La vita è una sigaretta che va fumata in fretta

Bobridge è passato dalle vittorie su strada e in pista ai tribunali.

 

 

In uno dei tanti tunnel che attraversano il DISC Velodrome di Melbourne c’è Jack Bobridge. È seduto, appoggiato al muro con la schiena; l’unico rumore che è in grado di emettere è quello del suo respiro, pesante e affannato; è circondato da bottiglie di plastica prosciugate e il body è aperto per una buona metà, quanto basta per dare l’idea di un animale che sta cambiando muta, una pelle che si stacca per fare spazio a quella nuova. L’assalto al record dell’ora di Matthias Brändle è andato male: dopo duecentocinque giri, i rilevamenti hanno stabilito che all’australiano sono mancati circa cinquecentocinquanta metri per accaparrarsi il proprio pezzetto di storia; gli rimane la soddisfazione d’aver fatto registrare il nuovo record australiano, un chilometro in più rispetto a quanto fatto da Bradley McGee nel 2000.

Bobridge insieme a Cavendish ed Evans. ©Cadel Road Race, Twitter

Jack Bobridge è stremato: non riesce nemmeno a scendere dalla bicicletta, tant’è che gli uomini del suo staff sono costretti a smontare la ruota anteriore per facilitare l’operazione. I crampi e i dolori si susseguono senza soluzione di continuità; non può stare né in piedi né a sedere, talmente inebetito dallo sforzo che gli si stampa sulla faccia un sorriso inspiegabile e compassionevole. “È la volta in cui sono stato più vicino alla morte senza tuttavia morire”, dirà dopo il tentativo. La colpa del fallimento – se di fallimento si può parlare: cinquantuno chilometri e trecento metri in un’ora – è esclusivamente sua: come spesso succede anche nelle cronometro individuali su strada, ha spinto troppo nella prima parte e si è ingolfato nella seconda. La carriera di Bobridge, d’altronde, è sempre stata questa: prendere il toro per le corna quando lo si poteva tranquillamente cavalcare, gettarsi nel fuoco e non accontentarsi di sederci attorno.

Jack Bobridge non ha mai avuto difficoltà ad individuare i motivi di un atteggiamento così aggressivo: il carattere, forse; la consapevolezza di non poter lottare ad armi pari coi migliori e dunque la necessità di provare ad anticiparli, certo; ma più d’ogni altra esperienza, è stata la pista ad inculcargli questo modo di fare. La pista non è solo furia cieca, ovviamente, ma la brevità che la contraddistingue non sempre consente una gestione parsimoniosa dello sforzo; in molte occasioni si deve soltanto partire forte, continuare ad aumentare il ritmo e concludere ben oltre i propri limiti. Per Bobridge, tuttavia, non c’erano altri modi di concepire il ciclismo: il suo limite più grande è stato pensare di non averne. Intendiamoci, per un certo periodo di tempo ha potuto permettersi una visione così esagerata: prometteva talmente bene che perfino Armstrong e Wiggins lo battezzarono come uno dei campioni del futuro. Non tutte le campane suonavano così armoniose; Phinney, ad esempio, non riusciva proprio a rimanere in silenzio quando incrociava Bobridge e ripensava a tutte le sfide in pista che l’australiano aveva letteralmente gettato al vento: “Perché non impari a controllarti meglio nelle prime battute di gara? Potresti vincere molto di più”, gli ripeteva sconsolato negli spogliatoi dei velodromi e alle feste che generalmente chiudono l’evento.

