Lachlan Morton cerca risposte scorrendo via dai vincoli di un normale corridore.

 

 

Estate 2019, per la precisione è il mese di luglio. Diversi corridori si stanno preparando a disputare il Tour de France, altri seguono programmi differenti, tra scarico e stacco; Lachlan Morton non fa parte di nessuno di questi gruppi di lavoro. Altrove con la mente, e con il fisico tirato al massimo, il ragazzo australiano è pronto a uno sforzo in bicicletta che ha ben poco a che vedere con l’affrontare competizioni agonistiche o mettersi in gioco nelle classifiche e rimpinguare palmarès.

I suoi princìpi sono sempre stati diametralmente opposti rispetto alla tradizione e in quei giorni fuoriescono copiosi come succo da un limone ben spremuto. Mettere una spilla a un numero da applicare alla maglietta o studiare una tattica a tavolino? Problemi che non lo sfiorano neppure. Presenziare al foglio-firma su un palco allestito nella piazza di una città, in mezzo a bandierine che fremono, e tifosi colorati che scalpitano urlando i nomi dei corridori più conosciuti? Mentirebbe se si dicesse interessato. Dormire in hotel di lusso (a volte) o girare in mega bus che ti portano a spasso e ti viziano come se fossi la star di un gruppo in voga sin dagli anni ’70? Niente di tutto ciò ha mai fatto parte della sua edificazione, e mai come in quelle ore risultano essere concetti lontani da lui, come appartenenti a vite vissute da qualcun altro.

©Jeremy Whittle, Twitter

In quei giorni di luglio quello che si propone davanti ai suoi occhi, nella sua mappa mentale, è un disegno che ha sempre a che fare con la bici, ma con un assetto diverso, una visione agli antipodi: qualcosa che lo riavvicina alla sua idea di ciclismo e che negli anni pensava di avere smarrito nel nome di gesti e azioni quotidiane a cui non ha mai creduto.

Il mondo visto con gli occhi del ciclista professionista gli sfuggiva dalle dita perché gliene sfuggiva il senso, pungolandolo dentro come una lama affilata che quando raschia rischia di arrivare fino al midollo. Essere sballottato da un luogo a un altro visitando luoghi da sogno, ma con gli occhi attaccati al finestrino di un bus, oppure con la velocità di un gruppo lanciato a millemila all’ora attento a quello che ti corre davanti, a quello che ti succede in corsa, ai bisogni del tuo capitano: niente di tutto questo gli era mai appartenuto.

Negli ultimi anni, è vero, si adattato un po’ di più, normale trasformazione per un ragazzo che si è fatto uomo, e con un occhio al portafoglio, non solo perché ora i peli sul viso non riesce più a contarli e nonostante il naturale processo di cambiamento – chiamatela, volendo, maturità – Lachlan Morton, in corsa, continua a pensare sia più gratificante fermarsi a bere una birra in un camper, a salutare e abbracciare quei tifosi matti come o più di lui, per essere arrivati fino in quel punto della salita, o a farsi raccontare aneddoti sul bancone di un pub lungo la strada, ingurgitando patatine fritte e rifritte nello strutto.

Non è un duro viaggiare

«Avventura, amicizia, divertimento» sono invece i concetti che più contano per il corridore australiano: la sua sensibilità viene scossa e stimolata in eventi «a cui tutti possono partecipare». Un ciclismo che per lui ha senso solo quando «viene coinvolta un’intera comunità di persone, e non il gruppo dei professionisti», e il GBDuro, per lui, diventa «l’avventura più incredibile della mia vita». Quella competizione lo cattura in quei giorni di luglio; ispira lui e centinaia di altri pazzi, amanti della bici e di esperienze fuori dall’ordinario, che ti mettono alla prova anche se a fine giornata non c’è una miss che con un sorriso prova a rendere più sensato il tuo sforzo in bicicletta o un mazzo di fiori da esibire davanti alla platea festante.

Il mezzo usato è una Cannondale griffata Education First, da lì non si sfugge, ma con un bikepacking come unico supporto. L’esercizio è una lunga pedalata – se vogliamo chiamarla così – da Land’s End a John O’Groats: oltre duemila chilometri da un’estremità all’altra dell’isola britannica. Dal Sud dell’Inghilterra fino alla punta nord della Scozia affrontando percorsi su strada e fuoristrada, di giorno e di notte, sotto la pioggia o con un pallido sole, in mezzo a quella nebbia che puzza di uovo marcio e che a volte sembra inghiottirti con il rischio di restare ore ad aspettare di essere risputato.

