Di World Tour, storture, innovazioni e informazione: intervista a Marco Grassi

Narratore innovativo e sopra le righe, Marco Grassi, fondatore nel 2002 del sito www.cicloweb.it, ha sempre cercato di arrivare primo, trasformando la sua creatura di volta in volta e cercando di stare al passo con i tempi nel complicato mondo di internet.

Ci parli dell’idea che sta alla base di Cicloweb e perché ha sentito l’esigenza di inserirsi nell’informazione attraverso questa giungla chiamata internet.

Era il 2002 e mi occupavo di ciclismo per “Il Tempo”, quotidiano di Roma. Quando cercavo notizie di ciclismo in italiano non trovavo nulla di nulla, e quindi mettemmo in piedi una prima versione. All’inizio doveva essere un sito di sport generico, ma del gruppo “storico” rimasi solo io e decisi di occuparmi solo di ciclismo. Con un collega facemmo la grafica, il sito in HTML e inventammo il marchio. Andammo online per sopperire a questa carenza. Dall’anno successivo iniziammo a inserire i risultati e soprattutto il database: corse, risultati, squadre e corridori. Questa è stata la grande forza di Cicloweb: con orgoglio, dico che fummo i primi al mondo nel 2003 ad avere un database di risultati di ciclismo e dopo ci hanno copiato in tanti.

Si sarebbe aspettato una così lunga durata del progetto? 

Sinceramente mi sarei aspettato di chiudere e in questi anni abbiamo rischiato più volte. Purtroppo lavoriamo con margini inesistenti e andiamo avanti per incoscienza. Parlo per me, che ci rimetto soldi, e per i miei collaboratori, che mi seguono in questa follia. Non c’è un vero modello di business in rete e noi abbiamo passato anni a cercarlo con il lanternino, come Diogene. Abbiamo cercato e stiamo cercando un modello valido, senza trovarlo, siamo passati attraverso diverse bolle speculative di internet. All’inizio sembrava di avere avuto l’intuizione giusta, poi però ti trovi punto e a capo. Allo stesso modo mi sarei aspettato di esplodere e di fare grandi cose.

E ora quali obiettivi si pone?

Il progetto, per certi versi, è ancora valido. Abbiamo l’e-commerce: forse abbiamo trovato questo modello di business? Magari fino a quando Amazon non si inventerà qualcosa per costringere a chiudere tutte le realtà piccole come la nostra, per ritrovarci di nuovo, come detto prima, punto e a capo. Siamo in piedi da quasi diciassette anni e inizio a essere stanco, ma non a livello di energie, mi manca la pazienza e la fiducia: vai a scontrarti con colossi che se vogliono ti tolgono l’ossigeno. Sei padrone del tuo destino fino a un certo punto: decidono a Mountain View, decide Facebook, decide Google, decide Youtube.

Che differenze ci sono tra il modo di raccontare il ciclismo sul web sulla carta stampata?

La carta stampata si trova perdente su tutta la linea nei confronti del web perché non ha la stessa tempestività. In origine anche i giornali sul web, e parlo di Gazzetta, Repubblica, seguivano gli stessi orari della redazione: la sera chiudevano e riaprivano la mattina, lasciando il sito senza notizie aggiornate. La mattina era una specie di giungla selvaggia, dove il primo che arrivava prendeva tutto. Ti racconto questo aneddoto: il punto di svolta per Cicloweb fu, purtroppo, il 14 febbraio del 2004. La notizia della morte di Pantani arrivò di sera e tutti i siti erano chiusi. Anche Tuttobiciweb era chiuso, perché spesso seguivano orari da redazione di giornale. Noi fummo i primi – o quasi – non solo a lanciare la notizia, ma a tamburo battente a fare diversi speciali legati a Marco Pantani: sapevo tutto a memoria e mi lanciai in diversi speciali corredate da immagini. Quella sera fummo gli unici ad approfondire la vicenda. Arrivare per primi ci ha favoriti sui motori di ricerca e a farci conoscere da un pubblico sempre più vasto. Eravamo aperti da nemmeno due anni, non facevamo grandi numeri, ma, nostro malgrado, ci fu la svolta per il sito. Gli appassionati scoprirono un prodotto di qualità, scoprirono il forum che da lì iniziò ad essere molto frequentato. Tornando alla domanda: la carta stampata negli anni si è messa ad inseguire il modus operandi dei siti web, sia nel racconto, che nella narrazione, che nel modo di dare le notizie. Persino nell’impaginazione. Se vedi come vengono impaginati oggi i giornali, si cerca di ricreare sulla pagina l’ipertesto, richiami ai pop-up del web a corollario del racconto delle notizie e della news. Il giornale dovrebbe essere lo spazio per l’approfondimento, ma non lo è più. L’unico vero competitor sulla carta stampata è La Gazzetta dello sport: hanno una redazione presente sugli eventi che gli da una marcia in più, possono essere sempre sul posto, per esempio fare la Vuelta con un inviato che porta ad avere notizie di prima mano. Ma oramai i giornali stanno perdendo il terreno e rappresentano il passato. Sul web, invece, abbiamo nuovi concorrenti.