Pur avendo nella pista il suo ambiente preferito – con tanti successi e piazzamenti all’attivo e il record nell’inseguimento individuale strappato a Boardman, un momento che Bobridge stesso ha definito come “quello di cui vado più fiero” -, l’australiano ha intrapreso un’ottima carriera anche su strada: è stato campione del mondo nelle prove contro il tempo tra gli Under 23, quinto nel medesimo esercizio ai campionati del mondo di Copenaghen del 2011, vincitore di una tappa all’Eneco Tour e al Tour Down Under e campione australiano in ben due occasioni diverse. Non nella cronometro, bensì nella prova in linea: nel 2011 ebbe la meglio su Goss e Gerrans, nel 2016 invece sfruttò l’inferiorità numerica – era l’unico corridore della Trek-Segafredo – per entrare nella fuga di giornata e arrivare tutto solo al traguardo. Quella, oltre ad essere l’ultima vittoria su strada, è la sublimazione della sua idea di ciclismo: uno sport in cui ogni risultato va perseguito con ferocia, un mondo nel quale bisogna contare poco sui compagni di squadra e molto su stessi. Al rimorso, Bobridge preferiva il rimpianto. Poi, nella stagione della seconda e splendida vittoria ai campionati australiani, la decisione di ritirarsi: l’artrite reumatoide gli causa dolori insopportabili e la situazione peggiora di giorno in giorno; sommate a questo calvario, le fatiche a cui deve sottostare un ciclista professionista diventano insensate. Il prematuro addio al ciclismo professionistico è soltanto il primo degli eventi che fanno precipitare la vita di Jack Bobridge.

Negli ultimi due anni abbondanti, non c’è stata nemmeno una notizia positiva che abbia riguardato la vita, la carriera e il futuro di Bobridge. L’ultima è la più inappellabile: il tribunale di Perth lo ha condannato a quattro anni e sei mesi di carcere per spaccio di pastiglie di ecstasy. I primi problemi vennero fuori nel 2017, quando lui e Alex McGregor, il socio d’affari, vennero incastrati per trecento pasticche di ecstasy che i due si scambiarono. Le indagini fecero emergere molti dettagli: si venne a sapere, ad esempio, che Bobridge aveva assunto droghe anche diverso tempo prima, quando era arrivato in Europa per correre nel ciclismo professionistico e divideva un appartamento con alcuni connazionali e colleghi; poi c’era il linguaggio cifrato che lui e McGregor adottavano per mettersi d’accordo senza farsi scoprire: “programma mensile”, per dirne una, non era una tabella per rimettersi in forma o allenarsi, bensì il modo migliore per far capire all’altro che c’era la necessità di trenta pastiglie. L’avventura è terminata nel momento in cui la coppia ha venduto più volte diversa roba ad un poliziotto sotto copertura.

©Trek-Segafredo, Twitter

Bobridge le ha provate tutte pur di giustificare l’accaduto: il ritiro a cui è stato costretto, i repentini cambiamenti che la sua vita ha dovuto digerire, la fine del matrimonio con conseguente allontanamento della figlia, piccolissima. “Talvolta faccio uso di sostanze stupefacenti per alleviare i dolori provocati dall’artrite reumatoide”, sembra abbia detto tra le lacrime durante una delle ultime udienze. Evidentemente non è bastato. Alla disperazione si è aggiunta un’ulteriore delusione: Michael Lange, il sindaco di Gawler – dov’è nato e cresciuto Bobridge -, ha dichiarato che il velodromo che vi sorge e che è stato intitolato al ciclista australiano cambierà sicuramente nome: “È una situazione devastante per tutti: per noi ma soprattutto per lui e per la sua famiglia, ne siamo consapevoli”, ha riferito alla stampa locale, “ma non possiamo nemmeno permetterci di mantenere quel nome: manderemmo un messaggio sbagliato”. Jack Bobridge ha compiuto trent’anni il 13 luglio e la sua vita, almeno in parte, sembra compromessa: non può più esercitare la professione che ama e non avrà vita facile nel ricollocarsi una volta che questa spiacevole parentesi si sarà chiusa. Non era la pista, ad aver instillato in Bobridge una certa mentalità: viene tutto da lui, che ha vissuto i primi trent’anni della sua esistenza come se questa fosse una sigaretta da fumare in fretta, riempiendosi i polmoni fino a tossire, senza che nessun imprevisto né agente atmosferico potesse portarsi via una sola boccata.

 

 

Foto in evidenza: ©Trek-Segafredo, Twitter

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.