Cara Italia, serve un cambio di passo: intervista a Silvio Martinello

Siamo tornati da Silvio Martinello per parlare di presente e di futuro.

 

 

Il 2019 è stato anche l’anno in cui il ciclismo italiano ha dovuto fare a meno di Silvio Martinello. La stima di cui gode, tuttavia, gli ha permesso di rimanere tra le preferenze di molti appassionati e addetti ai lavori. I suoi giudizi sono schietti e taglienti – espressi anche in un buon italiano, che non guasta mai – e il suo parere viene costantemente richiesto dall’ambiente. Confrontarsi con lui sulla stagione terminata poche settimane fa ci sembrava il minimo. Abbiamo parlato di risultati e di sicurezza stradale, di riforme e di ciclismo femminile, di Olimpiadi e del ruolo dei media. In più, Silvio Martinello ha rilanciato una delle notizie più interessanti degli ultimi tempi: sta pensando di candidarsi alla presidenza della Federazione Ciclistica Italiana e scioglierà le riserve nel corso della prossima stagione.

Per la prima volta dopo tanti anni, Silvio Martinello ha vissuto la stagione ciclistica in maniera nettamente diversa rispetto al recente passato. Com’è andata, Silvio?

Molto bene, sarò sincero. Non ho avuto gli impegni e le responsabilità delle passate stagioni, dovendomi accontentare di un ruolo decisamente più esterno, ma questo non mi ha impedito di seguire con attenzione le vicende dell’ambiente. Prima di tutto sono un appassionato e un appassionato trova sempre il modo di dedicare una parte del suo tempo alle sue passioni; in più, con gli strumenti di cui disponiamo oggi, guardare una gara di ciclismo è abbastanza semplice e non c’è bisogno a tutti i costi della televisione: la si può vedere anche sul tablet o sul computer ed è quello che talvolta ho fatto. Ovviamente ricordo e ringrazio con piacere i colleghi e i professionisti di Radio Rai con i quali ho lavorato nelle settimane del Giro d’Italia: simpatici, disponibili ed estremamente competenti, davvero una bella esperienza. Emanuele Dotto lo conoscevo da tempo, ma non avevo mai avuto l’opportunità di lavorarci assieme. Credo di poter dire che il lavoro fatto sia piaciuto, almeno questo sembrano suggerire i pareri e i responsi ricevuti. In ballo c’era anche la possibilità di replicare il tutto durante il Tour de France, però non è stato trovato l’accordo economico e l’idea non si è concretizzata. In radio cambia tutto, rispetto alla televisione: la tempestività, la lunghezza e la profondità degli interventi è totalmente diversa, si capisce. Non nego che mi sia risultato abbastanza semplice: essendo abituato alle lunghe dirette e alla mole di materiale da preparare, l’impegno radiofonico si è rivelato molto più gestibile rispetto a quello televisivo. La radio era uno strumento che conoscevo soltanto dall’esterno; mi ha fatto piacere conoscerla anche dall’interno.

A proposito della questione televisiva: il racconto degli eventi non è un aspetto banale o secondario, nel ciclismo del ventunesimo secolo. Avendo vissuto l’esperienza radiofonica, e soprattutto avendo seguito gli appuntamenti più importanti nelle vesti di fruitore e non in quelle di commentatore tecnico, che idea ti sei fatto del racconto televisivo del ciclismo?

Il mio pensiero è lo stesso di un anno fa, quand’ero uno dei protagonisti del racconto. Il ciclismo sta vivendo una situazione paradossale: l’epoca della grande produzione e delle dirette integrali cozza con l’esasperazione della tattica e dell’immobilismo che caratterizza più che altro i grandi giri. L’inerzia sembra cambiata, ma soltanto in parte; il canovaccio è sempre quello: i fuggitivi che guadagnano qualche minuto e vengono ripresi in vista della volata; i fuggitivi che si giocano la vittoria di tappa nelle frazioni mosse e di alta montagna; i capitani che, di tanto in tanto, puntano anche alla frazione stando attenti però a non scoprirsi più di tanto. Il paradosso, ovviamente, riguarda quasi esclusivamente i grandi giri, che propongono ogni giorno ore e ore di diretta. Una breve corsa a tappe o una classica vanno via diversamente, ma non sto dicendo niente che un appassionato non sappia già. Non so, non credo si possa proseguire a lungo su questa strada. I fattori che influiscono sono talmente tanti: il disegno e la lunghezza delle tappe, il sistema di assegnazione dei punti che spesso premia il piazzamento disincentivando così l’atleta ad attaccare e rischiare, la qualità e la quantità di spunti che possono dare il gruppo o l’andamento della corsa.