Pedala per centinaia di chilometri al giorno: la prima tappa dura trentadue ore per seicentoquaranta chilometri, la seconda quattrocentosettanta chilometri percorsi in trentatré ore, dormendo un’oretta scarsa in una buca, mentre il terzo giorno, dopo aver trovato occupato ogni posto in diversi B&B, bivaccherà all’interno di una siepe.

Si ferma per strada a conoscere e salutare cicloturisti che lo incrociano, altri lo seguono dopo averlo intercettato tramite il GPS che segnava il suo percorso; nelle pause a volte mangia sushi, prima di chiudersi in un sacco a pelo cercando di recuperare il più possibile; accende fuochi, sfida corsi d’acqua che gli tagliano la strada e riempie borracce alle fontane come fosse ciclismo di una volta, o nelle tea room, come fosse ciclismo scritto da Lewis Carroll.

Rouleur e CyclingTips confezionano dei reportage corredati da meravigliose fotografie: lo puoi vedere all’interno di un negozio mentre acquista da mangiare e da bere, sorridere in una tenda assieme ad altri come lui, oppure lanciarsi in discesa in solitaria in mezzo a percorsi a malapena battuti per il transito dei carri. Lo trovi a piedi nudi a riparare la bici e a dare un po’ di respiro e riposo alle sue fette, oppure risalire tratti con sassi grandi come gli scogli che affrontava scalzo nella sua gioventù australiana. Lo vedi persino mangiare pizza in città, in uno dei rari momenti lontano dalla concezione estrema di quella corsa, oppure fermare auto per chiedere indicazioni.

©Gus Morton e Scott Mitchell, via Cycling Tips

Diapositive in bianco e nero di un’avventura dal sapore wild style, dove di lisergico non c’erano quadratini di carta da applicare sulla lingua o nemmeno una colonna sonora con infiniti assoli di chitarra o batteria o lunghi parka verde militare, ma una maglia fluorescente e l’idea che lui ha del mondo e che gli anni passati da professionista non hanno fatto che alimentare. Quella voglia di espressione estrema a cui è sempre stato abituato, come quando era poco più che adolescente e insieme a un amico partiva al chiaro di luna per pedalare sette ore fino all’alba tra i sentieri che si gettano in mezzo agli australian bush, la tipica boscaglia australiana.

O quando disputava, per sfida, cronometro individuali in piena notte sul Sydney Harbour Bridge, mentre l’alba lo rinfrancava e rinfrescava e si sentiva rinato. Tornando a casa da uno di quei giri, i suoi genitori una prima volta sgranarono gli occhi, ma poi in qualche modo appiccarono quel fuoco, tanto da portare avanti un progetto dedicato ai giovani ciclisti del suo paese, fondando una squadra juniores, la Real Aussie Kids, e dando persino la possibilità ai ragazzi più capaci di andare fino in Colorado per sfidare i coetanei americani. E lui, insieme a suo fratello Gus, era il migliore in quel contesto, e proprio negli Stati Uniti pose le basi per emergere come corridore.

Luna triste

Con quel manicomio di ricci ben curati, fosse un ragazzo di borgata lo chiameremmo “riccetto”, gli occhi rotondi come una moneta da due euro: è sempre stato impossibile non notarlo, soprannominato persino “il Bob Dylan della bicicletta” per la sua voglia di raccontare la ribellione generazionale, possibilmente con una bottiglia di whisky nella tasca della camicia. «È confortante sapere che ce l’ho dietro», raccontava tempo fa in una lunga intervista apparsa su una rivista americana specializzata nel mondo della bicicletta. Era un servizio dedicato in larga parte al rapporto tra lui e suo fratello Angus, detto “Gus”, tre anni più grande, ex professionista di discreto livello ritiratosi giovane per diventare regista di cinema, documentari e serie tv. E proprio questa passione, unita al talento per le immagini costruite con una cinepresa sulle spalle, serve a Gus per raccontare un viaggio di dodici giorni da casa loro, Port Macquarie, fino a Uluru, il monolite di roccia all’interno del parco nazionale Uluru-Kata Tjuta e sacro al popolo aborigeno Pitjantjatjara.

