Chris Froome: i suoi dèi, i suoi demoni

Dopo un lungo periodo di inattività, Chris Froome torna finalmente a correre.

 

 

L’ultima corsa disputata da Chris Froome è datata 11 giugno 2019. Il 25 ottobre dello stesso anno è tornato a pedalare con la maglia della sua squadra, ma ha poco senso tenerne conto: fu la cronometro di esibizione che apriva il “Criterium di Saitama”.

Quel giorno, Froome sfilò in bicicletta con i compagni del Team Ineos Castroviejo e Bernal, ma più che mostrare gambe depilate e una condizione di forma eccellente evidenziò difficoltà e cicatrici, a pochi mesi dal grave incidente in Francia e qualche settimana dopo un infortunio domestico: con un coltello da cucina si lacerò il tendine della mano sinistra. Dopo aver preso parte a quella pedalata non competitiva, organizzata dagli sponsor come contorno all’evento, avrebbe dovuto correre anche nella gara in linea organizzata da ASO il giorno successivo.

Andò diversamente dal piano prefissato: ultimo classificato in quella kermesse a squadre, scese a più miti consigli e l’indomani preferì non gareggiare. «Non sono in condizione di pedalare in gruppo nemmeno durante il Criterium di Saitama» disse, ancora timoroso e frastornato dal suo primo ritorno in sella davanti a un vasto pubblico. «La corsa richiede continui rilanci all’uscita dalle curve, rilanci che al momento non sono in grado di affrontare: pedalo a livello di un cicloturista». Considerato quello che gli era successo quattro mesi e mezzo prima nella ricognizione della cronometro al Criterium del Delfinato, la sua scelta suonò come ineccepibile.

In pellegrinaggio

©Chris Froome, Instagram

In quei giorni giapponesi, Chris Froome si arrampicò con la sua bici sul Monte Fuji. Più che per cercare ispirazione o redenzione, fu un modo per testare alcuni punti chiave del circuito della prova in linea di Tokyo 2020. Sulla Montagna Sacra, un tempo viaggio verso la purificazione e ora meta per turisti o terreno per sportivi di ogni genere, Froome pedalò sotto una pioggia battente e un vento all’apparenza sospinto dagli dèi adorati nei santuari che costellano il vulcano simbolo nazionale.

Quell’uscita in bici, insieme ad alcuni colleghi – con lui: Fuglsang, Bardet e Kwiatkowski -, era sintonizzata verso il recupero, alla ricerca di sensazioni assopite nelle settimane lontano dalla bicicletta. La sua assenza dalle corse era diventata così lunga ed estenuante che finì quasi per cancellare le opinioni sempre discordanti su Froome uomo e corridore, rendendo quel blasone conquistato negli anni oramai un vago ricordo e lasciando più di qualche dubbio, come vedremo, sul suo possibile rientro in gruppo.

I numeri suonano come un gancio dritto sul muso

Il 23 febbraio 2020 all UAE Tour, Froome attaccherà finalmente il numero sulla sua maglia rossonera: saranno passati duecentocinquantasette giorni dall’ultima volta. Tanti persino per chi, come lui, negli anni ha messo un cerchio su poche corse all’anno e dove il Tour de France ha sempre svolto un ruolo centrale fino a diventare quasi un’ossessione. Una scomparsa dai campi di gara anche per chi, con quel suo modo maniacale, quasi giapponese, di allenarsi, ha spesso relegato le altre corse a mera preparazione o rifinitura della condizione in vista del suo obiettivo principale. Un modo di correre e di comportarsi che negli anni ha attirato feroci critiche e che difficilmente ha scaldato il cuore dei tifosi. Anche se, rimarchiamo, in questo caso la prolungata assenza non è dovuta al metodo di approccio alle corse, quanto a causa dell’arcinoto incidente in terra di Francia.

©Chris Froome, Twitter

Vogliamo però essere spietati, usando i numeri come fossero un jab ben assestato alla mascella del quattro volte vincitore del Tour?