©Anja Heinemann/Bongarts/Getty Images

Cosa potrebbe inventarsi chi ha il compito di produrre, trasmettere e raccontare la gara?

Quando poco fa ho accennato alla mole di materiale che un commentatore televisivo deve preparare e conoscere in vista della diretta, mi riferivo proprio a questo. Se la corsa offre poco, bisogna parlare d’altro, non si scappa: i messaggi degli spettatori, le questioni più calde, le dichiarazioni dei corridori più importanti, gli sviluppi futuri. È necessario approfondire e sviscerare quei temi che escono dalla cronaca degli eventi, anche se ne traggono spunto. Dal mio modesto punto di vista, siccome il ciclismo deve molto ai luoghi e ai paesaggi che attraversa, molto presto diventerà fondamentale avvalersi di professionisti e figure che conoscono la storia, le peculiarità, l’arte e le curiosità di questi. Qualcuno ci starà già pensando, ne sono sicuro, e a ben vedere qualcosa si è già visto nelle ultime stagioni. Poi, quando la corsa entra nel vivo, si parla di quella; ma finché non si muove nulla, ci sono il tempo e lo spazio per inventarsi qualcos’altro. È una bella sfida, molto intrigante.

La stagione che si è conclusa poche settimane fa è stata densa di avvenimenti e sensazioni, una delle più interessanti del nuovo millennio. Quali riflessioni ti ha stimolato?

Sono d’accordo, tutto sommato è stata una stagione positiva tanto per il movimento italiano quanto per il ciclismo in generale. Abbiamo assistito ad alcune prove veramente spettacolari da parte di alcuni giovani, abbiamo visto vincere i tre grandi giri e il campionato del mondo a corridori e nazioni che non lo avevano mai fatto prima, abbiamo applaudito diverse novità e altrettante conferme. Per quanto riguarda il ciclismo italiano, al termine di una buona stagione mi restano due rammarichi.

Prego, Silvio.

Il primo, in ordine cronologico, è il secondo posto di Vincenzo Nibali al Giro d’Italia. Per un corridore che andava per i trentacinque anni (compiuti il 14 novembre, ndr) si tratta comunque di un grande risultato, ma per come è maturato credo che anche lo stesso Nibali si sia mangiato le mani. Tanto lui quanto la sua squadra, nello specifico Volpi e Slongo, hanno peccato di lungimiranza, perdendosi nel marcamento e nelle schermaglie con Roglič e lasciando scappare Carapaz. Le leggerezze sono state ben due, prima salendo verso il Lago Serrù e poi andando verso Courmayeur, ma ad aver cambiato la corsa credo sia stata più la prima. Peccato, perché come si è visto la terza settimana non è andata come molti immaginavano: Nibali non è cresciuto, come sempre gli è accaduto nella terza settimana dei grandi giri; Roglič è vistosamente calato e con lui Nibali, anche se in maniera meno drastica; il corridore che invece ha saputo gestire meglio la fatica e l’ovvio calo di energie è stato proprio Carapaz, che infatti ha vinto con merito rintuzzando praticamente tutti gli attacchi. Ancora peccato, perché Nibali avrebbe potuto giocarsela diversamente e conquistare un altro Giro d’Italia, il terzo della sua carriera; ma è un campione e di certo non ha bisogno di un terzo Giro d’Italia per entrare nella storia del ciclismo. L’altra delusione, ovviamente, è legata all’esito della prova in linea dei campionati del mondo. Ma qui, a differenza della situazione di Nibali, c’è ben poco da dire: l’Italia e Trentin hanno corso alla grande, al massimo delle loro possibilità, ma in una delle giornata più dure e complicate degli ultimi anni hanno trovato un avversario più forte, Mads Pedersen. Il clima infernale ha tagliato le gambe a tutti, Trentin compreso, ma ci si può fare poco: la differenza tra vincere e perdere, talvolta, è davvero minima.