Era il 2014 e Lachlan era da poco sbarcato nel World Tour, ma da lì a pochi mesi avrebbe deciso di tornare indietro. Un itinerario portato a compimento su mezzi costruiti per l’occasione recuperando parti di altre biciclette – dette frankenbikes – adattate ai terreni sconnessi, con un dietro-macchina a volte furioso in scia a un SUV noleggiato per l’occasione e guidato da due loro amici che si firmeranno anche come produttori e fotografi del viaggio. Oltre duemila chilometri con lunghe pause per bere birra ghiacciata, fermandosi nei bar lungo la strada ad ascoltare gruppi folk suonare la chitarra, oppure «risvegli complicati con la testa ovattata dal post-sbornia a causa del discutibile vino locale», scriveva di suo pugno Lachlan Morton sulle pagine di CyclingTips.

Hanno incrociato storie di allevatori di maiali e tosatori di pecora, come quella di Trevor “Snowy” Harris, alcolista e analfabeta, con la passione delle sculture con le quali ha arredato casa, che convive da anni con un cancro al pancreas, nonostante il dottore gli avesse dato solo sei mesi di vita. Hanno conosciuto minatori che vivono nelle roulotte, fermi a causa della rottura nell’impianto di perforazione, oppure ragazzi che spendevano la loro liquidazione festeggiando al Great Western Hotel.

©Gus Morton e Scott Mitchell, via Cycling Tips

Hanno fatto «trekking in uno dei luoghi più inospitali del mondo; quattro, cinque ore senza che io e mio fratello riuscissimo a scambiarci una parola e con il vento che ci soffiava in faccia a oltre cinquanta chilometri orari». Hanno sparato col fucile nella tenuta di alcuni proprietari terrieri, si sono attaccati all’auto facendosi riprendere dalla telecamera mentre si cimentano nel wakeboarding; si sono imbattuti in altri personaggi: come Bob, sessantotto anni, cinquantadue dei quali passati a lavorare in ferrovia e che dall’età di diciotto anni ha bevuto in media diciannove pinte di birra al giorno. E anche loro di birra ne hanno trangugiata durante quel viaggio, mentre il sole bruciava quei fisici asciutti che non avrebbero sfigurato nemmeno al Tour de France.

Quel viaggio diventa un documentario dal titolo Thereabouts e dà il via al progetto di Gus Morton incentrato sui viaggi in bicicletta; i due, di nuovo assieme, qualche anno dopo saranno i protagonisti anche di Shadow of the East, un lunga escursione nell’est Europa, dall’Albania fino a Istanbul, passando per Bulgaria, Grecia e Macedonia, e anche in questo caso i personaggi bizzarri incontrati per strada, filmati e documentati, non mancheranno.

Tuttavia, anche il GBDuro è stato documentato, in questo caso da Harry Dowdney che gli fa compagnia in quel viaggio, come uomo legato al marchio Rapha e di conseguenza alla sua squadra, l’Education First. Al termine del viaggio il regista afferma: «la verità è che tutti coloro che gareggiano in eventi come il GBDuro hanno esperienza con questi luoghi e con queste tipologie di avventure, e il fatto che tu sia anche un professionista del WorldTour non ti rende più speciale». E Lachlan Morton, lanciandosi in esperienze che nulla hanno a che fare con quelle dei suoi colleghi del gruppo, cerca proprio questo, quelle risposte che la competizione del ciclismo professionistico non riesce a dargli: essere alla pari, mettersi in gioco, staccare dall’idea opprimente del successo a tutti i costi. «Quello che cerchi di ottenere come ciclista professionista è una carriera per te stesso: fare soldi, vincere gare. Non c’è coinvolgimento nella più ampia comunità ciclistica. Personalmente ho sempre avuto difficoltà a trovare un senso a tutto ciò, oppure uno scopo», racconta Lachlan a Rouleur.

