Per il bene del ciclocross: intervista a Daniele Pontoni

Daniele Pontoni è stato, insieme a Longo, il più forte ciclocrossista italiano.

 

 

Nel parco del colle di San Leonardo a Variano, un paesino in provincia di Udine, Daniele Pontoni allena, tra fango, scalinate e sentieri battuti, i ragazzi della regione. Lo fa seguendo un filo conduttore che unisce la sua carriera di corridore a quella di tecnico. Il suo palmarès, quando in bicicletta battagliava con i grandi della specialità, è impareggiabile – almeno per quanto riguarda il ciclocross italiano. Al termine della sua attività agonistica avrà raccolto successi importantissimi: due campionati del mondo, due classifiche finali del Superprestige, una Coppa del Mondo e diverse corse di spessore in giro per l’Europa.

Oggi, Daniele Pontoni cerca di dare continuità a quella che è stata la sua vita in sella a una bici tra le brughiere di tutta Europa, apportando consapevolezza al movimento e insegnando i segreti di questa disciplina a ragazzi e ragazze che vogliono provare l’attività sul fango. “Insegnare ai ragazzi mi dà la stessa soddisfazione dei miei successi in bicicletta. Quello che hai visto oggi è un progetto che porto avanti da un po’ di anni come tecnico regionale del ciclocross. Una volta a settimana alleno giovani di tutte le categorie. Ogni anno quelli che scelgono di allenarsi con noi sono sempre di più. Ne hai visti una quindicina, ma a volte arriviamo anche a trenta e non solo dal Friuli. Vengono qui persino dal Veneto“, ci racconta con orgoglio.

Con occhi che esprimono tutto il suo magnetico carisma, Pontoni osserva i suoi ragazzi allenarsi su e giù per le stradine che circondano il parco e ci spiega come i genitori siano più tranquilli a vedere i propri figli pedalare in questo luogo delimitato, dove gli unici pericoli sono rappresentati da qualche possibile caduta o sbucciatura. “I genitori spingono i figli verso questa attività. Prima di mettere un ragazzo in strada con la bici ci pensano due volte e allora anche per loro ben venga una giornata così. E poi anche le squadre stesse sono interessate. Una volta i direttori sportivi guardavano con ostracismo la doppia attività; il ciclocross era considerato il fratello minore del ciclismo su strada, mentre ora sto lavorando nel tentativo di cambiare questa mentalità. Per me è fondamentale che un crossista faccia strada e viceversa. Basta vedere in questi anni i risultati di corridori come Štybar, Alaphilippe, Trentin e di quei due fenomeni di van der Poel e Van Aert. Un ciclocrossista deve essere per prima cosa un buon stradista“.

Allenamenti sulla collina di San Leonardo a Variano dei giovani ragazzi seguiti da Daniele Pontoni.

Con il viso temprato da migliaia di chilometri passati a pedalare su fango, ghiaccio e sabbia – “Quella del Belgio mi era proprio indigesta” -, Pontoni ci racconta come insegna ai suoi ragazzi a prendere l’attività crossistica per un divertimento, criticando il modo in cui si corre in Italia sin dalle categorie giovanili. “Si fa tutto troppo sul serio, c’è esasperazione a volte. Ci vorrebbe meno agonismo“.

Prima di terminare l’allenamento, mentre nel parco sta per calare il buio e il sole è una macchia rossastra all’orizzonte che si nasconde dietro alberi vestiti d’autunno, Pontoni scende di bici per preparare un esercizio particolare accolto dai ragazzi e dalle ragazze con risate e qualche impaccio: “Questo serve per migliorare le partenze e correre bene nel traffico!“, spiega – con un misto di leggerezza e suggestione – ai giovani ciclisti accorsi in questo fresco pomeriggio di fine novembre.

All’interno del bar in piazza a Variano, una parete ricorda alcune imprese del crossista friulano.

Ci spostiamo in un bar in piazza a Variano, il paese d’origine di Pontoni, e all’interno del quale lui è di casa – non poteva essere altrimenti. Sul muro sono affissi alcuni ricordi dei suoi successi: la maglia iridata incorniciata, diverse fotografie che lo ritraggono, ritagli di giornale e targhe. Il motivo è semplice: il proprietario del bar, Massimo Paravano, è uno dei colpevoli, come lo definisce scherzosamente Pontoni, di avergli fatto conoscere la bici.