©Giro d’Italia, Twitter

Una stagione importante anche nel percorso di crescita che ha intrapreso ormai da anni il movimento femminile.

Sì, senza ombra di dubbio: il movimento femminile è una realtà già da diverso tempo, la crescita è rapida e inesorabile e il livello si sta alzando sempre di più. Di questo mondo, fortunatamente, l’Italia è uno degli attori principali. Possiamo contare su atlete vincenti e su un ricambio generazionale che fa davvero ben sperare: le giovani che si confrontano con le campionesse lo fanno a testa alta, ottenendo persino vittorie e piazzamenti, mentre nelle categorie giovanili continuano a formarsi delle atlete più che interessanti, le quali un domani sostituiranno le campionesse attuali. Direi che possiamo stare tranquilli. E per la serenità delle nostre ragazze e del movimento, è stato fondamentale garantire la possibilità di firmare un contratto da professionista pur continuando a far parte di un corpo militare. Ho letto del problema che ha incontrato Sofia Bertizzolo al momento di ufficializzare il suo passaggio alla Movistar, ma si tratta di un cavillo circoscritto alla legislazione spagnola: mi dispiace per lei, anche se sono sicuro che una ciclista del suo calibro troverà comunque una soluzione soddisfacente, ma non creiamo dell’allarmismo inutile, dato che riguarda soltanto la dimensione spagnola. Mi sembra che stia bene anche il movimento internazionale. La mia speranza, e forse quella di tutti, è che il ciclismo femminile possa continuare a crescere ma per gradi, con costanza e con calma. Ciò che temo è la volontà di raggiungere il prima possibile il World Tour maschile per poi emularlo. Dato che il World Tour maschile ha diversi problemi, e dato che anche il movimento femminile ha già i suoi, rincorrerne altri non mi sembra la mossa migliore. Mi riferisco alla grandezza e alla complessità del sistema, all’aumento vertiginoso di impegni e di costi che appesantiscono e impauriscono chi vuole puntare sul ciclismo. Spero che non succeda nulla del genere: le atlete e le squadre non se lo meriterebbero, considerando tutto l’impegno che stanno impiegando nel promuovere il loro mondo.

Il nome di Silvio Martinello, tuttavia, è tornato di grande attualità alla fine di agosto in merito ad una vicenda riguardante proprio il movimento femminile italiano. Qualche settimana più tardi si sono aggiunte anche le dichiarazioni di Maila Andreotti.

Faccio una premessa: è un terreno scivoloso, servono i guanti bianchi, parlo con calma e pesando ogni parola proprio perché devo e voglio stare attento. Io non avevo intenzione, e non ce l’ho tuttora, di sollevare uno scandalo: ho soltanto ricordato e ribadito quello che dissi e scrissi ormai tredici anni fa, tra il 2005 e il 2007, quando ricoprivo una carica all’interno della Federazione. L’inchiesta della procura federale si è chiusa con l’archiviazione e io non mi permetterei mai di interpretare diversamente una sentenza. La mia sensazione è che la vicenda avrà ulteriori strascichi e verrà trattata anche in sedi extrasportive. Mi permetto di dire, tuttavia, che le reazioni del massimo dirigente della Federazione mi sono parse scomposte e che una storia importante come quella di Maila Andreotti non può finire con l’archiviazione. Mi spiego meglio. Maila Andreotti ha rilasciato delle dichiarazioni importanti, da un punto di vista emotivo e psicologico le sono costate tantissimo: per questo dico che la Federazione dovrebbe andare oltre l’archiviazione e riflettere su quello che la ragazza ha detto e su alcuni comportamenti e abitudini, evidentemente non così normali come qualcuno può pensare. Il procuratore ha reputato poco importanti le parole della Andreotti: bisogna prenderne atto, ognuno fa il proprio mestiere, è una realtà da rispettare. Però ricordiamoci quanto può essere difficile per una donna vivere lo sport professionistico, ricordiamoci che una buona parte di queste ragazze è giovanissima, ricordiamoci quanto può essere pericoloso isolare, far finta di nulla, abbandonare anche una sola persona a stessa. C’è chi ha bisogno di una mano. Mi auguro che si stia facendo qualcosa in merito; anche a porte chiuse, non importa farlo sapere al mondo: l’importante è non girarsi dall’altra parte, non fare finta di nulla e rimandare ulteriormente una questione che non può essere più rimandata. Me lo auguro vivamente, ma per ora ho registrato superficialità e leggerezza.