Allora mettiamo a referto un knock-out tecnico per il diafano Froome: l’ultima volta che il britannico ha esultato in una corsa è stato il 25 maggio del 2018. Nel momento in cui Froome riassaporerà la gioia di una corsa ufficiale, saranno passati seicentotrentasette giorni dall’attacco alla maglia rosa sul Colle delle Finestre e l’arrivo festante, quasi incredulo, sul traguardo di Bardonecchia. Un Froome, quella volta, rivestito di una maglia bianca con striscia celeste orizzontale che lo faceva sembrare una caramella uscita storta dal pacchetto. Fu una delle imprese più belle del ciclismo contemporaneo, è innegabile, che fece acquisire al corridore britannico diversi tifosi che prima magari lo snobbavano – difficile pensare che abbia iniziato a sostenerlo chi invece gli lanciava piscio in faccia al Tour o lo riempiva di ululati e sputi.

Due giorni dopo la vittoria in Piemonte, Froome festeggia, con il Colosseo sullo sfondo, la conquista della corsa rosa, mentre Bennett in volata era una grossa ombra che cercava di oscurare sia lui che Viviani. Parlavamo di numeri, rincariamo la dose: tra il Giro d’Italia vinto e la caduta al Delfinato, Chris Froome ha disputato cinquantaquattro giorni di corsa in tredici mesi: pochi, pochissimi; numeri che in questa circostanza nulla hanno a che vedere con l’infortunio, ma esclusivamente viziati dal tourcentrismo esasperato che ha permeato gran parte della carriera del britannico, giusto con qualche eccezione.

Dopo quel Giro, più niente

©Giro d’Italia, Twitter

Trionfatore del Giro d’Italia 2018, Chris Froome non è più riuscito a togliersi alcuna soddisfazione personale, non riuscendo mai ad esultare da quando il Team Sky è diventato Team INEOS. Tornando a quel 2018, oltre alla riconciliazione col pubblico italiano, da anni diviso tra amore, odio o semplice rispetto, lo sgraziato ma efficace Froome gettava il guanto di sfida verso la conquista del Santo Graal del ciclismo: l’accoppiata Giro-Tour.

Ma in Francia le cose iniziano a prendere una piega diversa rispetto a quello a cui era abituato: cade nella prima tappa, perde un minuto, e di fatto Thomas lo scavalca nelle gerarchie. Gli dèi del ciclismo si sono messi a confabulare contro di lui? Sia ben chiaro, non ci crediamo. Il ciclismo è un fatto reale, gli astri possono posizionarsi a loro piacimento formando un tetto di stelle sopra la nostra testa, ma di certo non hanno la capacità di influenzare o sciogliere gli enigmi di chi pedala su una bici da corsa. Il Tour 2018, difatti, non ha alcuna lettura complicata, né che trascende la forma fisica e terrena: Froome, semplicemente, dopo gli sforzi del Giro non è in grado di fare la differenza in Francia e di recuperare terreno dopo la caduta del primo giorno e diventa così guardaspalle di Geraint Thomas. Corridore, il gallese, meno talentuoso, mediatico, divisivo e ricco di fascino rispetto al quattro volte vincitore del Tour. Ma d’altra parte nel Team Sky si ragiona così: si fa presto a scalare le gerarchie o a ritrovarsi a lavorare per altri e Froome non si tira indietro se c’è da dare una mano a un compagno. Si ragiona per la squadra, non per quello che rappresenta un singolo corridore. Magari Froome ha aiutato malvolentieri in altre occasioni il leader designato, ma lo ha fatto; magari rischiando di mandare a casa il proprio capitano, come nel Tour del 2012, ma quello era un Froome diverso, come diversi erano gli dèi che lo spingevano e i demoni da combattere. Te ne accorgevi solo a guardarlo negli occhi: non era un altro corridore e basta, era un altro uomo.