Quali?

Il web è stato profondamente modificato dall’internet 2.o: tag, social network, condivisioni. Se prima era una battaglia per cercare notizie, fare telefonate, avere contatti, ora ti piovono direttamente addosso sul tuo computer o sul cellulare o te li danno i diretti interessati. Per noi che facciamo giornalismo online, i ciclisti sono diventati i nuovi competitor, perché loro appena finita la corsa ti danno direttamente la notizia, postano la foto, a volte le dichiarazioni che poi andrai a riportare sul tuo sito.

Simone Petilli tramite account di Twitter rassicura tutti sulle sue condizioni dopo il drammatico incidente a Il Lombardia: per Grassi i ciclisti sono diventati i nuovi competitor nell’informazione giornalistica.

 

Politica e ciclismo. Tancredi, nipote prediletto del Principe di Salina, nel romanzo “Il Gattopardo” dice: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“. Da Verbruggen a Lappartient, passando per McQuaid e Cookson, cos’è cambiato nel ciclismo?

L’unico vero innovatore del ciclismo è stato Verbruggen. Un dirigente visionario. Piaccia o meno, lui ha preso il ciclismo professionistico e lo ha rivoltato come un calzino. Noi lo abbiamo avversato in questi anni, perché questi dirigenti hanno la tendenza a trasformare l’ente che dovrebbero gestire per il bene comune nell’orticello di casa, curando solo i propri interessi, ma questo è un male atavico. Mi spiego: il ciclismo è pieno di storture, lo stesso World Tour è pieno di storture. Tutto nasce dalla vera grande innovazione che è la globalizzazione del ciclismo, un’intuizione che sulla carta ha fatto bene al ciclismo. Il ciclismo ora ha più seguito anche in paesi dove prima era considerato come una lingua straniera, però è stato fatto un errore. Non riuscire o non voler cercare di contemperare le necessità di chi già c’era, ed era a misura di un mercato di un certo tipo, con le necessità di chi è arrivato dopo. È mancato un paracadute, chiamiamolo il welfare, per organizzatori, squadre e ciclisti stessi. Ci si è ritrovati sbalzati nel giro di pochissimi anni da un mercato chiuso a sei, sette paesi, a un mercato a aperto a venti o trenta nazioni con dinamiche ed esigenze diverse. Il Pro Tour, poi World Tour, ha accentuato le distanze tra i club di prima e seconda fascia e anche tra organizzatori diversi, facendo mancare questo welfare. Nel ciclismo avrebbe potuto essere applicato in tante maniere: salvaguardando i calendari o attraverso paracaduti finanziari, oppure un indennizzo all’atto della cessione di un corridore da una piccola squadra a una grande squadra. Savio in questo senso si è mosso bene e lo ha proposto più volte: sarebbe potuto essere un bel ciambellone di salvataggio per le squadre minori. Il problema della politica nel ciclismo è che i successori di Verbruggen sono stati peggio di lui e non hanno fatto nulla per invertire la rotta. C’è stato poi l’impatto fortissimo della narrazione del doping che ha complicato le cose.

Arrivando poi alla Pax Cooksoniana di cui lei parla spesso.

Cookson ha cercato di fare le cose in maniera differente: che poi lo stesse facendo per interessi di bottega (leggasi Team Sky) o per convinzione personale, ha comunque provato a dare una risposta politica ai problemi del doping. Non si tratta di mettere la sordina a questo problema, piuttosto di trattare in maniera preventiva una materia delicatissima. Il passaporto biologico, per esempio, è stato un primo passo.

In una nostra recente intervista, Roberto Amadio ha sottolineato come la riforma in arrivo del World Tour metterà ancora più in crisi i piccoli team professional: a cosa vuole arrivare l’Uci?