Nel 2019 il GBDuro non gli basta e disputa anche la Leadville Race Series, il Dirty Kanza e la Three Peaks Cyclocross, corse sempre particolari che stimolano il suo ego, pizzicano i polpacci ben depilati e lo divertono un mondo. Si ritrova a scavalcare cancelli in mezzo alla carreggiata, oppure a percorrere in mountain bike muri di sabbia, pedalando con la marcia più leggera possibile, mulinando rapporti da rischiare che la tibia gli trapassi il ginocchio, arrampicandosi come uno di quei colombiani che spopolano nel mondo del ciclismo professionistico. A lui, che, figurarsi, poco importa se la sua figura in gruppo è spesso chiacchierata; oppure se lo tempestano di domande o se, in alcuni casi, viene preso ad esempio. «A me interessa poco quello che dicono in gruppo, mi interessa invece lasciare qualcosa a chi segue il ciclismo; ispirare, ma parliamoci chiaro: io non faccio nulla di che, mica curo il cancro».

Essere bravi mi fa schifo

©Gus Morton e Scott Mitchell, via Cycling Tips

Lachlan Morton ha sempre avuto ispirazioni particolari, ha sempre trovato logorante il mondo del World Tour; così privo di significati da fargli pensare più e più volte di smettere. Si è odiato per quello che stava diventando: coccolato e massaggiato, con la bici pulita da altri, «correndo in giro per il mondo con i soldi di altri e senza aver mai messo mano nemmeno al deragliatore». Quando gli dicono che ha sprecato la sua classe in bici, oppure gli appiccicano l’etichetta di marmocchio viziato come fosse lo zimbello da prendere in giro a scuola, risponde che ciò che gli fa davvero male non sono le critiche negative sul suo talento, ma quelle sulla sua persona, e che quei giudizi si sono insinuati nella sua testa come tarli. «Di vincere una corsa non mi è mai interessato, tanto che se dovessi dire quali sono i dieci momenti migliori del 2019 non indicherei di certo il successo al Tour of Utah». Lui e il mondo agonistico corrono su rette che provano a sfidare la legge, ma che per forza di cose si incontreranno più volte.

A Jonathan Vaughters, invece, sarebbe interessato di più vederlo realizzato in corsa che famoso per la sua attitudine alla Chris McCandless. Quando lo vide per la prima volta, Morton aveva sedici anni e batteva i suoi avversari con facilità; il direttore sportivo dell’allora Garmin aveva deciso di scommettere su di lui. «Phinney aveva appena firmato per un’altra squadra ed ero disperato. Vidi questo ragazzo in una corsa in America e chiamai subito Doug Ellis per dirgli che avevamo trovato quello su cui puntare tutto».

Ma l’incontro tra due personalità stravaganti come le loro fu come moltiplicare per zero: le strade di Morton e Vaughters si separarono per diversi anni: dopo due stagioni nel World Tour con il gruppo Garmin – e alcune stagioni da Under 23 con il vivaio Slipstream (la Chipotle-Solar) – Morton tornerà indietro, andando a correre in una Continental americana.

Se esistesse un mondo in cui Morton fosse interessato a diventare un corridore, in pochi gli starebbero dietro in salita: è fisicamente perfetto per dare battaglia ai più grandi scalatori. Ma è proprio quell’attesa, quel bisbiglio sul suo talento a non piacergli: Lachlan Morton cerca risposte altrove, cerca risposte nel vento, cerca sensazioni che gli portano alla mente quando da ragazzino usciva alle 4.30 di mattina per andare in giro libero con il suo cavallo o ascoltava musica punk nel suo walkman.

©Gus Morton e Scott Mitchell, via Cycling Tips

Riuscireste a immaginarvi uno così imbrigliato dalle regole del mondo professionistico? Lachlan non comprende il concetto di “vedere tutti allo stesso livello, gorgogliare nello stesso coro di avidi di successo“, scrisse un giorno qualcuno, e infatti, dopo le prime vittorie con la maglia della Garmin, i primi ammiccamenti dell’establishment, i primi “questo ragazzo ha tutto per vincere il Tour de France“, Morton esce dal World Tour, medita il ritiro e si rifugia nel mondo meno logorante delle Continental nordamericane. Reputa insopportabile tutto ciò che lo circonda: «Che vita è quella del corridore? Ho cominciato a odiare quello che facevo, odiavo andare in Europa a gareggiare, mi piaceva scalare le montagne in bicicletta, ma la fatica durava giorni e non ne trovavo un senso; e allora mi dicevo: “se questo significa avere talento, essere bravi fa davvero schifo“».