Alla fine di quella Boucle viene poi bruciato da Dumoulin di qualche decimo nella cronometro finale – nemmeno una soddisfazione personale – per chiudere il 2018 al Tour of Britain, corsa disputata perlopiù per onore di firma e sponsor.

Le cadute degli dèi

©Team GB, Twitter

A inizio 2019 si presentava alla stampa parlando ancora di Giro d’Italia («Non gareggio così spesso in Italia, ma farlo è stata un’esperienza fantastica: per come è andata e per come sono stato accolto. Però vi assicuro che quella dell’anno scorso non è stata la mia ultima partecipazione al Giro. Tornerò») e spostando i suoi obiettivi fino al 2020. «Mi piacerebbe vincere l’oro a Tokyo». In quella stagione avrebbe però puntato, di nuovo, solo ed esclusivamente al Tour de France, all’inseguimento del quinto successo: ossessione, perversione, in cuor suo ancora scottato per aver fatto da gregario a Thomas l’anno prima.

I direttori tecnici e sportivi della squadra britannica ripetono che da loro si corre per il più in forma e non importa se ti chiami Froome, Thomas, Wiggins o Bernal. L’obiettivo per il corridore nato a Nairobi quasi trentacinque anni fa diventa quello di essere nuovamente il più forte, il più in forma e vestire i panni del capitano al Tour. In barba ai Thomas o ai Bernal o a chiunque altro osi mettersi tra lui e il suo obiettivo.

Ma dietro le nuvole c’è un’alba fredda, un sole pallido, presagio di una stagione che prende da subito una piega strana. Al Colombia 2.1 pedala indietro nel gruppo alla ricerca della condizione e del ritmo, con un obiettivo lontano come un puntino che si perde all’orizzonte. Coinvolto in una caduta prima di scalare le montagne, si ritrova a fare da gregario ad Egan Bernal: segnali inquietanti in attesa di miglior sorte. In più, rivelano gli allenatori, «la troppa voglia di strafare lo hanno condizionato: nei primi giorni di corsa ha svolto lavori troppo pesanti che gli si sono ritorti contro». Chris Froome è anche, o soprattutto, questo: un lavoratore instancabile capace di distruggersi in bicicletta.

Il fato, nel frattempo, continuava a ridersela alle sue spalle: una sorta di meschina macchinazione, oppure più semplicemente il conto che si paga quando spesso non si eccelle nella guida della bici; e col passare degli anni, con il susseguirsi delle cadute, c’è il rischio anche di perdere la fiducia nella guida del proprio mezzo. Subentra così una sorta di negatività che ti condiziona, come quando l’attaccante non riesce a mettere il pallone in rete per un lungo periodo. I critici la definirebbero “ansia da prestazione”.

I riflessi, fisiologicamente, non sono più quelli di prima ed è così che alla Volta Catalunya cade di nuovo. È la seconda tappa, mancano due chilometri al traguardo e in un tratto caratterizzato dal alcuni lavori sulla sede stradale, il britannico va giù, perde quattordici minuti e dal giorno dopo veste nuovamente il ruolo di aiutante di Egan Bernal; ma non solo: si mette a disposizione persino di Sosa e Sivakov.

Pavel Sivakov
©Bergamaschi Photo

La notizia è che al Tour of Alps, terza corsa della stagione a cui prende parte, nonostante le discese rese complicate dalla pioggia e il naturale nervosismo in corsa, Froome evita le cadute come un marinaio di comprovata esperienza si distingue nel mare in burrasca. Anche in Trentino, però, è di nuovo gregario – o chioccia, fate voi – dei più giovani compagni di squadra. Sembrerebbe tutto pianificato: nelle corse minori Froome aiuta i suoi delfini, per poi vedere ricambiato il favore in Francia. La condizione è lontana dall’essere quella migliore: ma d’altronde il suo obiettivo è solo il Tour. Un unico lampo: nella tappa con arrivo a Baselga di Pinè risponde agli attacchi di Nibali, prima di mettersi davanti a selezionare il gruppo. A fine corsa si dice contento per la vittoria in classifica finale del giovane compagno di squadra Sivakov e delle risposte date dalla sua condizione atletica: a luglio, con queste sensazioni, Froome andrà oltralpe per vincere.