Iniziai a correre in bici nel 1979. Quasi per caso. Massimo era a scuola con me, ed era figlio del presidente del G.S Varianese. All’inizio giocavo anche a calcio, lui mi convinse a salire in bici. Per quattro anni ho fatto entrambi gli sport: era un’epoca in cui era possibile perché le categorie giovanili venivano vissute come un divertimento. Il sabato giocavo a calcio e la domenica correvo in bici. Da esordiente non vinsi nemmeno una corsa, da allievo una al primo anno e tre al secondo, mentre da juniores due e due. Poi con la bici mi fermai per tre anni, giocando a calcio ancora per una stagione. Sono andato in Argentina per un periodo, ho fatto il militare a Tolmezzo, mi sono diplomato all’alberghiero e iniziai a lavorare come cameriere. Poi grazie a Luigi Del Bianco, una delle figure più importanti della mia carriera, ripresi il discorso interrotto con la bicicletta“.

E da lì inizia la scalata verso il vertice del ciclocross mondiale.

Nel 1989 andai a correre con la Zalf. Oltre ad avere affinità col ciclocross, mi difendevo anche su strada. Quattordici vittorie da dilettante, ero forte in salita ma avevo anche un discreto spunto veloce. Ed è al termine di uno sprint che ho conquistato la vittoria più importante su strada e alla quale è legato un ricordo particolare.

Ovvero?

Prima tappa del Giro del Friuli Venezia Giulia, vinco davanti a Cadamuro, uno che spesso dominava gli sprint di gruppo, e vesto la maglia di leader. Di recente ho incontrato Cadamuro a Jesolo e ancora lo prendo in giro per quella vittoria. Quel giorno sbocciò un’amicizia che in altre circostanze non sarebbe mai nata.

Parliamo un po’ della sua carriera nel ciclocross.

Nel 1988, quando ripresi la mia attività agonistica grazie all’aiuto e l’intuito di Luigi del Bianco, vinsi il titolo italiano degli amatori. Nel 1989 il passaggio in Zalf fu la svolta per la mia carriera: senza quel contratto avrei smesso. Tra i dilettanti mi dividevo tra le due attività, strada e cross, ma passato élite mi chiesi: cosa valeva la pena fare? Essere al top nel ciclocross o uno dei tanti nel ciclismo su strada?

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La risposta la conosciamo.

Ho vinto parecchio, nel cross: sedici titoli italiani consecutivi, il mondiale prima tra i dilettanti nel ’92 e poi tra gli élite nel ’97. Diverse prove del Superprestige, la classifica finale del Superprestige in due occasoni e anche una Coppa del Mondo. I mondiali potevano essere di più, anche quattro o cinque. Nel 1999 dovevo vincere, ad esempio, e il ricordo di quella gara me lo porto dietro ancora oggi. Mondiale di Poprad, Slovacchia. Per come stavo mi sentivo il favorito assoluto: il percorso era adatto a me, c’era ghiaccio, si correva con -27° e c’era una salita che solo io riuscivo a fare in bicicletta. Ero davanti e all’improvviso bucai per una spilla caduta a un concorrente. Non riuscii a recuperare. Vinse Mario de Clerq, io arrivai quarto: quella credo sia la più grande delusione agonistica della mia carriera.

Mentre con la mountain bike qual era il suo rapporto?

L’ho fatta con il massimo rispetto della disciplina, ma principalmente perché volevo partecipare ai Giochi Olimpici. Non mi è mai entrata nel sangue.

Sara Casasola: uno dei fiori all’occhiello del movimento ciclocrossistico italiano e della DP66 Giant Selle SMP di Daniele Pontoni. ©Il Ciclista Fotografo

Com’è nato il progetto DP66 Giant Selle SMP e quali sono gli obiettivi che si pone con i suoi ragazzi?

Appena smesso di correre ho avuto subito voglia di buttarmi in un progetto per tramandare la mia passione per il ciclocross ai ragazzi e trasmettere quello che ho imparato nella mia carriera: tecnica, esperienza, ma con alla base sempre il divertimento. Riuscire a dare ai ragazzi quello che ho imparato io negli anni mi dà le stesse soddisfazioni di quando correvo. Da una costola della Trentino Cross è nata la DP66 Selle SMP. Mi sono sobbarcato tutto, prendendo oneri e onori pur di portare questa squadra in regione. L’ho fatto perché mi sento orgogliosamente friulano e vorrei che qui in Friuli nascesse qualcosa di importante per il futuro di questi ragazzi. Noi non guardiamo solo il talento o il lato tecnico di chi viene a correre con noi. Se ci sono situazioni particolari e possiamo dare un aiuto alle famiglie, facciamo anche quello.