Un corridore

E così, anche se magari rischia di essere superfluo, un esercizio da dare in pasto agli statistici, ci tocca parlare di Morton anche come corridore, perché se non si fosse capito le qualità c’erano. Nel 2010, a diciotto anni, è settimo al Tour of Utah, corsa vinta da Levi Leiphemer davanti a Paco Mancebo. Passa professionista nel 2013 con la squadra di Vaughters, all’epoca la Garmin-Sharp, ma la stagione prima aveva mostrato i suoi denti aguzzi in salita anche tra i migliori dilettanti d’Europa. Arriva secondo nella tappa con arrivo ad Antey-Saint-André, Giro della Valle d’Aosta, e stravinta da Jungels: quel giorno concluse davanti a Masnada, Formolo e Aru. A fine anno, in una intervista apparsa su VeloNation e incentrata sui soliti argomenti – gare e sensazioni -, lui pose in particolare l’accento sul Tour de Guadalupe. «Corsa pazzesca. Quasi tutta sulla costa. C’era gente arrampicata ovunque, corridori locali con il coltello tra i denti; a fine gara mi sono fatto anche il bagno nell’oceano mentre stava arrivando un uragano». Oppure si conferma bizzoso e originale nel raccontare quello che per lui è il miglior modo per prepararsi alle corse. «A Port Martiacque partiamo alle sei di mattina perché è il momento dove vai più forte e poi hai tempo di goderti un bel caffè a fine allenamento».

E come si poteva pensare di costringere uno così dentro una vita perfetta – casa e corse, moglie e figli, qualche trasgressione in cucina nei mesi invernali? Oppure frenarne la voglia di chiedere al fratello e agli amici di gettarsi per migliaia di chilometri in posti inusuali e inospitali, raccontando la sua storia attraverso quella di outsider incontrati lungo la strada, magari per fare di lui un uomo con ambizioni da corridore?

Nella sua prima stagione completa da professionista vince la sua prima corsa al Tour of Utah (cinque vittorie in carriera e tutte in quella corsa): stacca gli avversari sul Monte Nebo e sul traguardo mantiene trentaquattro secondi di distacco su Van Avermaet. Si permette il lusso di parlare con disincanto – non aveva ancora maturato quelle idee fuori dai ranghi – e di mettere davanti alle sue scelte personali quelle ambizioni da corridore vero e proprio, sensazioni e dialettica che col tempo si trasformeranno in un’eco lontano diverse miglia. «Sono felice per la vittoria di tappa, ma soprattutto perché ho conquistato la maglia gialla e questo mette me e i miei compagni di squadra in una posizione di vantaggio». Chiuderà quella corsa nelle zone nobili della classifica lavorando per Tom Danielson, compagno di squadra e vincitore finale.

Ma col tempo tutto quello non sarà più fuga per divertimento ed evasione, oppure soddisfazione per quel mestiere; divenne deterioramento interiore, obblighi da rispettare, domande che lo portarono, a fine 2014, a fare quel passo indietro in carriera che gli darà la spinta per maturare. «Perché quello che tutti vogliono per me non è quello che voglio io?».

Prigioniero

©Pinterest

In quel 2014 cade e si fa male tanto al Tour Down Under quanto al Tour de Romandie e racconta che qualche giorno prima, nel gruppetto, si era messo ad ascoltare musica con l’iPod. «Un collega italiano all’epoca in Lampre, ora all’UAE-Team Emirates, non apprezzò e mi urlò contro di tutto. Era veramente incazzato, io invece ero così rilassato: facevamo parte dello stesso gruppo, ma avevamo in testa melodie diverse».

Finisce che non può andare a correre in Nord America per problemi con il visto, iniziando a sentirsi come un prigioniero. Come serrato in un luogo angusto, per allentare la pressione che gli schiacciava il petto, chiama Rachel, la sua ragazza, a vivere con lui in Europa. «Avere lei vicino mi faceva soffrire di meno, ma mi ha aiutato a capire quanto lei fosse un elemento che non c’entrava nulla con la vita del corridore e quanto quella vita non facesse nemmeno per me». L’ha conquistata suonando per lei Fever Ray e poco dopo è diventata sua moglie; insieme hanno vissuto esperienze ai limiti, come nel suo stile, come quando un’aquila si schiantò sulle loro biciclette legate al portapacchi dell’auto e gliele distrusse.