Angelo Zomegnan tempo fa disse: “gli eventi del ciclismo sono una decina, tutto il resto è riempitivo“. Il ciclismo è visto così nei quartieri alti. È un ciclismo che sta assumendo sempre di più i connotati degli sport motoristici. Un numero selezionato e limitato di eventi e di squadre. Non hanno bisogno di cinquanta squadre professionistiche, a loro non interessa. Da una Professional come la Bardiani o da una squadra irlandese, loro non hanno guadagno. Hanno bisogno di un livello elevatissimo, corse che vendono diritti in tutto il mondo, un calendario noto e ben scansionato, e in questo modo pensano di poter vendere maggiormente i diritti. Dare seguito e vendere meglio il prodotto. La visione di un ciclismo parcellizzato in mille squadre di provincia va a cozzare con una visione turbocapitalistica che hanno loro dello sport o per meglio dire dello show business. Assomiglia molto all’idea della Superlega del calcio. Non so quanto questa cosa sia fattibile, il ciclismo ha delle sue peculiarità, altrimenti si finisce per inaridire la falda. Di sicuro il Giro è favorito da questo processo: negli anni è cresciuto esponenzialmente, però i piccoli annaspano.

Dino Buzzati ha raccontato in maniera meravigliosa il Giro d’Italia del 1949 (foto @gazzetta.it)

 

Buzzati scrisse durante il giro del 1949: “Il Giro, questo almeno è il parere dei professori, non ha più niente da dire di grosso, neppure nell’ultima tappa di domani che ci porterà a Monza. E gli animi si sono già un poco afflosciati nella malinconia, come succede sempre quando si è alla fine, non importa se ciò che finisce sia bello o brutto. Perché allora l’uomo allora si accorge quanto sia veloce il tempo e breve la vita“. Lappartient, ma in generale l’UCI, da tempo ha messo sul tavolo l’idea di ridurre il Giro a una corsa di due settimane con la conseguenza di accorciare questo tempo già così breve che ci appartiene e che ci accompagna durante la corsa. Secondo lei perché esiste una proposta di questo genere?

Lappartient mi sembra un fedele specchio dei tempi: parla tanto, in linea con certi personaggi della politica. Vietare il tramadol è una rivoluzione gattopardiana. Forse era meglio che Lappartient avesse aperto un agriturismo dalle sue parti. L’obiettivo è dare una posizione definitiva al Tour de France, e farla diventare l’unica corsa importante e ancorata al passato. Tutto però secondo me dovrebbe portare nella direzione opposta: allungare di un’altra settimana i grandi giri, che porterebbe ancora più visibilità e sponsor alle corse, al territorio. Fai 28 giorni non 23: per un mese hai occhi puntati addosso e copertura totale dei media. Riducendo la corsa, segheresti le gambe a delle strutture che hanno raggiunto un loro equilibrio. Tutto ciò potrebbe anche portare alla chiusura di queste corse.

Secondo lei l’UCI cosa dovrebbe fare per migliorare il suo prodotto a livello televisivo e di trasmissione delle immagini anche tramite web?

Dare maggiore copertura alla pista e al ciclocross e dare una fruibilità più semplice. Il problema è che, al momento, questi eventi non hanno una grande entrata nel bilancio. Forse dovrebbero attuare una politica lungimirante, come ad esempio cederli in maniera gratuita e trasmetterli come fa PMG Sport con le corse della Ciclismo Cup, che dà gratis le immagini a diversi player e siti per fare numeri maggiori e raggiungere più persone possibile. E le gare della Ciclismo Cup sono state molto seguite all’estero, persino in Sudamerica o Norvegia hanno avuto ottimi riscontri. E poi io aspetto questa novità: il nome in sovraimpressione sui corridori, in modo da capire meglio chi è, dov’è, chi attacca. Capisco possa essere complicato perché i corridori sono tanti, ma spesso non si capisce chi è in fuga, chi si stacca, i gruppetti che si formano soprattutto nelle corse del pavé, sarebbe bello nelle volate capire dove sono i corridori. Magari selezionando tu chi vuoi. Questa sarebbe una svolta epocale.

Ha anticipato così il discorso “ciclismo pedalato”: che stagione si aspetta su strada?

Mi aspetto un grande e spettacolare Giro, che continui la sua rincorsa al Tour. Mi aspetto un Tour barboso, sulla falsariga dei precedenti, e una Vuelta del tutto trascurabile. Mi aspetto una Liegi battagliata e finalmente decente, e una Sanremo vinta da un velocista.

Jasper Stuyven, qui in fuga con Trentin, è atteso da Grassi come vincitore di una grande classica sul pavé (foto @https://www.flickr.com/photos/sarflondondunc/)

 

Grandi classiche: chi attende con maggiore interesse?