©Adam Bowie, Flickr

Una questione che non può più essere rimandata: anche la sicurezza stradale può essere riassunta così. Ma la sicurezza stradale interessa davvero a qualcuno? Oppure interessa nella misura in cui si è tenuti a parlarne per allinearsi al sentire comune, per non sfigurare?

Ci sarà sempre chi fa proclami e si allinea per convenienza o mero dovere, ormai non ci faccio più caso. Io ne parlo perché è doveroso parlarne. I numeri ci dicono che sulle strade italiane è in atto una vera e propria guerra, senza mezzi termini. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma “guerra” è il termine giusto, tutt’altro che esagerato. Da più parti sento dire che la Federazione non c’entra, che può fare poco: ora, non vorrei passare per fazioso e ingeneroso, ma dire che la Federazione non può fare niente è sbagliato, è un modo per lavarsene le mani. Invece può fare tantissimo. Il compito di una Federazione non è soltanto quello di valorizzare il professionismo, ottenendo vittorie, riconoscimenti e medaglie. Una Federazione dev’essere l’interlocutore principale del legislatore, deve farsi carico delle proposte e delle lamentele degli attori coinvolti e riferirle a chi di dovere, deve avere un dialogo costante e critico con le autorità affinché venga introdotto quello che manca e migliorato quello che di buona già c’è. Per quanto triste, è bene che ci siano delle fondazioni dedicate alla memoria di chi non c’è più, ma l’intera responsabilità del cambiamento non può ricadere sulle loro spalle: devono essere coordinate da un ente di riferimento. Faccio un altro esempio. Non più tardi di due mesi fa, in una gara riservata agli Under 23, moriva Giovanni Iannelli, giovanissimo corridore di Prato. Prima di continuare, rinnovo ancora una volta le condoglianze e la vicinanza alla famiglia del ragazzo. È proprio della sua famiglia che voglio parlare: sta lottando per avere giustizia perché da quanto sembra sono emersi dei problemi relativi alla sicurezza. Non è stato fatto tutto quello che è previsto dalle norme, oppure qualcosa è stato fatto in maniera approssimativa. Ho il massimo rispetto per chi organizza eventi del genere, perché tra responsabilità e permessi non è una passeggiata mettere in piedi una corsa di biciclette, ma la Federazione serve anche a questo: a sorvegliare, a farsi sentire, a costruire un dialogo con chi organizza. Deve ricercare sempre la migliore professionalità possibile. Questo per dire che gli incidenti, purtroppo anche mortali, non riguardano soltanto la quotidianità degli amatori o di chi usa la bicicletta per andare a lavoro o a scuola, ma succedono anche “in famiglia”, ovvero in corsa.

Cosa si può fare per invertire la rotta?

Tanto, tantissimo: non esiste un rimedio unico, ma una serie di azioni e provvedimenti che, se introdotte, introiettate dalla comunità e fatte rispettare, darebbero una svolta sensibile alla questione. È sufficiente elencarne alcuni: rivedere il codice della strada perché non tiene in considerazione il ruolo della bici; portare l’educazione civica e stradale nelle scuole, devono essere materie di studio fin dalle elementari; devono fioccare le multe per chi non rispetta i limiti di velocità, per chi guida stando più attento al cellulare che alla strada, per chi usa le piste ciclabili come un parcheggio; e poi costruiamole bene, queste infrastrutture e queste piste ciclabili, altrimenti è normale che rimangano inutilizzate. Le Federazioni tedesca e inglese si sono impegnate con le autorità delle singole regioni e alla fine ne hanno tratto giovamento anche da un punto di vista agonistico. Perché è anche di questo che si parla: avere delle strade pericolose significa spaventare genitori e ragazzi, significa disincentivare l’uso e la passione per il ciclismo, significa assottigliare la base di ragazzi che pedalano e che possono arrivare al professionismo. Alla naturale selezione naturale che intorno ai vent’anni, se non prima, screma l’ambiente, se ne sta aggiungendo un’altra: quella della strada, che non è né naturale né tantomeno giusta. Sarà un caso che il movimento tedesco e quello inglese siano rinati proprio dopo aver cambiato la loro mentalità intorno alla bicicletta e alla viabilità? Magari mi sbaglio, ma credo che non sia un caso. L’utilizzo del casco e la campagna di sensibilizzazione sul metro e mezzo da rispettare sono dei passi avanti, per carità, ma si deve andare oltre e bisogna iniziare prima possibile. E non dimentichiamoci dei pedoni: sulle strade ci sono anche loro e anche loro, come i ciclisti, cadono quotidianamente. Parliamo sempre dell’ambiente, dell’importanza che il nostro movimento ha avuto e ha tuttora, delle bellezze del nostro paese, e poi cosa facciamo? Poco o nulla. L’industria ciclistica sta crescendo esponenzialmente, finalmente la bicicletta, la salute e il verde iniziano a godere dell’attenzione che meritano: cosa stiamo aspettando?