Restiamo al Friuli Venezia Giulia. Qui il movimento ciclistico vive un momento che potremmo definire di fermento: non solo nel ciclocross, ma anche su strada grazie al lavoro del Cycling Team Friuli, che sta permettendo a diversi ragazzi di crescere e approdare tra i professionisti, riuscendo anche a dare un contributo alla pista. Senza contare il numero di corridori presenti nel gruppo dei professionisti e la loro qualità, oppure la rinascita di una corsa importante come il Giro del Friuli Venezia Giulia tra i dilettanti. 

Noi abbiamo sempre avuto gli atleti, quello che ci è mancato sono le infrastrutture. Io per esempio ho sempre corso in squadre fuori dalla regione. Ora stiamo colmando diverse lacune. Il Cycling Team Friuli è una squadra da prendere come modello per tutto il movimento giovanile italiano. Ogni anno aggiungono un tassello a un lavoro enorme che fanno da diverse stagioni e oggi rappresentano un’eccellenza assoluta in Italia e con pochi eguali: corse all’estero – fondamentale per la crescita dei giovani – e tanta attività giovanile grazie anche all’esistenza sul territorio italiano di diverse società satellite da cui attingere. Sul Giro del Friuli un grande merito invece va dato all’ASD Libertas Ceresetto. Hanno riemesso in piedi la corsa a tappe giovanile più antica d’Italia grazie al lavoro di Cristian Murro e del presidente Andrea Cecchini: qualcosa di eccezionale.

Per far crescere il movimento del ciclocross in Friuli e in Italia, collabora anche con Enzo Cainero. In che modo vi state muovendo per far conoscere questa meravigliosa disciplina?

Enzo rimane uno dei punti di riferimento assoluti, quando si tratta di ciclismo. Non solo a livello locale, ma anche a livello italiano e internazionale. Di recente abbiamo fatto partire un progetto di gemellaggio tra Monte Fuji e Monte Zoncolan. Siamo stati a fare una spedizione culturale, sportiva ed enogastronomica in Giappone, con cui è nata una grossa sinergia. Con i miei ragazzi nel 2020 andremo a fare delle gare in Giappone legate a questa idea. Ma saranno anche altri i progetti che partiranno sotto la regia di Enzo Cainero. A breve scoprirete tutto.

C’è stata persino l’idea di organizzare un mondiale di ciclocross sul Monte Prat.

L’ha lanciata come battuta il sindaco di Forgaria, ma in concreto non c’è stato nulla. Sul Monte Prat abbiamo disputato un campionato italiano, nel 2016, al limite della praticabilità dal punto di vista della logistica. E senza strutture non è possibile muoversi. Monte Prat come location potrebbe essere sede ideale, ma al momento non ci sono i presupposti nemmeno per un altro campionato italiano. Oltretutto, organizzare un campionato del mondo è estremamente complesso: ci sono costi di copertura altissimi e poi fino al 2025 sono stati già assegnati. Ti svelo, però, che ci sarebbe un altro posto sui cui stiamo lavorando e che sarebbe già pronto, ma si parla dal 2026 in poi.

Quale?

Non posso rivelarlo, però dico solo che sarebbe un posto che in Friuli attirerebbe tanta, ma tanta gente. Oltre che per una questione agonistica, anche per altri motivi e quando conoscerete il nome allora vi renderete conto che potrebbe essere un posto capace di richiamare quaranta o cinquantamila persone. Numeri da Belgio e Olanda, per intenderci.

Lei ha corso contro altri grandi specialisti del cross: da Groenendaal ad Adri van der Poel, da Frischknecht a Nys, passando per Šimunek e Mario de Clerq; ha anticipato persino la rivalità tra Nys e Albert, i successi di Štybar e le battaglie tra van Aert e van der poel. In che modo è cambiato il ciclocross da quando correva lei a quello che vediamo oggi?

In tutto. Io ho smesso quindici anni fa, ma era già un’epoca in cui stavamo vivendo un certo tipo di cambiamento rispetto al passato. Ora abbiamo freni a disco e cambi elettronici, ruote e bici in carbonio. Quello che non è cambiato sono tubolari e pedali. Dal punto di vista mediatico è cambiato tutto l’approccio grazie ai social network, che permettono di conoscere in maniera anche più approfondita la specialità. E poi i percorsi. Dalla fine degli fine anni ’90 ai primi anni 2000 sono diventati molto più veloci. Le medie si sono alzate di cinque, sei chilometri all’ora e abbiamo avuto un periodo in cui le corse vedevano spesso dieci, quindici corridori tutti assieme nell’ultimo giro, questo per via di percorsi troppo facili e veloci che hanno un po’ snaturato e appiattito il ciclocross che piace a me. Tuttavia, nelle ultime stagioni stiamo tornando un po’ al passato: percorsi più complessi, con parecchia sabbia, percorsi più tecnici e meno scorrevoli dove si vede la forza del singolo prevalere sulla tattica di gara. E poi, ovviamente, ci sono quei due fenomeni che spesso e volentieri fanno una corsa a parte.