Io stravedo per Stuyven. Lo scorso anno è stato sempre piazzato e non ha vinto mai, mi aspetto che vinca una classica importante. Sagan lo vedo più al Mondiale, la Sanremo la vedo una maledizione per lui, se arrivano in volata perde. Magari però può vincere l’Amstel. Sulle Ardenne vedo Alaphilippe, Simon Yates Valverde.

Tralasciando i problemi economici, o i freddi numeri dei professionisti italiani presenti nel World Tour: a livello di corridori, non solo per il presente, il ciclismo italiano è davvero così in crisi?

Siamo in mezzo a un passaggio di epoca e sembra interminabile, ma è normale. Come tra Saronni, Moser e l’arrivo di Bugno a livello di grandi giri sembrava che il ciclismo italiano fosse finito determinando un momento di smarrimento. Ora siamo al tramonto dell’epoca Nibali e Aru non potrà mai raccogliere l’eredità che si fa via via più pesante, visto quello che vince il siciliano. Nibali è un grandissimo, Aru invece il meglio lo ha alle spalle: per le corse a tappe sono molto preoccupato. Se perdi gli uomini per i grandi giri significa che perdi sessantatré giorni di gare: una brutta ferita per il nostro movimento. Allora concentriamoci di più sui velocisti: alle spalle di Viviani ci sono corridori che magari oggi li vedi poco, ma possono esplodere da un momento all’altro, penso a Consonni e Moschetti, ma anche altri che magari sono fra Juniores e Under 23. Costruire un corridore da corse a tappe invece è complicato. Fabbro mi piace molto, Conci è acerbo: sono ottimi corridori, ma li vedo lontani da primeggiare anche in futuro per le classifiche finali. Formolo è un buon corridore, ma secondo me più di così non può dare. Mi piace come tiene duro, ma è lontano dai grandi corridori per vincere un Giro o una Vuelta. Anche Nibali alla loro età fece intravedere cose buone, anche se aveva altra stoffa. A tal proposito ricordo un articolo di Cribiori su BiciSport che invitava Nibali ad andare a raccogliere pomodori, ritenendolo una promessa mancata completamente. Questo per dire: se noi oggi abbiamo un ventiduenne, ventitreenne come Conci o Fabbro, minimo dobbiamo aspettare altri tre o quattro anni per vederlo competere a grandi livelli, tre o quattro anni che dovevano essere coperti da Aru: e ho detto tutto con questa affermazione. Invece non siamo messi male per le classiche, anzi: Moscon, Trentin, Colbrelli, lo stesso Formolo, possono dire la loro.

Aru pensieroso: secondo Grassi, il sardo ha già il meglio alle spalle (@Foto Antonino Caldarella)

 E Fabio Aru?

A quanto ho capito di Aru, mi sembra uno con un carattere spigoloso e che possa patire oltremisura questa carenza di risultati. Il meglio ce l’ha alle spalle, sono convinto, magari non da andare a raccogliere pomodori, ma ho questo timore.

Van der Poel sta dominando la stagione più degli anni scorsi, Van Aert sta forse pagando la stagione intensa su strada o sta preparando l’ennesimo scherzetto iridato?

Van Aert mi sembra totalmente scarico e allo stesso tempo c’è un van der Poel in palla e che vincerà il Mondiale. O almeno, mi auguro che lo vinca così si calma, farà meno il cannibale e magari si dedicherà anche di più alla strada. Van Aert ha avuto un grande impatto nel ciclismo su strada di grande livello. Questo ha fatto la differenza nella sua testa: Van Aert sa che da van der Poel perde lo stesso e piuttosto che fare secondo e terzo, punta di più sulla strada.

Chiudiamo con i pronostici: i vincitori delle Monumento, del Mondiale e dei tre grandi giri.

Sanremo: Viviani; Fiandre: Stuyven; Roubaix: Degenkolb; Liegi: Simon Yates; Lombardia: Valverde. Poi mi piace Dumoulin e quindi dico che vincerà Giro e Mondiale. Al Tour è scontato: Froome. Mentre la Vuelta la vedo vincere da un giovane: Miguel Ángel López.

Alessandro Autieri

Alessandro Autieri

Webmaster, Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. Doppia di due lustri in vecchiaia i suoi compagni di viaggio e vorrebbe avere tempo per scrivere di più. Pensa che Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert siano la cosa migliore successa al ciclismo da tanti anni a questa parte.