Qual è il ruolo del mondo dell’informazione, in tutto questo?

Raccontare, tampinare, insistere, rimarcare, stare addosso a chi ha il potere e il dovere di provare a cambiare le cose. Bisogna andare oltre il titolo sensazionalistico, bisogna lasciar perdere il contorno e andare al succo, al contenuto. Persino la stampa tradizionale dedica sempre più attenzione al tema. Ormai non si può più rimandare, chi fa finta di niente e si gira dall’altra parte è come se fosse complice: il mondo dell’informazione, a maggio ragione quello esclusivamente ciclistico, ha un ruolo fondamentale.

©Parlamento europeo, Twitter

Cosa ti aspetti dal ciclismo italiano alle Olimpiadi di Tokyo? Ci sono le due prove su strada, è vero, ma è la pista ad assegnare la maggior parte delle medaglie.

Direi che siamo messi abbastanza bene, tanto su strada quanto in pista. Pronosticare numero e metallo delle medaglie che porteremo a casa è impossibile, ma sulla carta abbiamo alcuni atleti che possono puntare ad un oro. Voglio essere più preciso: per quanto riguarda la pista, abbiamo grandi possibilità nel settore dell’endurance, tanto nelle tre prove maschili quanto nelle tre femminili; nelle specialità veloci, al contrario, difficilmente diremo la nostra: si muove qualcosa tra le ragazze, ma il ciclismo italiano punterà perlopiù sulla strada e sulle prove di endurance della pista.

Che idea si è fatto Silvio Martinello della multidisciplinarietà? Se ne parla talmente tanto da farla risultare stucchevole: sembra sia stata scoperta oggi e invece la storia del ciclismo è piena di campioni, o comunque di atleti, che nel corso della loro carriera hanno abbinato specialità diverse.

Io l’ho fatto per una vita e con degli ottimi risultati, per dire che non c’è bisogno d’andare tanto lontano per trovare degli esempi. Ci siamo allineati tardi, altroché. Adesso sembra tutto scontato, ci sono Viviani, Ganna, i ragazzi e le ragazze che vincono medaglie su medaglie: ma fino a pochi anni fa non era così. E non pensate che adesso la strada sia in discesa: di tanto in tanto mi sento con Marco Villa, il quale continua a raccontarmi che incontra diverse difficoltà nell’instaurare un certo tipo di rapporto con le squadre, ancora restie a dare la disponibilità dei corridori. E dire che l’Italpista sta attraversando un momento positivo, pensa un po’ se non avessimo certi atleti e certi risultati. La multidisciplinarietà è un concetto tutto sommato antico. Certo che è cosa buona e giusta, io fui uno dei primi a dirlo nella mia esperienza federale del decennio scorso, ma si sa: l’Italia ha i suoi tempi. Finalmente l’abbiamo capito, adesso bisogna proseguire su questa strada.

Le Olimpiadi di Tokyo 2020 promettono grande spettacolo: tanti record legati alla pista sembrano vicini ad essere riscritti, mentre altri sono già caduti.