Un’atleta della DP66 in azione. ©Il Ciclista Fotografo

E nell’interpretazione della corsa cos’è cambiato?

Ora l’atleta singolo riesce a fare più la differenza, mentre negli anni precedenti c’era maggiore equilibrio e vedevamo le squadre più forti che riuscivano a indirizzare la corsa sul binario che volevano. Non vinceva sempre il più forte, ma la tattica faceva sì che davanti si trovasse qualcuno rispetto a un altro.

E gli allenamenti?

La parte atletica ha molto più risalto e assume un valore maggiore rispetto a vent’anni fa. Ma è una costante che si vede anche nelle altre discipline.

Oltre ai nomi citati sopra, lei ha vissuto una grande rivalità interna, ovvero quella con Luca Bramati: ci può raccontare qualche aneddoto su questo dualismo?

Ce ne sarebbero tantissimi. Ce ne siamo dette di ogni colore e ce ne siamo date di santa ragione in pista, ma sono cose che restano tra me e lui. Quando correvamo non ce le siamo mai mandate a dire: siamo arrivati anche alle mani, o quasi. Ora però con lui, la sua famiglia e i suoi figli c’è stima. Per diversi anni non ci siamo parlati, ma ora quando ci ritroviamo nei campi di gara il nostro rapporto è tornato normale, forse anche qualcosa in più.  In gara siamo avversari con le nostre squadre, ma nel dopo corsa ci confrontiamo spesso, parliamo di quello che va o meno nel ciclocross per poter migliorare questa disciplina. E c’è uno scambio importante di idee.

Belgio e Olanda sono sempre state le nazioni riferimento di questo sport, ma fino alla fine degli anni ’90 riuscivano a imporsi in questa disciplina anche Italia, Svizzera, Germania e Francia. Ora, salvo l’inserimento graduale di qualche britannico – parlo principalmente di Pidcock –  abbiamo un dominio totale delle due nazioni sopracitate: da cosa è dovuto questa oligarchia?

Tradizione, forza, serbatoio.  Da loro il ciclocross è un fattore culturale. Da come lo interpretano, dalla mentalità, ma anche per come lo vede la gente che va a seguire gli eventi sul posto. Se tu vai a una gara di ciclocross in Belgio hai sempre almeno quindicimila spettatori. Sono gare, ma prima di tutto sono grandi feste che coinvolgono tutti. I media creano un’attesa incredibile: come il calcio da noi, nulla di diverso. In calendario le corse più importanti si corrono tra Belgio e Olanda. Il Superprestige si corre interamente da loro. La Coppa del Mondo stanno cercando di esportarla in giro, ma non è la stessa cosa. E poi le squadre più importanti sono tutte in Belgio.

Tempo fa, sul nostro sito abbiamo parlato della possibile riforma al calendario che ha in mente l’UCI e che andrebbe a penalizzare DVV e Superprestige e di conseguenza i suoi storici tracciati per favorire la più giovane Coppa del Mondo. Cosa ne pensa?

Da quello che ho letto nella bozza, non la condivido assolutamente. Vorrei capire dove vanno a parare. Per come vogliono strutturarla loro, il problema non è solo snaturare il Superprestige: il problema maggiore è che vai ad ammazzare il settore giovanile, perché con venticinque prove di Coppa del Mondo avresti tutte le domeniche della stagione occupate e questo andrebbe a danneggiare tutto il settore giovanile e tutta l’attività giovanile. E noi, che come movimento italiano facciamo il ciclocross con le briciole, saremmo tagliati fuori completamente da questo sistema, a parte qualche meteora che andrebbe a correre in squadre straniere. E la struttura dei team – oltre a quello del calendario – andrebbe a ricalcare quello che è il World Tour. Un danno enorme per questo sport.

Sven Nys ha conquistato per tredici volte la classifica finale del Superprestige. ©cyclingnews

E il Superprestige?

C’è il rischio che sparisca o che la licenza venga venduta ad altri, perché così non avrebbe spazio e verrebbe ammazzato da questo sistema.

Per lei era più importante vincere una prova di Superprestige o di Coppa del Mondo?