Al Tour de Yorkshire, nel mese di maggio, pedala bene, resta in piedi nonostante la pioggia, gli avversari che si sdraiano per terra a ogni curva, le stradine infide – nulla rispetto a quello che troveranno al Mondiale qualche settimana dopo. Un altro tassello nel lungo cammino che porta in Francia.

Arriva così la prova generale del Criterium del Delfinato, dove Froome vuole dare sfoggio della sua condizione. Parliamo di un corridore che questa corsa l’ha vinta tre volte, riuscendo per tre volte nell’accoppiata con il Tour: una sfida alla scaramanzia, compagna di viaggio di ogni atleta, avversaria o alleata a seconda di come si mettono le cose. E per lui si mettono male, di nuovo, dopo un inizio convincente.

Tre tappe passate tra la pancia e la testa del gruppo, poi arriva il giorno della cronometro. Froome, meticoloso, in mattinata sta provando il percorso. Tempo dopo, racconterà così l’accaduto: «Mi stavo soffiando il naso, quando all’improvviso una folata di vento ha travolto in pieno la ruota anteriore, mi ha fatto sbandare e sono finito contro un muretto». Soccorso dai membri dello staff che lo stavano seguendo, le condizioni sono subito sembrate gravi. Brailsford comunica che a causa delle fratture e delle botte subite, il britannico non avrebbe potuto prendere parte al Tour. Fratture al bacino, al femore e al gomito destro, oltre ad alcune costole rotte e, come riportato da Remi Philippot, capo chirurgo dell’ospedale in cui il corridore era ricoverato, anche alcuni danni interni: verdetto da incubo. Poels e Daniel Martin, che avevano assistito all’incidente, parleranno di miracolo per l’ossuto Chris, in quanto se l’era cavata “solo” con qualche frattura. Definirono l’incidente «spettacolare, drammatico, spaventoso».

Risalire

Inizia così per lui un lento recupero, la processione di una lumaca che risale il marciapiede dopo una rinfrescante pioggia estiva. Quell’incidente gli lascerà dentro il femore alcune viti che gli terranno compagnia per tutta la sua esistenza.

Ci si domanda cosa ne sarà del suo futuro da corridore e uno dei direttori sportivi del Team Ineos, Nicolas Portal, a metà dicembre ammette: «Froome tornerà, ma l’incidente è stato così grave che difficilmente sarà al 100%». In più, se le nuove leve prima spingevano alle sue spalle, ora sembrano averlo superato anche nelle gerarchie di casa. Di diverse lunghezze.

Sibillina, la Gazzetta dello Sport, prova a rispondere ai dubbi seminati e a inizio 2020 scrive di un Froome che avrebbe pensato persino al ritiro. Il frastuono dei media, successivamente, racconta di un corridore in difficoltà nelle sue prime uscite di gennaio al caldo delle Canarie con la sua squadra. Dario David Cioni, altro tecnico della squadra britannica, intervistato da Bicisport parla dei problemi del suo corridore: «Purtroppo il recupero di Froome non procede bene. È stato con noi fino a pochi giorni fa, ma la condizione precaria e l’impossibilità di fare certi sforzi in bicicletta lo hanno costretto a fermarsi e a lasciare anticipatamente il training camp. Dopo l’ultimo intervento ha sofferto più del previsto e le conseguenze non sono state positive. È difficile immaginare cosa potrà succedere, perché recuperare da un incidente così grave non è una passeggiata».

Qualche settimana dopo, il sito ufficiale della squadra manda in onda un rassicurante video in cui Chris Froome racconta di aver recuperato a pieno, che il suo obiettivo è solo il Tour de France, che per la partenza di Nizza la sua condizione sarà al cento percento (così spera) e che quello che gli è successo in questi mesi è stato duro da superare, ma gli ha fatto conoscere una nuova parte di sé stesso, gli ha permesso di passare l’estate in famiglia, oltre a essere stato il naturale processo sulla via del recupero. Rinfrancanti banalità.

