è vero che il Tour de France è la corsa a tappe più difficile – storicamente, il numero dei corridori che vincono la Grande Boucle e ottengono buoni risultati al Giro d’Italia e alla Vuelta a España è molto più alto del numero dei corridori che fanno il percorso inverso -, allora è lecito attendersi molto da quegli atleti che concludono il Tour de France tra i primi dieci o a ridosso di questi. Il miglior Daniel Martin, quello visto tra il 2013 e il 2018, sarebbe potuto salire sul podio del Giro d’Italia. Invece, ha ceduto alle sirene del Tour de France: non dobbiamo giudicare noi, lo fanno gli ordini d’arrivo e le classifiche.

Da questa riflessione non sono esenti nemmeno i velocisti e i cacciatori di tappe. Alla Vuelta 2019, per dire, la lotta per le volate riguardava soltanto Bennett e Jakobsen; alla Vuelta 2017 gli sprint vennero dominati da Trentin, non propriamente un velocista puro. E al Giro d’Italia ci siamo ormai abituati a registrare il ritiro della maggior parte delle ruote veloci al termine della prima parte della corsa per staccare la spina e preparare poi il Tour de France – dove, è bene ricordarlo, almeno fino al 2017 primeggiava un velocista lasciando le briciole agli altri.

Kristoff, ad esempio, al Giro d’Italia avrebbe potuto vincere molto, complice anche l’assenza di fondisti e uomini da classiche: al Tour de France si è sempre distinto, d’accordo, ma le tre tappe vinte risalgono al 2014 – due – e al 2018 – l’ultima, quella dei Campi Elisi; nelle tre edizioni di magra – 2015, 2016 e 2017 – soltanto diversi piazzamenti.

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Anche Cavendish e Degenkolb, nell’ottica di provare a rilanciare una carriera in declino, avrebbero potuto ripartire dalle strade del Giro d’Italia. E invece: entrambi mancano dal 2013, nel caso di Degenkolb la prima e ultima partecipazione al Giro d’Italia – vinse la tappa di Matera e si ritirò dopo aver portato a termine la nona. E se Degenkolb al Tour de France 2018 ha centrato un successo e mostrato un po’ della vecchia costanza, Cavendish ha inanellato soltanto delusioni: nel 2017 fu costretto all’abbandono dopo il tanto discusso contatto con Sagan, nel 2018 andò fuori tempo massimo nell’undicesima tappa e quest’anno non ha nemmeno partecipato, lasciato fuori dalla squadra dopo un’anonima prima parte di stagione. Il suo passato e la possibilità di avvicinare ulteriormente il record di vittorie di Merckx continuano a portarlo sulla strada del Tour de France, ma forse è quella sbagliata.

Ancora peggio quando si fa riferimento agli uomini delle classiche, che al Giro d’Italia mancano da tantissimi anni nonostante al Tour de France vincano sempre gli stessi. Van Avermaet, ad esempio, è uno dei pochissimi ad ottenere qualcosa dal Tour de France: ha vestito la maglia gialla e ha vinto due tappe, anche se l’ultima risale al 2016. Al Giro d’Italia non ha mai partecipato: viene dalle classiche e avrà le sue ragioni, ma se nelle ultime stagioni avesse partecipato qualche vittoria l’avrebbe strappata, diventando uno dei quei corridori capace di vincere in tutti e tre i grandi giri, dato che al Tour e alla Vuelta l’ha già fatto.

Al Giro d’Italia non hanno mai partecipato nemmeno Naesen e Vanmarcke, che sul pavé sono tra i protagonisti mentre al Tour de France si limitano al gregariato e qualche estemporanea presenza nella fuga di giornata. Da una vittoria di tappa al Giro d’Italia avrebbero soltanto da guadagnarci.

©Yorkshire 2019, Twitter

Il Team INEOS continua a dirottare sulla Grande Boucle Moscon e Kwiatkowski, altri due atleti che al Tour de France si sentiranno importanti, ma ai quali non è mai concessa la libera uscita per cacciare una gioia personale. Kwiatkowski è venuto al Giro d’Italia una volta sola, nel 2012, mentre Moscon ancora non si è visto. Štybar, magari, al Giro d’Italia potrebbe tornarci nel 2020: ha partecipato giusto una volta, nel 2018, e la Quick Step non lo seleziona per il Tour de France dal 2017.

Potrebbe raccogliere di più anche Boasson Hagen, la cui ultima presenza al Giro d’Italia risale al 2014 e si concluse con un abbandono alla fine della seconda settimana. È lunatico e inaffidabile, ma le sue possibilità di centrare una frazione sarebbero sicuramente maggiori al Giro d’Italia – dove, peraltro, ha già esultato nel 2009.

Non vorremmo passare per blasfemi, ma non è che Gilbert abbia brillato nel corso delle ultime partecipazioni al Tour de France: nel 2017 e nel 2018 si è ritirato, mentre nel 2019 è stato tenuto fuori dalla Quick Step. Nonostante una carriera leggendaria, Gilbert ha vinto una sola tappa al Tour de France; al Giro d’Italia manca dal 2015, quando di tappe ne vinse due, e forse il passare degli anni lo premierebbe più al Giro che al Tour.

©BIKENEWS.IT, Twitter

Tra questi corridori non possiamo non includere anche Colbrelli. Dopo il Giro d’Italia 2016, Colbrelli non s’è più visto. Nel frattempo, è approdato al World Tour ed è diventato ancora più costante e pericoloso: perché non sfruttare queste caratteristiche al Giro d’Italia? Al Tour de France 2018 arrivò secondo in due occasioni diverse, entrambe le volte battuto soltanto da Sagan: risultati del genere fanno pensare che Colbrelli potrebbe trovare al Giro d’Italia o alla Vuelta a España – alla quale, tra l’altro, non ha mai partecipato – quell’affermazione che in un grande giro continua a mancargli.

Nelle prossime settimane, le squadre e i corridori cominceranno a sciogliere le loro riserve e avremo un’idea di massima dei grandi giri che ognuno di loro affronterà. Il ciclismo di oggi – anche quello di ieri, ad essere sinceri – non può fare i conti soltanto con le ambizioni personali: in ballo ci sono interessi milionari, tanto per le squadre quanto per gli sponsor. In più, le ambizioni personali sono difficilmente opinabili. Tuttavia, non bisogna cadere nemmeno nell’estremo opposto: la carriera di uno sportivo d’alto livello va giudicata anche in base ai risultati ottenuti. E alcuni corridori, continuando di questo passo, rischiano di essere ricordati in maniera ingenerosa.

 

 

Foto in evidenza: ©Tour de France, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.