Per la nostra generazione il Superprestige aveva più valore. Le corse del calendario erano quelle storiche ed erano più importanti di quelle di Coppa del Mondo. E poi la competizione era molto più alta. Il Superprestige aveva un sistema di punteggio particolare, lo definirei quasi balordo: il primo prendeva quindici punti, il secondo quattordici, il terzo tredici e così via fino al quindicesimo, che ne prendeva uno. Eri sempre sotto fino all’ultimo e vincere la classifica finale aveva un’importanza enorme: si battagliava con tutti i grandi specialisti con il coltello tra i denti. La Coppa del Mondo aveva importanza solo per il nome. E basta.

Abbiamo parlato del calo di diverse nazioni di vertice a parte Olanda e Belgio.

Rimango esterrefatto per il calo di interesse che c’è stato in questi anni in Svizzera. Quando andavamo noi a correre lì c’era sempre tantissima gente, ora no. La Svizzera ha avuto grandi atleti e un’organizzazione vicina a quelle del Belgio. Ora l’interesse è drasticamente calato in tutte le sue forme. In Repubblica Ceca, invece, la gente ha ricominciato ad appassionarsi e ci sono tante belle gare, seguite da un vasto pubblico. Poi c’è la Spagna, che a me piace tantissimo. Il livello da loro è sempre alto, i percorsi bellissimi, soprattutto nei Paesi Baschi dove il ciclocross è seguito e le corse sono molto sentite.

©Il Ciclista Fotografo

E in Italia qual è la situazione?

Nelle categorie giovanili iniziamo ad avere numeri importanti. Al Giro d’Italia abbiamo fatto oltre tremila spettatori e oltre ottocento partenti in tutte le categorie. Numeri importanti e impensabili fino a qualche anno fa. Anche come organizzazione il livello è cresciuto. Le gare sono ben allestite, iniziano ad avere anche belle coreografie, sono appassionanti anche per il pubblico che segue da bordo pista.  E poi iniziano ad essere numerose: tra Master Cross, Giro e Campionato Italiano hai già dodici prove organizzate bene. Gli europei di Silvelle, poi, alla domenica sono stati davvero un bel successo. C’è stato qualche problemino al sabato con le gare riservate agli amatori, ma la domenica è stato un bel vedere.

Iniziano a esserci anche diverse squadre di qualità. Negli anni c’era solo Guerciotti, che resta un punto di riferimento per il ciclocross italiano; ora stanno nascendo altre società come la mia, quella di Luca Bramati, oppure per citarne un’altra l’ASD Sorgente Pradipozzo e tante altre. E anche al sud si stanno sviluppando società che sfornano fior di atleti. Cominciamo ad avere delle mini strutture, le chiamo così paragonate a quelle che hanno in Belgio e in Olanda, e ci stiamo avviando verso la strada giusta. Il movimento italiano sta iniziando a seminare: chissà che non raccoglieremo frutti importanti nei prossimi anni. Solo un appunto: nelle varie squadre – e qui parlo soprattutto di quelle che corrono su strada –  bisogna capire quanto è fondamentale la doppia attività cross e strada. Devono comprenderlo indirizzando gli atleti affinché possano gettarsi nella multidisciplinarietà.

E come esposizione mediatica a che punto siamo?

Su internet se ne inizia a parlare. In televisione Rai e Bike Channel danno il giusto spazio con Giro d’Italia e Master Cross. Mancano, invece, quasi totalmente i riscontri sulla carta stampata. I giornali sportivi non parlano più di questa specialità, se non il giorno dell’Europeo e del Mondiale. E anche nelle edizioni locali se ne parla, a volte, il lunedì e poi basta. Nonostante la presenza poi di uno come van der Poel, che è un personaggio mediatico a livello mondiale e che andrebbe sfruttato di più anche da noi. Il problema è che, per com’è la concezione dello sport in Italia, il Ciclocross paga una mancanza fondamentale.

Ovvero?

Quello di non avere lo status di sport olimpico. Finché non verrà inserito nei Giochi Olimpici, allora non avrà alcun interesse da noi e sarà sempre uno sport minore, di nicchia, che arranca rispetto ad altre discipline. Il problema è che se ne parla dai tempi in cui correvo io e non è stata ancora trovata una svolta. Il peso politico e degli sponsor non è ancora così importante al di fuori del ristretto mondo del cross.

Tempo fa lessi una riflessione sui circuiti italiani. Per esempio, quelli del Giro d’Italia che venivano definiti poco tecnici e che nulla hanno a che vedere con le grande prove del Superprestige, del DVV o della Coppa del Mondo e che spesso non sono propedeutici alla preparazione verso i grandi eventi internazionali: cosa ne pensa?