Che ne sarà di Froome?

©Team Ineos, Twitter

Il centro del suo mondo ciclistico, anche in questo 2020, sarà dunque il Tour de France. Il corridore correrà il rischio, calcolato, di presentarsi per l’ennesima volta a un solo appuntamento stagionale: conosce così bene se stesso da valutare come il numero di cartucce disponibili sia limitato alla corsa francese.

I suoi rivali diretti in questo momento gli sono superiori, è innegabile. Non hanno solo le sembianze dei suoi compagni di squadra (Bernal su tutti), ma hanno un volto da bambino (Pogačar), sono le ambizioni di chi si vede come favorito assoluto della corsa francese (Roglič), hanno la forma della rivalsa di chi è partito forte con la nuova maglia (Quintana); ma potrebbero, chissà, assumere l’immagine di chi, ferito, si è visto poco (Pinot), o di chi, malconcio, non si è visto proprio (Dumoulin). Quella di Chris Froome appare un’impresa difficile da realizzare, almeno ai nostri occhi.

Insieme a Nibali e Contador è stato il più forte e vincente corridore da grandi corse a tappe della sua epoca, ma ciò non gli dà alcun diritto divino nell’essere favorito al Tour 2020. Ha assunto aspetti da robot nel suo dominio, ma quando ce n’è stato bisogno ha colpito con la fantasia, mostrando lampi di classe assoluta nei momenti più difficili. Riuscirà a conquistare la quinta maglia gialla a trentacinque anni suonati? Diventerebbe il secondo vincitore più vecchio di sempre nella corsa francese e in un momento in cui il ciclismo racconta, in tutte le salse, il proprio cambio generazionale, un successo sarebbe quantomeno qualcosa di incredibile. Il successo, in realtà, è già vederlo pedalare in gruppo.

Difficile immaginarlo sul gradino più alto del podio del Tour de France: ma d’altronde, chi se lo sarebbe aspettato quattro volte maglia gialla a Parigi dopo averlo visto arrancare, quando era giovane, sul San Luca al Giro 2009 o squalificato perché trovato aggrappato a una moto durante la scalata del Mortirolo al Giro 2010? Chi se lo sarebbe aspettato capace di ribaltare il Giro 2018 in quella maniera?

Kichwa ngumu

©https://www.cyclosport.org/

David Kinjah, il suo primo allenatore in Kenya, racconta che pur avendo dimostrato buone doti da corridore, Chris si distingueva per essere un grande lavoratore, che arrivava sempre qualche spanna davanti agli altri con la testa, con il duro lavoro, ma che spesso chi stava attorno a lui rideva e lo prendeva in giro per il suo stile in bici: «Così magro, con quei gomiti che sembrava stesse per prendere il volo».

Chris Froome quel volo lo ha preso e di quello stile ne ha fatto un marchio. È entrato nella storia del ciclismo e ha intenzione di restarci ancora. Kichwa ngumu, “testa dura”, lo chiamavano in quel periodo in Kenya, dove più che il talento poteva la sua determinazione. A luglio quella testa proverà a dare un’altra risposta, sempre che non ci si accorga prima dell’impossibilità della cosa.

E a quel punto Chris Froome potrebbe farsi da parte per correre in appoggio ai suoi compagni, finendo come aveva cominciato, quando a malincuore scortava Wiggins sulle salite francesi. Potrebbe ritrovarsi a combattere contro i suoi demoni o prendere forza dagli déi, quelli che lo spingono dall’interno e che hanno trasformato un ragazzo bianco cresciuto in Africa in un corridore capace contro ogni pronostico di vincere quattro volte il Tour de France. Noi non crediamo possa conquistare di nuovo la maglia gialla, ma l’importante è che ci creda lui, come ha sempre fatto.

 

 

Foto in evidenza: ©Team Ineos, Facebook

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.