Lo spettacolo è garantito: i cronometri vengono fermati su tempi assurdi, i corridori non sono mai andati così forte e non hanno mai spinto i rapporti che spingono oggi. Detto ciò, vorrei fare una precisazione: al netto dello spettacolo, una specialità come l’inseguimento a squadre si sta snaturando e nell’immediato futuro potrebbe evolvere in maniera definitiva. Mi spiego. Dal fisico degli atleti si può capire l’allenamento che svolgono e chi partecipa all’inseguimento a squadre assomiglia sempre di più ad un velocista: non si allena per più di due o tre ore, fa tanta palestra e pedala poco su strada. Gli effetti di questo approccio sono quelli accennati poco fa: rapporti impossibili, velocità altissime, tempi assurdi. Questo, tuttavia, comporta anche dell’altro: l’asticella si sta alzando talmente tanto da richiedere all’atleta una totale dedizione alla pista e allo specifico esercizio. Detta in parola povere, c’è il rischio che lo stradista non trovi il tempo, le energie o l’ambizione per prepararsi a dovere ad un appuntamento così esigente. Alcuni dei più grandi pistard degli ultimi anni sono stati, o sono tuttora, anche dei grandi stradisti: penso a Viviani, a Ganna, a Wiggins, a Cavendish. Ecco che nell’immediato futuro tanti stradisti potrebbero prendere le distanze dalla pista, settore nel quale la specializzazione potrebbe giocare un ruolo sempre più fondamentale. A mio modesto avviso, nell’ottica di attrarre gli stradisti, l’UCI dovrebbe dare nuova linfa alla Madison (o Americana, ndr) e alla corsa a punti all’interno del programma olimpico. Non c’è niente da fare, sono i grandi nomi della strada ad attrarre il pubblico nei velodromi. Quello che ho appena detto dovrebbe chiarirsi ulteriormente dopo le Olimpiadi di Tokyo.

Le prestazioni in pista hanno raggiunto un livello altissimo. ©Flowizm, Flickr

Per chiudere questa panoramica sullo stato del movimento ciclistico internazionale, non possiamo non parlare delle Professional e di quello che le attende nel breve termine.

Un futuro a tinte fosche, purtroppo. La situazione è quella di sempre: in alcuni punti oscura e generalmente pessima. Per le Professional italiane, una piccola speranza è arrivata dall’addio della Katusha: se la Katusha fosse rimasta nel Wolrd Tour, questo sarebbe stato composto da venti squadre, dunque RCS avrebbe potuto assegnare soltanto due wild card per raggiungere il numero di ventidue squadre invitate; l’abbandono della Katusha ha portato il numero di squadre del World Tour a diciannove, quindi le squadre da poter invitare sono diventate tre, non più due. Mi ha fatto piacere sentire da Mauro Vegni la volontà d’invitare al Giro d’Italia le tre Professional italiane: speriamo vada effettivamente così, tra poche settimane lo sapremo. E comunque, la riforma prevede che gli inviti vengano assegnati alle squadre che hanno fatto più punti durante l’ultima stagione: soltanto in caso di rifiuto si continuerà a scendere, quindi le nostre Professional devono sperare nei rifiuti altrui. Il fatto che il ciclismo italiano debba rimanere a galla soltanto per le disgrazie altrui non è un bel segnale. Di questa riforma si fa un gran parlare ormai da un anno e io è da un anno che chiedo: dove eravamo quando le cose sono state decise? Che questa riforma rischia di soffocare il nostro movimento ce ne siamo resi conto con colpevole ritardo. L’Italia sembra avere delle grosse difficoltà ad imporsi in campo internazionale; se non ad imporsi, quantomeno a farsi ascoltare. Eppure nessuna delle parti in causa ha particolari interessi a metterci i bastoni tra le ruote. La presenza dell’Italia, una delle nazioni fondanti del ciclismo, è importante per tutti. Il nostro parere non pesa abbastanza, evidentemente. E poi non basta avere un parere: serve anche che questo sia costruttivo. Siamo l’Italia, non dimentichiamocelo.

A cosa ti riferisci, Silvio?