Innanzitutto facciamo un distinguo: fino al 2017 era così, ma nel 2018 e nel 2019 la musica è cambiata. Prendiamo il Giro d’Italia di Ciclocross del 2018: le tappe disegnate in regione – quelle di Lignano e Sappada –  si sono svolte su percorsi, belli, impegnativi, tecnici e spettacolari. Quella di Sappada è stata definita come una prova dal valore internazionale. Ma anche quest’anno abbiamo avuto percorsi tecnici, vari: Jesolo, con tanta sabbia, era un percorso vicino a uno di stampo belga. Il percorso di Osoppo, seppur condizionato dalla tantissima pioggia, si è rivelato altamente spettacolare. Anzi, ti dirò di più: i percorsi disegnati in questi due anni in certi casi superano alcune gare che vediamo nel nord Europa.

Abbiamo visto anche che per sfondare a grandi livelli i ragazzi italiani devono andare a correre all’estero. 

Sì, ma per crescere e non bruciarsi bisogna andare per gradi. Non pensare di andare lì e fare tutto in un colpo, altrimenti ottieni l’effetto contrario. È importante andare in Belgio perché i percorsi sono difficili e soprattutto il livello degli avversari è alto e tasti con mano la grande tradizione belga nel ciclocross. Ma dipende dalla mentalità con cui interpreti questa esperienza. A piccoli passi puoi ottenere risultati importanti: quella è la strada da intraprendere.

Mathieu van der Poel e Wout van Aert (BEL) in azione a Valkenburg nel 2016.

Per un ciclocrossista è importante correre su strada, vedi per esempio la crescita di un corridore come Merlier in questa stagione dopo una redditizia attività su strada, ma direi anche viceversa: correre nel ciclocross aiuta poi su strada, vedi van der Poel, van Aert, Pidcock, ma anche il giovane Quinten Hermans. In Italia invece che tipo di approccio si ha nel coniugare le due discipline?

Sono pienamente d’accordo. Con me sfondi una porta aperta: sono un sostenitore della doppia attività. I ciclocrossisti sono prima di tutto dei ciclisti e la base te la fai andando in strada. E ritengo che un grande ciclocrossista debba essere un bravo stradista. Poi deve affinare la tecnica nel fuoristrada: mountain bike e ciclocross, ma la base deve essere la strada. Io spingo su questo argomento, ma purtroppo sono poco ascoltato anche dai miei ragazzi e dalle squadre. Cerco di indirizzarli verso le squadre che fanno strada, ma hanno paura a fare questo passo. Molti hanno come obiettivo la squadra che fa solo cross o mountain bike. E spesso le stesse squadre che contatto non accolgono volentieri i ragazzi che arrivano dal ciclocross.

Perché questo timore da parte degli atleti e da parte delle squadre?

Principalmente perché hanno corso poco su strada e quindi rimangono con questa convinzione di non essere all’altezza; gli manca quel passo che poi non è altro che voglia e coraggio di mettersi in gioco. E spesso questo tipo di atteggiamento lo riscontro anche con le squadre, che a volte possono anche non accettare di buon grado il corridore che arriva dal ciclocross.

Quello che mi dice l’ho ritrovato tempo fa nelle parole di Gioele Bertolini, che ci disse: “la strada non fa per me; sono nato su una bici da ciclocross e quando ho provato a correre su strada mi trovavo solo e senza squadra e soffrivo i rapporti che usano gli stradisti”

Partono con il presupposto del “non ce la faccio”. E non puoi migliorare in due o tre gare. Devi fare una o due stagioni, capendo fino a che punto puoi arrivare. Solo così puoi progredire e rinforzarti. È il discorso dei piccoli passi che ho fatto prima. Serve crescere per gradi, maturare non solo tecnicamente ma anche umanamente. Fare diverse esperienze, insomma.

©Il Ciclista Fotografo

E voi come team DP66 Giant siete propensi alla doppia attività?

Avendolo provato sulla mia pelle, io vado in questa direzione al 100%. Ciclocross per la parte invernale, mountain bike e strada durante tutto l’anno. La tecnica la curi nella mountain bike, ma il colpo di pedale e il fondo te lo danno solo la strada. E in questo senso, ripeto, cerchiamo di indirizzare i nostri ragazzi, una volta conclusa la stagione, verso qualche team che fa ciclismo su strada.

All’europeo di Silvelle, l’Italia ha dato una grande risposta organizzativa e di pubblico e a livello agonistico abbiamo tanti buoni atleti tanto nelle categorie giovanili quanto nella categoria élite femminile: cosa manca per emergere, invece, a livello élite maschile?