Firma per due stagioni con la Jelly Belly, dove correrà insieme al fratello tra 2015 e 2016 solo in Nord America, salvo qualche apparizione in corse asiatiche di scarsa rilevanza. Nella seconda stagione con il team americano conquisterà due tappe e la classifica finale del Tour of Utah, precedendo corridori come Costa, Talansky, Atapuma, Dombrowski, Horner e Teuns.

Ritorna nel World Tour, perché di amore e di avventura si può vivere fino a un certo punto: si sente più pronto, più maturo. Sceglie una piccola squadra, la Dimension Data, per procedere a piccoli passi. A fine 2017 correrà il suo primo grande giro: non sarà un’esperienza memorabile, quella Vuelta. Un virus intestinale costringerà la maggior parte dei compagni di squadra a ritirarsi e a vivere in condizioni estreme: cibo razionato e controllato, massima attenzione a troppe cose; solo in tre porteranno al termine quella corsa, lui compreso. «Nel 2017 il mio obiettivo era riprendere confidenza con questo mondo e correre il più possibile; nel 2018 sarà quello di tornare a vincere». Non sarà così, non vincerà nulla, ma sarà solo il tassello mancante per tornare dove tutto era iniziato: in squadra con Jonathan Vaughters.

Gira nel mio cerchio

©Rapha, Facebook

Jonathan Vaughters: «Era esattamente il talento che mi piaceva avere nella nostra squadra». Lo ha voluto con se perché andava forte. Poi spiega così il divorzio: «Lachlan mi piace da morire perché ama divertirsi, è eccentrico, molto intelligente, sempre vivo. Il suo problema è che alla fine di ogni giornata mi diceva di odiare il World Tour. È troppo hardcore e facendo così si è bruciato. Ribadisco: amo la sua stravagante personalità, ma io devo pensare anche a proteggere la mia squadra. È difficile correre al Tour de Romandie sotto la pioggia, soprattutto se devi stare sempre davanti per aiutare il tuo capitano. È difficile, non è divertente. Le gare come il Tour of Utah o la USA Pro Challenge sono gare divertenti, ma ci sono molte gare che non lo sono affatto: sono orribili, sono difficili, ma sono quelle che separano gli adulti dai ragazzi. Penso che quando si è reso conto che quello che faceva non era divertente, allora ha mollato».

Col tempo, le rette con i nomi di Morton e Vaughters scritti sopra si incroceranno nuovamente e nel 2019 il corridore australiano è tornato a far parte della squadra americana – ora Education First -, con Vaughters che ha iniziato ad assecondare lo spirito libero del suo pupillo fino a fargli scegliere un programma su misura. Ha vinto una tappa al Tour of Utah – dove, sennò? – e lo ha lasciato andare senza remore verso quello che a Lachlan Morton piace di più, unendo a tutto la possibilità di monetizzare la passione e la stravaganza del corridore.

Lachlan Morton porta avanti il marchio della sua squadra facendo quello che più gli aggrada in manifestazioni che pochissimo hanno a che vedere con la roulette delle competizioni agonistiche. La partnership tra Education First e Rapha – “la grana che fa andare avanti questo zozzo mondo” – convince entrambi le parti e Lachlan Morton salta a bordo come fosse su una di quelle bici messe assieme per l’occasione.

Nel 2020 Morton, dopo aver disputato le prime corse al caldo australiano con una bici apposita realizzata per lui da Specialized, si stava preparando per la Silk Mountain Road Race in Kyrgyzstan e per la Transcontinental Race. Sempre alla ricerca delle risposte portate dal vento che ne accarezzano quei ricci bruciati dal sole australiano – quel viso che non è più quello da adolescente. E mentre il gruppo si domanda quando si potrà ripartire e fare sul serio, Lachlan Morton ha in testa tutt’altro, magari qualche frase di Bob Dylan, con i Soulwax o qualche vecchio gruppo punk a scandirne il ritmo.

 

 

Foto in evidenza: ©Gus Morton e Scott Mitchell, via Cycling Tips

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.