Alle stesse problematiche di sempre, quelle di cui parlo in continuazione e che ogni volta fanno discutere. Io ho l’impressione che il periodo positivo che stanno attraversando gli atleti italiani serva a qualcuno per provare la salute di cui gode il nostro ciclismo. Si nasconde la polvere sotto il tappetto dei successi, delle medaglie e dei nomi altisonanti. Vincere ci impedisce di constatare e di affrontare lo stato reale delle cose. Movimenti che stavano molto peggio di noi sono risorti. ASO si è letteralmente caricata sulle spalle le sorti del ciclismo francese e noi siamo ancora al provincialismo, a godere delle disgrazie altrui, alle lotte di quartiere. Quando io parlo di movimento ciclistico italiano, mi riferisco a questo: non ci sono soltanto le corse, i risultati e le medaglie. E allora non si può dire che il movimento ciclistico italiano goda di buona salute. Ci sono pochissimi organizzatori, ad eccezione di RCS, che proseguono nella loro opera; fanno fatica a tirare avanti, a far quadrare i conti, per questo mi domando: se si continua di questo passo spariscono le corse, e se spariscono tutte quelle corse di contorno cosa ci rimane? La Strade Bianche, la Tirreno-Adriatico, la Milano-Sanremo, il Giro d’Italia e il Lombardia. Un movimento così vasto e complesso ha bisogno dello sforzo congiunto di tutti gli attori, i quali necessitano di una figura che li faccia sedere intorno allo stesso tavolo: se non si dialoga, se non si conosce, se non si propone, allora il movimento muore. Mancano carisma, lungimiranza e furbizia per formare un fronte interno compatto e per far sentire la nostra voce in Europa.

Renato Di Rocco è l’attuale presidente della Federazione Ciclistica Italiana. ©BICITV, Twitter

Nelle ultime settimane si rincorrono molte voci riguardo ad una tua candidatura alla presidenza della Federazione Ciclistica Italiana. Cosa ci puoi dire, Silvio?

La realtà delle cose, che è molto semplice: ci sto pensando, non lo nego, ma non ho ancora preso una decisione definitiva. Ormai da diversi anni incasso la fiducia e la stima di molti addetti ai lavori, che mi sollecitano da tempi non sospetti. Fino ad ora, pur con gentilezza, ho sempre declinato, dato che l’impegno televisivo occupava gran parte del mio tempo e mi impediva di prendere in considerazione un’esperienza così prestigiosa ed onerosa. Il consenso mi fa piacere, ci mancherebbe, ma non basta: bisogna conoscere certi meccanismi, bisogna studiare, bisogna formare una squadra affiatata, bisogna mettere in piedi un progetto concreto. Se la memoria non m’inganna, nessun ciclista italiano è mai riuscito a diventare presidente della Federciclo, a testimonianza di quanto contino poco la carriera, i successi, la notorietà e il consenso popolare. Non ho mai nascosto la mia voglia di proseguire nell’incarico federale interrotto nel decennio scorso: avrei preferito un ruolo più tecnico, ma sono sicuro che nei prossimi mesi sarò in grado di chiarire i miei dubbi e di sciogliere le riserve. Per il momento non ho altro da dire: serve pazienza e serve tempo, per tutto.

Hai l’impressione di impattare contro un sistema forte, consolidato, che a più riprese e da personalità diverse è stato definito anche vecchio e stantio?

Se mai dovessi intraprendere questa avventura, lo farò con spirito di servizio: per volontà personale, certo, ma anche per assecondare e dare un seguito ad una richiesta che negli ultimi anni si è fatta sempre più impellente. Non ho nessun interesse particolare nel concorrere per la presidenza della Federazione Ciclistica Italiana. Qualcuno mi ha fatto notare che potrei pure rimanere in disparte, farmi gli affari miei e non pregiudicare la stima che mi sono guadagnato in tanti anni di carriera: una sorta di “ma chi te lo fa fare”, insomma. Ecco, “ma chi me lo fa fare” è una frase che proprio non m’appartiene: se la memoria non m’inganna, l’ho detta soltanto una volta tanti anni fa e non riguardava il ciclismo. Io credo che il movimento ciclistico italiano abbia bisogno di un cambio di passo. Reputo Renato Di Rocco e i membri del board che lo circondano dei professionisti di altissimo livello i quali, probabilmente, hanno già dato il loro meglio, tutto quello che di importante potevano dare. Lo dico col massimo rispetto, non voglio cadere in stupide polemiche. Questo non significa che l’uomo del cambiamento debba essere necessariamente Silvio Martinello. Io per primo non conosco la decisione che prenderò: la fretta sciuperebbe tutto, quindi dovrete aspettare. Quello che so è che il movimento ciclistico italiano non può più rimandare certe questioni: è tempo di cambiare.

 

 

Foto in evidenza: ©SportFair

Davide Bernardini

Davide Bernardini

Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.