Sicuramente il livello di competitività che si ritrova in campo maschile è alto. Ma il problema principale risiede nell’età della nostra nazionale. Se tu vedi i dati anagrafici dei nostri corridori, sono tutti avanti con l’età. Quest’anno abbiamo fatto a meno per un po’ di Bertolini e Dorigoni e alle loro spalle il numero uno in Italia attualmente è Cominelli, che ha passato i trent’anni. Poi questo è un anno particolare per via delle Olimpiadi di Tokyo. Abbiamo perso i fratelli Braidot e Nadir Colledani e quindi all’Euopeo di Silvelle ti sei ritrovato già con cinque buoni atleti in meno. Certo, di sicuro non così forti da giocarsi un titolo, ma comunque una buona base di corridori. Ma qui torniamo al discorso fatto prima: fanno una specialità – in questo caso la mountain bike – andando a precludere l’altra, quando invece dovrebbero andare a braccetto.

A livello femminile Arzuffi e Lechner sono atlete di assoluto livello. Secondo lei quanto può ancora crescere il ciclocross femminile italiano? 

Di Arzuffi e Lechner parlano i risultati, ma lasciami dire una cosa su Arzuffi. Ha una grandissima qualità, la testa, che l’ha portata a ottenere grandi risultati. Alla fine degli anni ’90, quando siamo andati a correre negli Stati Uniti, partivano oltre un centinaio di ragazze. Da noi quando erano dieci erano tante. Ora iniziamo ad avere i numeri. Sono sempre bassi se paragonati ad altri movimenti, ma proprio per questo stiamo facendo grandi cose. Dietro Eva e Alice ci sono ragazze molto interessanti: Casasola, Baroni, la figlia di Luca Bramati, Realini, Papo, Rumac e tante altre ancora. Se riusciranno a proseguire in questo percorso, potranno seguire le orme delle due leader del movimento. I margini di miglioramento del settore femminile sono enormi.

©Il Ciclista Fotografo

Restando sui corridori, le faccio questi nomi: Masciarelli, De Pretto, Toneatti e Pezzo Rosola. Quale futuro potrebbero avere?

Pezzo Rosola attualmente è in una condizione eccezionale ed è un corridore davvero molto interessante. Ha iniziato tardi, ma per il DNA e gli esempi che ha in casa – figlio di Paola Pezzo e Paolo Rosola – non potrà che crescere e diventare ancora più forte.

De Pretto mi piaceva sin dai tempi degli esordienti. Ha tanta grinta, fa troppi errori di esuberanza ma possono starci: è giovane. Poi lui va bene sia su strada che nel cross, quindi ha un bel futuro davanti se si concentrerà su entrambe le discipline.

Masciarelli è un altro che arriva da una famiglia con il ciclismo del sangue. Durante l’inverno vive in Belgio e corre con la squadra di Mario de Clerq. Con lui ne ho parlato un paio di anni fa e lo ha scelto perché in Masciarelli vede qualcosa di importante per il futuro.

Infine Toneatti. Davide ha avuto una stagione di leggera flessione. Al primo anno sta subendo un po’ anche per come è stato preparato fino a questo momento. Ma io lo ripeto sempre: per me diventa un corridore con la C maiuscola. Io lo spingo a correre anche su strada, ma al momento non mi vuole dare ascolto. Spero che nei prossimi anni cambi idea perché ha le qualità per diventare un gran bel corridore, se dovesse coniugare entrambe le attività.

A che punto è la crescita di Bertolini e Dorigoni?

Bertolini ha ancor tanti anni davanti, è vero, ma mi aspettavo qualcosa in più da lui. Ha avuto offerte per correre in Belgio, ma ha preferito restare in Italia: ha corso comunque con Guerciotti, la società italiana più blasonata. Sono scelte personali e vanno rispettate. Dorigoni ha fatto vedere cose veramente importanti lo scorso anno: arriva da un infortunio, ma da adesso in avanti se cambierà marcia potrà dimostrare il suo reale valore.

Quanto è influenzato l’interesse del ciclocross, anche in Italia, da un personaggio come van der Poel?

Tanto, soprattutto dal punto di vista dello spirito di emulazione e del carisma che trasmette. Da quello che fa in gara, ma anche come si muove come personaggio, sui social network. Poi quando corre dà spettacolo e i ragazzini vanno matti per lui. Poi a me lui non impressiona né sorprende per quello che fa nel cross, ma per quello che è capace di fare su strada. La vittoria all’Amstel è un qualcosa da vedere e rivedere, da diventare matti. Passa sopra a qualsiasi prestazione che fa sul fango.

Prima si parlava di DNA ciclistico e lui ne è un esempio.

Io correvo con suo papà Adri, che mi ha aiutato moltissimo con la lingua quando andavo in Belgio e Olanda. Fortunatamente lui correva con la Mercatone Uno su bici Pinarello e io gli portavo lì il materiale quando serviva e lui in cambio aiutava a inserirmi. Io andavo da solo in guerra con la fionda: parlare il fiammingo non è facile e inserirsi in quel contesto tanto meno. Lui mi ha dato una grossa mano. E suo figlio l’ho conosciuto che aveva due anni ed era in mezzo al fango con questa bicicletta a scorrazzare in mezzo a noi.

©La Voix des Sports, Twitter

Van der Poel ti ha impressionato su strada, ma lì deve ancora migliorare tatticamente. Vedi ad esempio il Fiandre.

E io aggiungo il Mondiale. Lui e Trentin hanno sbagliato. Mi permetto di dire una cosa sulla corsa di Matteo Trentin. È facile giudicare dal divano belli comodi, ma nessuno mi toglie dalla testa l’idea che se non si fosse levato la giacca a vento nell’ultimo giro avrebbe vinto. Con quella mossa si è raffreddato di quei cinque gradi che gli sono costati lo sprint finale.

Quali emozioni trasmette correre una corsa di ciclocross, rispetto alla strada?

Il fascino del ciclocross sta nel “momento”. A ogni giro tutto si stravolge, soprattutto quando hai una stagione come questa dove il meteo è decisivo. Dove sei passato il giro prima, magari il giro dopo trovi tutto cambiato e devi essere bravo a interpretare il percorso con situazioni che variano da un momento all’altro. Tutto ciò coinvolge sia chi corre sia chi segue la corsa e queste situazioni superano quella che magari può sembrare la”monotonia” di una corsa su strada.

Si rivede, come corridore, in Iserbyt?

È un paragone che ci sta, però mi sento di dire che tecnicamente e tatticamente ero leggermente superiore. A me lui piace molto per la grinta che dimostra nel volere chiudere questo gap che ha nei confronti di van der Poel e van Aert.

Lei per le sue caratteristiche fisiche e in bicicletta era soprannominato “il folletto”: quali sono i vantaggi di un brevilineo nel ciclocross?

Dipende dai percorsi. A Koksjide, ad esempio, hai solo degli svantaggi. Però dove bisogna guidare e avere tecnica e forza, come nel mio caso, hai i tuoi benefici. Se vogliamo fare un confronto tra Iserbyt e Aerts, sono due corridori con caratteristiche opposte: tu vedi che in certi percorsi difficili Iserbyt ha impostato e passato indenne e con abilità la curva, mentre Toon Aerts, che resta comunque un ottimo corridore, deve ancora farla. Iserbyt è molto più agile e in certi casi il baricentro basso ti aiuta molto. Anche se poi Iserbyt non ha solo l’agilità, ma è un corridore importante anche per il rapporto peso/potenza.

Lei preferiva sicuramente i percorsi tecnici e fangosi e non amava particolarmente la sabbia.

Ne parlavo pochi giorni fa con Toneatti. Siamo andati sul Tagliamento a vedere se c’era un po’ di sabbia dove poterci allenare, anche se poi quella di casa nostra non ha niente a che vedere con quella belga e servono due tipi di guida completamente differenti. A oggi, infatti, non riesco a capire come a Koksjide sono arrivato due volte quarto; una volta anche in un Mondiale dove volutamente mi hanno buttato a terra. Io su quel tipo di terreno non ho mai guidato come loro ed ero svantaggiato, mi allenavo sulla loro sabbia solo in Belgio quando ci andavo a dicembre. Che fatica: a me il Belgio non piaceva per niente. Loro sono avvantaggiati perché ci nasci con quel tipo di caratteristiche e poi affini il tutto con allenamento duraturi su quel tipo di terreno.

Che cos’ha van Aert che van der Poel non ha e viceversa?

Van Aert ha una potenza, una forza fisica e uno strapotere che van der Poel non ha, anche se Mathieu si sta avvicinando da quel punto di vista. Poi van Aert ha una testa incredibile: quando sbaglia, riesce a mettersi subito in carreggiata. Van der Poel, fino alla scorsa stagione, quando sbagliava andava in tilt e questa era la sua pecca maggiore. Tecnicamente, però, non c’è paragone: van der Poel è superiore. Tatticamente, invece, il belga si fa preferire, ma attenzione: questo è un paragone riferito alla scorsa stagione. Bisognerà vedere come saranno cambiate le cose quando i due si scontreranno nuovamente. Anche se per van Aert non sarà facile perché l’incidente del Tour de France rischia di portarselo dietro ancora per un po’.

 

 

 

Foto in evidenza: ©Twitter, Selle SMP Official

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.